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Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 70331 volte)
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« inserito:: Giugno 15, 2007, 12:09:46 am »

Ma la mafia va intercettata

Gian Carlo Caselli


Legislazione d´emergenza! Decine di volte questo marchio negativo (con conseguente rigetto o presa di distanza) è stato appioppato ad interventi in tema di antiterrorismo o antimafia. Perché erano interventi del «giorno dopo», dopo che si era verificato un qualche fattaccio che costringeva ad intervenire: non in maniera meditata - si sosteneva - ma d´urgenza. E via a storcere il naso. Oggi, mi sembra ispirata alla stessa logica emergenziale la progettata riforma in tema di intercettazioni.

Ci si muove, o si accelera il movimento, soltanto il giorno dopo rispetto a qualche scandalo, fuga di notizie, polemica, strumentalizzazione. Ma questa volta non si tratta di reagire ad attentati terroristici o mafiosi. Più semplicemente, è in gioco la preoccupazione (comprensibilmente maggiore in chi più conta o più ha da perdere) di non essere indebitamente sbattuti in prima pagina. Richiamo questo profilo non per negare l´opportunità di una qualche riforma - compito del legislatore - ma per rimarcare quanto sia contraddittorio sventolare il cartellino rosso dell´emergenza solo in alcuni casi e non in altri.

Com´è noto, il 17 aprile scorso la Camera dei deputati ha approvato praticamente all´unanimità (nessun voto contrario e 7 astenuti) il ddl Mastella che rivoluziona la disciplina delle intercettazioni. La nuova legge è ora al Senato per la definitiva approvazione. Per l´impianto complessivo e per ciascuno dei molti articoli del ddl si possono formulare un´infinità di osservazioni. Mi limito, in questa sede, a due rilievi. Il primo in parte positivo (ma con forti riserve). Il secondo decisamente critico.

Va segnalata, innanzitutto, la nuova disciplina in materia di gestione degli atti relativi alle intercettazioni. Essa prevede che siano depositate (ciò che le rende non più segrete) esclusivamente le intercettazioni che si dimostrano, con provvedimenti motivati, rilevanti per il processo. Le altre conversazioni (non rilevanti o di per se stesse inutilizzabili) devono essere custodite in un «archivio riservato»: restano quindi segrete e sono destinate alla distruzione. Nello stesso tempo è vietata la trascrizione di ogni circostanza o fatto estraneo alle indagini. Devono comunque essere espunti i nomi dei soggetti estranei all´inchiesta.

Sono così fissati dei paletti rigorosi, che soddisfano l´esigenza di utilizzare lo strumento delle intercettazioni (irrinunciabile per i più gravi reati) senza oltrepassare la soglia di quanto è strettamente necessario per accertare la verità, cioè la colpevolezza o l´innocenza degli indagati.

A fronte di questi robusti paletti, risulta eccessivo il divieto - previsto dalla nuova legge - di pubblicare il contenuto delle intercettazioni, anche quando non siano più coperte dal segreto, fino alla conclusione delle indagini o addirittura (se si apre il dibattimento) fino alla sentenza di appello. Viene ad essere eccessivamente compresso, infatti, il diritto dei media di informare e dei cittadini di essere informati su vicende di interesse pubblico (oltre che sul funzionamento della giustizia), privilegiando oltre misura il pur importante diritto alla riservatezza. Il tutto sigillato con la previsione ( in caso di pubblicazione arbitraria) di sanzioni pesanti, in particolare l´ ammenda fino a centomila euro: una somma che poche testate potrebbero reggere, con possibili gravi ricadute sull´effettività del pluralismo dell´informazione.

L´altro rilievo, decisamente negativo, riguarda la durata delle intercettazioni( 90 giorni per quelle telefoniche; 45 per le ambientali) e la disciplina delle proroghe. Non si capisce, per cominciare, perché mai debbano durare di meno proprio le ambientali, soprattutto se si considera che sono quelle tipiche dei processi di mafia, dove le indagini sono sempre di speciale o eccezionale complessità. C´è poi il fatto che è sì possibile prorogare l´intercettazione oltre i 90 o 45 giorni, ma soltanto se sono emersi nuovi elementi investigativi.

Ancora con riferimento specifico ai processi di mafia, l´esperienza insegna che le organizzazioni criminali ragionano con tempi lunghi, non hanno quasi mai fretta.

Gli inquirenti perciò devono armarsi di tenacia e pazienza. Se concrete e precise risultanze probatorie (per esempio le rivelazioni di un pentito attendibile e «riscontrato») portano a ritenere «sensibile» un certo luogo, perché vi sono state ed è ben probabile che vi si ripetano attività di sicuro interesse per le indagini, gli inquirenti cercheranno di piazzare «una cimice» in quel luogo (di pertinenza di un boss o di persone a lui strettamente legate: perciò, piazzarvi una «cimice» significa affrontare enormi rischi e superare sempre difficoltà estreme, di assoluta evidenza).

Se poi ci riescono, gli inquirenti devono rimanere in ascolto h 24. Per giorni, magari per mesi e mesi, le conversazioni possono essere insignificanti, finchè non arriva l´interlocutore giusto o il momento buono. Un fatto nuovo, un imprevisto, una visita, una riunione d´affari o un summit (non è che i mafiosi ne tengano uno alla settimana...), qualcosa che induce i presenti a «sbottonarsi» nei loro colloqui.

Ma se ciò non accade nei primi giorni, stop, più niente da fare. Le «cimici» piazzate con tanta fatica, scavalcando pericoli micidiali, diventano inutili. E anche la più promettente pista d´indagine - ancora capace di «produrre» risultati - deve essere abbandonata, chiusa. Francamente, una mannaia irragionevole. Un lusso che non possiamo concederci. Meno che mai nella lotta alla mafia.

Pubblicato il: 14.06.07
Modificato il: 14.06.07 alle ore 14.40  
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« Ultima modifica: Aprile 16, 2012, 12:18:28 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 15, 2007, 12:15:10 am »

POLITICA

Il candidato sconfitto nella corsa a sindaco di Palermo continua a lanciare pesanti accuse

E annuncia di avere anche scritto lettere a Napolitano, Prodi, Amato e Mastella

Orlando: "257 urne manomesse"

Consegnato un dossier alla Digos

 

PALERMO - Ancora una volta, Leoluca Orlando - sconfitto nella corsa a sindaco dal suo avversario Diego Cammarata - lancia pesanti accuse, sulle elezioni per il comune di Palermo. In un comunicato diffuso dal suo ufficio stampa, si sostiene che "257 urne elettorali (pari a quasi la metà degli elettori) contenenti le schede per le elezioni del Sindaco di Palermo sono state sostituite o manomesse durante o subito prima dello scrutinio avvenuto il 14 maggio".

"Lo staff di Leoluca Orlando - prosegue la nota - consegnerà oggi alla Digos e domattina alla Procura della Repubblica le prove di tale fatto, chiedendo l'immediato sequestro di tutto il materiale elettorale compresi verbali e schede relative alle 257 sezioni in cui i fatti si sono verificati".

Ieri una decina di candidati alla carica di consiglieri del centrosinistra aveva annunciato di avere scritto una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al presidente del Consiglio Romano Prodi e ai ministri dell'Interno, Giuliano Amato e della Giustizia, Clemente Mastella, denunciando presunte irregolarità.

In una conferenza stampa i promotori dell'iniziativa avevano sostenuto che su seicento verbali delle sezioni elettorali, depositati nell'apposito ufficio del comune, "solo cinquanta possono considerarsi formalmente e totalmente regolari".

(14 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 24, 2007, 04:18:49 pm »

CRONACA

Cosa Nostra contraria al provvedimento di clemenza: la scarcerazione di decine e decine di cani sciolti era vista con preoccupazione

E i capi mafia dissero "L'indulto ci rovina"

di FRANCESCO VIVIANO


PALERMO - Anche Cosa nostra era contraria all'indulto. La scarcerazione di decine e decine di cani sciolti che hanno beneficiato dell'indulto mettendosi subito all'opera compiendo furti, rapine, scippi e tentando anche di soppiantare alcuni boss in carcere per incassare il pizzo da commercianti ed imprenditori, avrebbe provocato la reazione dei boss della mafia che avevano stilato una lista di "scappati di casa" (picciotti senza regole) che dovevano essere ammazzati. Per questa ragione, per evitare un bagno di sangue, la Procura di Palermo d'intesa con i carabinieri del comando provinciale ha deciso di agire in fretta fermando nove tra boss e mafiosi rampanti che avevano difficoltà a gestire i loro mandamenti.

Furti, scippi, rapine, "troppa confusione" in giro, a Palermo ma anche in provincia. E questo a Cosa nostra, ai boss che ancora erano in libertà, non andava per niente bene. Bisognava mettere "ordine" e soprattutto insegnare a questi "scappati di casa" l'educazione.

Gli investigatori sono giunti all'identificazione dei nove arrestati e dei loro progetti sanguinari attraverso la decifrazione dei pizzini di Provenzano, trovati nel covo di Montagna dei Cavalli al momento del suo arresto, l'11 aprile del 2006. Per parlare dei suoi interlocutori, Provenzano utilizzava un codice nascosto tra le frasi della Bibbia. Sigle che apparentemente indicavano autori del Vecchio e del Nuovo Testamento, mentre in realtà nascondevano l'identità di boss e picciotti.

Quando quel codice è stato decrittato, i carabinieri hanno messo sotto controllo abitazioni, automobili, telefoni fissi e cellulari dei componenti della cosca. Dall'ascolto di quelle conversazioni è emerso il quadro inquietante che ha indotto gli investigatori a non perdere altro tempo ed arrestare i nove boss e picciotti. "Il problema dei ladri c'è stato sempre, non solo qua, in tutte le parti. Ora con quest'indulto che hanno dato... siamo rovinati. A Palermo c'è una situazione: farmacie, supermercati che non dormono tranquilli. Ma che scherziamo! È andata a finire a bordello".

A parlare, non sapendo di essere intercettati, erano Giuseppe Libreri e Giuseppe Bisesi, infastiditi da una serie di furti nel territorio controllato dalla loro famiglia.

I due si lamentavano del fatto che, dopo l'indulto, i piccoli pregiudicati erano usciti dal carcere e le attività commerciali erano continuamente bersagliate dai furti. Proprio per "far fronte" all'emergenza microcriminalità la cosca di Termini Imerese, capeggiata da Bisesi, aveva deciso di eliminare alcuni giovani ladri che rubavano senza l'autorizzazione della mafia. "La testa ci si deve scippare (strappare, ndr). Così, dice, diamo il segnale per tutti! È la soluzione giusta! Ci sono questi scappati di casa e gli si deve rompere le corna, punto e basta!".

(24 giugno 2007) 
da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 05, 2007, 07:00:28 pm »

5/7/2007
 
Previti, l'incapacità di decidere
 
CARLO FEDERICO GROSSO

 
Ieri La Stampa ha pubblicato, in un breve trafiletto, una notizia di cronaca apparentemente marginale, sulla quale è invece opportuno riflettere con attenzione. Qualche giorno fa il comico Beppe Grillo aveva accusato (sul suo blog) il presidente della Camera di non fare nulla per espellere dalla Camera l'on. Previti, nei cui confronti è stata pronunciata una sentenza definitiva di condanna penale che comporta, per la sua tipologia e la sua gravità, l'interdizione dai pubblici uffici e pertanto la decadenza dal mandato parlamentare.

Bertinotti ha risposto che «la Camera dei Deputati non è organizzata come una monarchia assoluta ma secondo il modello dello stato di diritto» e che «la questione dell'ineleggibilità e della decadenza è regolata dalla legge, e non è il presidente a decidere», ed ha soggiunto che «nei confronti di Previti è, comunque, aperto un procedimento, e sarà l'aula a decidere».

Questa risposta, formalmente, è ineccepibile. Peccato, però, che eluda i termini reali della questione che Grillo intendeva, evidentemente, sollevare con la sua accusa un po' provocatoria di inerzia presidenziale. Perché è vero che il presidente della Camera poco o nulla può fare, specificamente, contro le lungaggini della Commissione parlamentare che sta occupandosi del caso Previti. Ma è altrettanto vero che, stato di diritto alla mano, se le regole devono essere rispettate, devono essere rispettate a trecentosessanta gradi.

Non si comprende infatti per quale ragione, ad oltre un anno di distanza dalla pronuncia giudiziale che ha sancito l'interdizione dalla funzione pubblica, il Parlamento non si sia ancora pronunciato sulla decadenza. Consentendo che un parlamentare, che secondo le regole stabilite dalla legge penale avrebbe già dovuto abbandonare da tempo il suo incarico, continui invece, imperterrito, a ricoprirlo. Capisco quanto il caso Previti sia complesso, quanto le garanzie difensive debbano essere salvaguardate e quanto la competente Commissione parlamentare, presieduta da un deputato di Forza Italia, possa avere trovato intoppi nel procedere con speditezza nel suo lavoro. Sono d'altronde convinto che più d'un parlamentare, regolamenti alla mano, a questo punto mi spiegherà che la trattazione della pratica è comunque proceduta nel rispetto della legalità e dell'efficienza. Per carità, avrà senz'altro ragione. Ciò non toglie che a noi cittadini comuni riesca un po' difficile apprezzare che una questione così delicata, ma nello stesso tempo così urgente, come la decadenza di un parlamentare condannato, impieghi tanto tempo ad essere risolta. Se esiste una norma penale che stabilisce l'interdizione dai pubblici uffici per chi è condannato per determinati reati, logica vorrebbe che si decidesse in fretta, evitando la protrazione abnorme di una situazione d'incertezza sulla condizione soggettiva del parlamentare sottoposto a procedura di decadenza.

E' pertanto comprensibile che Grillo non sia stato soddisfatto dalla risposta un po' pilatesca di Bertinotti ed abbia reagito a muso duro, scrivendo nel suo blog che, se nessuna autorità è in grado d'impedire che chi non ne ha più diritto continui ad essere deputato, «allora, caro Fausto, le istituzioni hanno fallito». Si potrebbe soggiungere: ma allora, caro presidente, perché, per il rispetto sostanziale di quel principio di legalità al quale lei stesso fa riferimento nella sua risposta a Grillo, invece di limitarsi a menzionare le regole esistenti non si attiva per modificare i regolamenti e le prassi che consentono indebite lungaggini nell'istruttoria di pratiche come quella che concerne il condannato Previti? Se lo facesse, rafforzerebbe lo stato di diritto ed eviterebbe incomprensioni della gente nei confronti del lavoro del Parlamento e del funzionamento delle istituzioni.

Nella storia repubblicana del nostro Paese vi sono stati, sicuramente, periodi più difficili di quello che stiamo vivendo. Guerra fredda, terrorismo, servizi deviati, depistaggi, stragi, spionaggi, corruzione. Oggi c'è tuttavia un tarlo che corrode. La perdita di fiducia diffusa della gente nei confronti della politica e delle istituzioni. Il rifiuto. Il distacco. La noia per le solite facce, i soliti riti, i soliti discorsi. La rabbia nei confronti della casta e dei suoi privilegi veri o presunti. L'irrisione per l'incapacità di decidere. L'antipolitica che avanza. Se non si disinnesca la rabbia, se non si supera il rifiuto, se non si colma il distacco, le conseguenze potrebbero essere a loro volta esiziali.

Ecco perché, nel piccolo episodio di cronaca dal quale si è tratto spunto per queste brevi riflessioni, la politica, ancora una volta, sembra mostrare di non essersi accorta di ciò che sta accadendo. Grillo, ideologicamente impegnato, intelligente e giustamente irridente come si conviene ai comici, facendo riferimento ad un'ipotesi emblematica di ritardo peloso nell'espletamento di un'incombenza parlamentare chiede al presidente della Camera: ma che cosa aspetti ad intervenire? Il presidente, eludendo il problema, risponde: rispetto le regole date dello stato di diritto. Molta gente, ho l'impressione, a questo punto continuerà a pensare che la politica costituisce davvero una casa separata e avrà un po' di fiducia in meno nell'istituzione parlamentare.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 19, 2007, 11:16:21 am »

19/7/2007

Paolo Borsellino: il ricordo a quindici anni dalla strage
 

La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini

PALERMO
Oggi è il giorno della memoria nel ricordo di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, e degli agenti della polizia di Stato che gli facevano da scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio Traina e Vincenzo Limuli, massacrati nella strage di via Mariano D’Amelio il 19 luglio 1992 e di cui quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario.

La giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti, messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del Senato Franco Marini, del leader di An Gianfranco Fini, del sindaco di Roma Walter Veltroni e del governatore della Puglia Nichi Vendola. Ma il magistrato sarà ricordato con diverse cerimonie in tutta la Sicilia e anche in altre città d’ Italia.


Marini alle 10,30 circa, appena giunto in città, deporrà una corona d’alloro sul cippo che ricorda la strage in via D’Amelio davanti l’abitazione della madre del magistrato dove lui si stava recando quando è stato fatto brillare l’ esplosivo che lo ha ucciso. I magistrati ricorderanno il loro collega nell’aula magna del palazzo di Giustizia, alle 11, ma molti altri saranno i momenti di ricordo che culmineranno in serata con la fiaccolata organizzata da Azione giovani cui parteciperà anche Fini.


Questo anniversario è segnato dalle notizie sulla continuazione dell’inchiesta nissena sui mandanti occulti della strage e dall’accorato appello del fratello di Borsellino, Salvatore, che chiede risposte alle tante domande sulla strage che presenta tuttora lati oscuri.

da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 26, 2007, 10:54:51 pm »

Il Riesame conferma il sequestro dei crediti Impregilo.

Il capo dei pm: una nostra vittoria, pronti a presentare le conclusioni

Rifiuti, Bassolino verso il processo

Dario del Porto


L´inchiesta sul ciclo dei rifiuti verso l´udienza preliminare. Fra meno di una settimana, la Procura di Napoli presenterà la richieste di rinvio a giudizio o di archiviazione nei confronti dei 29 protagonisti dell´indagine che coinvolge, fra gli altri, anche il presidente della Regione Antonio Bassolino. La decisione, sottolinea il procuratore capo Giandomenico Lepore, arriverà «prima dell´inizio del mese di agosto».

A spianare la strada verso le conclusioni è giunta ieri l´ordinanza con la quale il tribunale del Riesame (presidente Anna Grillo) ha respinto il ricorso presentato dai legali di Impregilo, Fibe, Fibe Campania e Fisia Italmpianti contro il sequestro di crediti per oltre 700 milioni di euro che era stato disposto il 28 giugno scorso dal giudice Rosanna Saraceno nell´ambito del filone dell´indagine sulle società. Impregilo, che ieri ha dovuto sopportare un calo del 3,5 per cento in Borsa, ha già annunciato ricorso per Cassazione. «Purtroppo, e non per colpa loro, i giudici hanno avuto poco tempo per pronunciarsi, ma sono le regole del gioco», commenta il difensore di Impregilo, l´avvocato Alfonso Maria Stile. Il gruppo ha cambiato compagine societaria e management rispetto al periodo sotto inchiesta. Nei giorni scorsi è stato nominato presidente di Fibe l´ex prefetto di Milano Bruno Ferrante ed è stata impugnata al Riesame anche l´ordinanza del gip Saraceno che vieta per un anno alle aziende di contrattare con la pubblica amministrazione in materia di rifiuti.
Per adesso però sul tavolo resta un nuovo punto a favore dell´accusa.

Al centro dell´inchiesta condotta dai pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo c´è l´appalto sul ciclo di smaltimento dei rifiuti conferito all´associazione temporanea d´imprese del gruppo Impregilo e risolto per legge il 30 novembre 2005. Un accordo che, è l´ipotesi dei pm, «le società affidatarie sapevano già di non poter rispettare». Secondo i magistrati l´illecito amministrativo contestato alle aziende trova il suo presupposto nella truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato contestata ad alcuni degli indagati: fra questi, Bassolino, che entra nell´inchiesta per il periodo trascorso alla guida del commissariato straordinario per l´emergenza rifiuti, l´ex vicecommissario Raffaele Vanoli, l´ex amministratore delegato di Impregilo Piergiorgio Romiti e l´ex amministratore delegato di Fibe, Armando Cattaneo.

L´ordinanza del gip Saraceno contiene giudizi severi sulla gestione Bassolino del commissariato straordinario. Si parla ad esempio di «sostanziale inerzia della struttura». Rilievi che il governatore ha sin qui sempre respinto, affermando di non aver ricevuto alcun tornaconto dalle condotte che gli vengono contestate. Il quadro attuale del procedimento fa però della richiesta di rinvio a giudizio l´ipotesi (al momento) più probabile per la maggior parte degli indagati.

Spiega il procuratore Lepore: «L´ordinanza del Riesame rappresenta una vittoria della Procura, è una nuova conferma dopo quella che avevamo ottenuto davanti al gip. Questo vuol dire che la linea tracciata dalla nostra indagine era giusta. Adesso andremo avanti». Il capo dei pm assicura che le valutazioni sul capitolo investigativo che riguarda le persone fisiche «non erano condizionate dall´esito dell´udienza davanti al Riesame.

Si tratta di un filone che ha vita autonoma, sul quale questo appuntamento aveva un´influenza relativa». A determinare un rinvio delle conclusioni (l´avviso di chiusura delle indagini era stato recapitato agli indagati dieci mesi fa, il 7 settembre scorso) sono state prevalentemente, spiega Lepore, «questioni di carattere tecnico. Ora potremo accelerare i tempi, speriamo di poter presentare le richieste entro il primo di agosto».

La parola passa dunque ai pm Noviello e Sirleo, coordinati dai procuratori aggiunti Aldo De Chiara e Camillo Trapuzzano. L´indagine si compone di 100 faldoni e decine di migliaia di pagine di atti. Una enorme mole di documenti, depositata dopo la notifica degli "avvisi di chiusura", che ha determinato buona parte dei «problemi tecnici» ai quali faceva riferimento il procuratore Lepore.

In una lettera indirizzata al capo dell´ufficio il 21 novembre 2006, infatti, i pm Noviello e Sirleo evidenziavano che le copie degli atti non corrispondevano in molte parti agli originali e che per questa ragione, e verosimilmente a causa della «inettitudine di qualcuno», era stato necessario effettuare le copie altre due volte, triplicando le spese di carta e toner. Un ostacolo in più, sulla strada di un´indagine complessa, che sembra ormai prossima al capolinea. E all´orizzonte già si intravede la polemica fra i poli: Maurizio Gasparri, di An, chiede di «passare alla rapida individuazione delle responsabilità di complici politici e soci in affare». (26 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Aprile 05, 2010, 10:52:57 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 01, 2007, 11:56:28 pm »

POLITICA

Inchiesta de L'Espresso: abitazioni a cifre stracciate per vip, politici e sindacalisti

Trenta vani catastali acquisiti da Casini. Affari anche per Cardia e Bonanni

"Case a politici e sindacalisti a prezzi super-scontati"

Un intero edificio per il Guardasigilli. Mastella: querelo

di SERENELLA MATTERA


 ROMA - Case a prezzi stracciati per vip, politici e sindacalisti. Lo rivela un'inchiesta de L'Espresso in edicola oggi, dal titolo "Casa nostra". Una squadra "vasta e assortita", è la denuncia del settimanale, ha potuto comprare appartamenti a Roma a costi di molto inferiori a quelli di mercato. Una squadra bipartisan che va dall'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, agli ex presidenti di Camera e Senato Luciano Violante e Nicola Mancino. Dalla famiglia del leader Udc Pier Ferdinando Casini a quelle del ministro della Giustizia Clemente Mastella e del primo cittadino di Roma Walter Veltroni. Coinvolti nell'inchiesta anche altri potenti, come il presidente della Consob Lamberto Cardia e il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

Le prime anticipazioni, trapelate ieri, hanno sollevato la reazione di alcuni dei politici chiamati in causa. Mastella ha annunciato una querela, mentre Cossiga si è limitato a spiegare: "Ho comprato a prezzi scontati, ma non ingiustamente". Duro il presidente del Senato, Franco Marini: "Sono false le notizie che mi riguardano (due piani di un palazzo ai Parioli pagati 1 milione di euro, ndr). Io non ho avuto nessuno sconto ma ho comprato a prezzo di mercato la casa che avevo in affitto da circa 20 anni. Mi pare si stia superando ogni limite con queste pseudo-denunce".

Nel 1996 l'inchiesta "Affittopoli" svelava come gli enti previdenziali dessero in locazione ai politici appartamenti in pieno centro a Roma a prezzi stracciati. Oggi L'Espresso parla di una "Svendopoli", perché quelle stesse case "sono state svendute definitivamente e il privilegio è stato reso eterno". Per fare un esempio, il presidente della Consob Cardia pagava 1 milione e 100 mila lire di affitto nel 1996 e ha comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e due posti auto vicino al Palaeur. Mentre il sindaco Veltroni, che "è nato nelle case dell'ente previdenziale dei dirigenti (Inpdai)", ha comprato dalla Scip, ex Inpdai, 190 metri quadri a via Velletri, zona Piazza Fiume, per 373mila euro. Un prezzo basso "per effetto non di un'elargizione personale, ma degli sconti collettivi".

Anche le società private Generali e Pirelli, secondo L'Espresso, nella vendita di immobili hanno avuto un occhio di riguardo per alcuni politici, come Casini e Mastella. A ex suocera, ex moglie e figlie del leader Udc sono andati 30 vani catastali in via Clitunno (zona Trieste) a 1,8 milioni di euro (prezzo di mercato 5100-6900 euro al metro quadro). Mentre la famiglia Mastella si è aggiudicata 26 vani (5 appartamenti) di un edificio di Lungotevere Flaminio a 1,2 milioni di euro. "Non ho certo approfittato di favori - ha replicato il Guardasigilli - tant'è che ho dovuto fare un mutuo di ben 500mila euro".

(31 agosto 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 22, 2007, 10:07:46 pm »

'Ndrangheta, così preparano attentati contro i magistrati

Enrico Fierro


La ’ndragheta è pronta a colpire i magistrati della direzione antimafia di Reggio Calabria. È quanto emerge da una serie di intercettazioni telefoniche e da alcune «confidenze» di fonti «attendibilissime» fatte ai carabinieri del Ros reggino. Ci sono stati vertici nella città dello Stretto, riunioni nella Piana di Gioia Tauro per decidere di assestare un colpo a Salvatore Boemi, numero uno della Dda reggina, e ai suoi pm impegnati in inchieste delicatissime. Il 25 luglio parlano due boss i cui nomi vengono tenuti segreti e che i carabinieri chiamano «Alfa» e «Gamma». «Sono i magistrati che ti annientano, Gratteri, Di Palma, Scuderi, Boemi...», dice «Gamma».

Nicola Gratteri è il sostituto procuratore che indaga sul traffico internazionale di stupefacenti e sui rapporti fra cosche calabresi e cartelli colombiani. Un business enorme, che l’ambasciatore Sabas Pretelet de La Vega calcola in 100mila milioni di euro, «una cifra pari al 100% del Pil colombiano». Roberto Di Palma è il pm che ha scoperto i traffici delle cosche di Rosarno, della Piana e di Reggio città, sui lavori della «A3» disvelando il meccanismo della «tassa di sicurezza nei cantieri», una tangente del 3% su tutti i lavori. Scuderi, invece, è il procuratore reggente che ha richiamato al vertice della Direzione antimafia Salvatore Boemi.

«Il mastro di tutto», lo definisce il pentito «Alfa». «Gliel’ha detto De Sena (Luigi, ex prefetto di Reggio, ora vicecapo vicario della Polizia, ndr) a Reggio se non viene Boemi non arrestano nessuno». Hanno una conoscenza perfetta delle dinamiche interne agli uffici giudiziari, gli uomini della ‘ndrangheta e lo dimostrano quando «Gamma» sottolinea il fatto che Boemi «ora vuole creare il pool». «Come a Palermo», aggiunge «Alfa». I clan calabresi sentono il fiato della magistratura sul collo. Si muovono e vogliono concludere presto. «A ottobre c’è la rivoluzione», dice «Gamma» al suo interlocutore. È un modo per dire che a ottobre succederà qualcosa, che forse i piani per colpire un magistrato saranno portati a termine presto. «Le carte - dice ancora «Gamma» nel suo linguaggio criptico - devono essere apposto e per qualsiasi operazione uno ha la possibilità di difendersi». Non è solo questo colloquio ad allarmare magistrati e investigatori. Qualcosa si muove nel ventre molle della 'ndrangheta calabrese. Agli inizi di settembre nell’area di Sinopoli si è tenuto un vertice tra le famiglie mafiose della zona tirrenica e della città di Reggio nel quale sarebbe stata deliberata una vera e propria strategia «corleonese».

La fonte è di «elevata attendibilità». L’obiettivo da colpire il dottor Di Palma, ritenuto dalla famiglia Bellocco un nemico da eliminare. Al momento - notano i carabinieri del Ros - l’attentato è fermo perché manca l’ok definitivo delle famiglie della zona jonica e dell’Aspromonte che «si sarebbero dimostrate contrarie a tale azione». Le 'ndrine di quell’area, infatti, sono sotto pressione per la cosiddetta faida di San Luca e per la strage di Duisburg. Pochi giorni fa, rivelano i carabinieri, nei pressi di San Luca si è svolto un summit di altissimo livello tra le famiglie della zona aspromontana e dell’area tirrenica. C’erano rappresentanti di varie famiglie di Sinopoli e Seminara e dei Pesce di Rosarno. In quella riunione Antonio Pelle, detto Gambazza, pezzo da novanta della mafia calabrese con il grado di «capocrimine avrebbe proposto una via d’uscita. «Dobbiamo “posare” per un certo periodo il “locale” di San Luca». Vale a dire che per un arco di tempo necessario le famiglie di San Luca avrebbero dovuto sospendere ogni attività illegale, traffico di droga in modo particolare. Una soluzione che evidenzia le difficoltà del boss, il quale ha ammesso che la guerra a San Luca continua, nonostante i suoi tentativi e quelli delle famiglie di Platì e Africo per arrivare ad una tregua. «Ci sono questi giovani irruenti che non rispettano più nessuno», avrebbe confessato.

Nella lunga informativa dei carabinieri emerge un quadro allarmante sui progetti eversivi della ‘ndrangheta resi ancora più inquietanti dalle rivelazioni sulla sua penetrazione in gangli vitali delle istituzioni. «La cosca Labate, egemone in Reggio Calabria - si legge - è in grado di ricevere notizie in ordine a tutte le attività investigative condotte dalla locale Dda, attraverso degli impiegati del Palazzo di giustizia, con i quali sono legati da vincoli parentali o amicali». Un passaggio che rende adesso più chiara la vicenda degli arresti sfumati nel blitz del 24 luglio scorso. Nel mirino proprio il clan Labate al centro di una inchiesta del pm Antonio Di Bernardo. Furono arrestate 27 persone, ma i capi della cosca riuscirono a sfuggire alla cattura. In quell’occasione i magistrati reggini capirono che all’interno della procura c’erano una o più «talpe» che ancora non sono riusciti ad individuare. «Abbiamo capito - disse il procuratore Boemi - che il clan era riuscito ad intromettersi nella comunicazioni tra un magistrato e gli investigatori della polizia, un fatto inquietante che dovrà essere chiarito in tutti i suoi aspetti».

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.23   
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 10, 2007, 12:54:07 pm »

10/10/2007 (7:35)

L'ortomercato, regno di mafie e di anarchia 

Milano, viaggio nella più grande struttura d'Europa.

Tutti sanno, ma nessuno riesce a imporre l'ordine

PAOLO COLONNELLO
MILANO


L’altra notte hanno incrociato le braccia e fatto picchetti: un manipolo di facchini e operai delle cooperative dell’Ortomercato che protestavano contro lavoro nero e illegalità. E perché? Sarà anche vero che per i sindaci del Nord l’emergenza sicurezza sono gli zingari e i lavavetri, ma a fare un giro dal tramonto in poi dalle parti di via Lombroso, sede del più grande mercato ortofrutticolo in Italia, si capisce che «l’illegalità» è un concetto tutto da definire. Basta salire la rampa che fiancheggia il palazzo della Sogemi - la società del Comune che gestisce i mercati milanesi - e iniziare a dare un’occhiata.

E’ la stessa rampa che fino ad aprile saliva a bordo di una Ferrari rossa fiammante anche il boss di Africo, Salvatore Morabito, il capo della ‘ndrangheta dell’Ortomercato che mostrava all’ingresso un regolmentare tesserino da «facchino» (e sai che risate per gli addetti alla sicurezza) per poi arrivare su, fino al terzo piano del palazzo direzionale per insediarsi nei suoi uffici: ventidue stanze piene di segretarie e società di ogni genere intestate a un prestanome. Lo sanno tutti che il vero ventre molle della città è in questo porto franco dove prosperano traffici e business di ogni genere e dove, si dice, riescano a convivere le mafie d’Italia - dalla ‘ndrangheta a Cosa Nostra - in una pacifica spartizione di affari e interessi. Lo sanno tutti. E tutti, a iniziare dai politici, fingono di non accorgersene.

Lo sceriffo in pensione
Sarà per questo che della settantina di telecamere a circuito chiuso che dovrebbero funzionare su quest’area di circa 500 mila metri quadrati, pare ne siano a regime non più del 20 per cento. Pare, dicono, si mormora: l’omertà da queste parti è una religione. L’unico «security manager» mai nominato dalla Sogemi, Alberto Sala, un ex poliziotto coi fiocchi scelto dall’Amministrazione Albertini, aveva provato a riportare un po’ d’ordine giungendo perfino a scrivere un ampio rapporto su tutti gli illeciti e i rischi (terrorismo compreso) che si correvano all’Ortomercato. Ma dopo due anni di lavoro venne mandato via dai nuovi vertici della società che in realtà non l’hanno mai sostituito, affidando il suo compito a un ex vigile urbano in pensione, chiamato «lo sceriffo».

Così girando lo sguardo a 360 gradi ecco cosa si vede dalla rampa di via Lombroso: poco più sotto, nei giardinetti che vorrebbero abbellire gli ingressi e fiancheggiano il vialone dove ogni notte viaggiano dai 300 ai 500 tir per trasportare le merci, si prostituiscono i ragazzini arrivati dall’Est. Mentre davanti, su uno spiazzo che sembra non aver fine, recintato da una fragile cancellata, si stendono decine di capannoni sotto tettoie all’amianto, ovvero completamente fuorilegge: è qui che vengono ammassati gli ortaggi. E’ qui che dalle due del mattino fino all’alba, tra i fumi dei gas di scarico dei camion che non spengono mai i motori, lavorano circa tremila persone, movimentando ogni anno un milione di tonnellate di frutta e verdura. Una specie di suk mediorientale contaminato dall’amianto, dove in realtà succede di tutto e dove, insieme alla merce regolare, entra ed esce di tutto: dalla droga alle armi, fino alle batterie esauste delle auto.

Il facchino della coca
«Pensi - racconta il pm antimafia Laura Barbaini che ha coordinato l’ultima inchiesta sulla ‘ndrangheta dell’Ortomercato - che noi stavamo cercando i capi dei traffici di droga in Sud America e nel Nord Europa, quando a un certo punto dei trafficanti ci hanno spiegato che bastava cercare qui vicino, un paio di chilometri in linea d’aria da Palazzo di Giustizia: l’Ortomercato». Possibile che un posto del genere non abbia controlli? Ufficialmente ci sono, eccome: appalti con una società di vigilanti, telecamere non sempre funzionanti, tornelli per l’ingresso delle persone e pass rilasciati agli addetti. In realtà entra chi vuole. «L’utilizzo delle strutture dell’Ortomercato è pressoché immune da controlli», ha scritto il pm Barbaini nella monumentale richiesta compilata in aprile scorso per arrestare i capi bastone della ‘ndrangheta che avevano aperto perfino un night notturno per il sollazzo della malavita locale, il «For a King», inaugurato giusto nel marzo scorso proprio sotto il centro direzionale dell’Ortomercato. Doveva diventare il regno del “facchi- no” Salvatore Morabito e dei Palamara, Zappalà, Pizzinga, è stato chiuso d’imperio dalla Procura per impedire l’arrivo di 250 chili di coca e dopo aver scoperto che i permessi, dal Comune e dalla Sogemi, erano arrivati a tempo di record, grazie a qualche bustarella sostanziosa. All’inaugurazione si presentarono colletti bianchi e facce da galera. Un bel mix, non c’è che dire.

Proseguendo per la via perimetrale che costeggia l’intero Ortomercato ci si accorge che la facciata relativamente «pulita» intravista dalla rampa, lascia il posto a una realtà degna della Napoli di Scampia: rifiuti e macerie di ogni tipo costeggiano la strada che finisce in un parcheggio dall’aria abusiva.

E’ da queste parti, lontano dagli ingressi ufficiali, che ogni notte, verso le quattro, quando il grosso dei camion entra all’Ortomercato, due o trecento «negri», ovvero extracomunitari e disperati vari, scavalcano agilmente una barriera di lamiere e si presentano ai vari «caporali» per lavorare in nero. Tre euro all’ora invece dei quindici della paga oraria sindacale. Un «affare» che sta tra i motivi che hanno scatenato la rivolta dell’altra notte dei lavoratori, mandando su tutte le furie grossisti e direzione della Sogemi.

Sono talmente tanti i «negri» che scavalcano che, spiega un anziano adetto alla sicurezza, alcuni grossisti hanno organizzato per loro dei veri e propri rifugi nei cunicoli che attraversano l’intero mercato e la cui mappa nessuno conosce bene. In caso di controlli improvvisi, i «negri» spariscono qua sotto. E a volte ci devono rimanere così tante ore che qualcuno, nei sotterranei vicini al palazzone della Sogemi, avrebbe pensato addirittura di attrezzare una sorta di moschea clandestina. Impossibile verificare da vicino perché da queste parti, la prima cosa che ti spiegano è che «una coltellata non si nega a nessuno».

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Ottobre 19, 2007, 06:34:23 pm »

Cuffaro e le cronache marziane di «Otto e mezzo»

Saverio Lodato


Se i magistrati iniziassero ad aggirarsi per le città italiane brandendo telecamere e microfoni per confezionare filmati e raccogliere interviste, l’effetto sulla popolazione sarebbe paragonabile a quello provocato sugli americani da Orson Welles quando annunciò per radio lo sbarco dei marziani: di terrore e di sconcerto. Si sono mai visti al mondo giudici che fanno i giornalisti? Ma se Giuliano Ferrara indossa la toga d’ermellino in nome del popolo italiano, pronuncia arringhe difensive, batte il martelletto, ricusa giudici naturali, si chiude in camera di consiglio ed emette sentenze da solo, va di cozzo contro sentenze già pronunciate, chiede in trasmissione l’arresto di qualcuno, o, più semplicemente, perora cause perse, nessuna vestale della legittima «separazione dei poteri» avrà nulla da obiettare. Infatti le vestali non obiettano.

Chi è stato Cuffaro in questi anni in Sicilia? Per Giuliano Ferrara, Totò Cuffaro, sotto processo a Palermo per favoreggiamento alla mafia, e per il quale l’accusa ha chiesto una condanna a otto anni, era l’uomo che amava i telefonini, un po’ come c’era l’uomo che amava le donne di Truffaut. Ne aveva troppi. E bene ha fatto Tonino Russo, vicesegretario del neonato Pd siciliano a informarlo che lui, invece, non avendo nulla da nascondere, ne ha uno solo... (Unico momento in trasmissione in cui Cuffaro ha balbettato). L’uomo che amava i telefonini, Cuffaro. Tutto qui.

Il resto? «Leggende». I processi per mafia agli uomini politici? Con Andreotti garantisce Ferrara - sapete come è finita (noi crediamo di saperlo: prescrizione per mafia sino al 1980 e condanna di Andreotti, da parte della Cassazione, al pagamento delle spese processuali), Contrada (sì: 10 anni con sentenza passata in giudicato), Mannino (processo ancora aperto), insomma tutti casi che «non sfuggono alla regola della controversia», sintetizza mirabilmente Ferrara... Chissà mai perché. Ma lo dice Ferrara, e Ferrara, potremmo dire parafrasando Cesare, è opinion leader d’onore.

Il fatto è però che solo uno sciocco, mercoledì sera, durante la puntata di Otto e mezzo, guardando il dito di Ferrara che indicava Cuffaro (la luna) poteva fermarsi a guardare il dito di Ferrara. Era in alto che bisognava guardare. Bisognava guardare Cuffaro.

E Cuffaro, fidatevi, ormai è irriconoscibile.

Non è che non vuole il processo contro di lui, non vuole proprio la sentenza. Ha recitato sin qui il teatrino dell’ imputato pacioccone, sottomesso ai suoi giudici naturali, ma adesso il gioco è cambiato. E puntuale, quando mamma chiama come si diceva un tempo - picciotto risponde (il mondo di certi giornali, certi talk show, per intenderci). Da Otto e mezzo è stata raccolta alla grande (nelle intenzioni degli orchestrali, non per successo di botteghino) la campagna per far sì che il processo, in nome della legittima suspicione, facendo appello alla Cassazione - come hanno formalmente deciso di fare i difensori del governatore di Sicilia -, venga sfrattato da Palermo. Legittimissimo passo giudiziario. Scelta televisiva di dubbia trasparenza. Si può dire?

Se l’imputato e i suoi difensori facessero centro, tutto cadrebbe infatti nel dimenticatoio. Ci vorrebbe ancora tempo per sapere come stanno le cose, la mina politica verrebbe disinnescata, Cuffaro potrebbe approdare come un naufrago un po’ disidratato sul bagniasciuga delle europee 2009 conquistando l’immediato ricostituente dell’ immunità parlamentare. Se non si coglie questa differenza della vicenda tormentone che riguarda il governatore di Sicilia, non si capisce nulla.

Cuffaro sarà «rotondo psicologicamente» - anche gli psicoanalisti ormai avrebbero diritto a una commissione di vigilanza contro le invasioni di campo... -, «bonario», «trasparente», «il prototipo della persona diversa dal mafioso amico dei mafiosi», come si complimenta con lui Giuliano Ferrara a inizio trasmissione; sarà «simpatico» come amichevolmente lo congeda Ferrara tranquillizzandolo che «Ritanna non è cattiva»; ma è televisivamente evidente come Totò Cuffaro, che per sua stessa ammissione conosce «alcune centinaia di migliaia di siciliani», naturalmente senza sapere chi sia mafioso e chi no, si avvia alla sentenza ( che non vuole) ormai privo della serenivano accompagnato sinora. A noi, stava quasi «simpatico» il Cuffaro che esibiva la coppola come Gavroche, il monello dei Miserabili, o suonava lo scacciapensieri. Non quello dell’altra sera.

Dismessa la coppola, dismesso lo scacciapensieri, ormai Cuffaro è a ruota libera. Senza freni. Contro il suo processo, contro i pubblici ministeri che lo accusano, contro i magistrati che firmano per la candidatura di Rita Borsellino, contro una mezza dozzina di dirigenti dei ds siciliani, contro Michele Santoro. «Ma noi qui non stiamo facendo il processo al processo», precisa Ferrara; e, ancora una volta parafrasando Cesare, verrebbe da dire: ma lo dice Ferrara, e Ferrara è opinion leader d’onore.

C’è un finto passaggio-chiave della trasmissione. Chiede Ferrara: «ma se fosse condannato a otto anni per favoreggiamento aggravato della mafia cosa farebbe?». E Cuffaro, con il faccione di chi la prima comunione la fa due volte al giorno: «Credo che la cultura istituzionale che ho maturato in questi anni mi imponga di dimettermi e di lasciare la politica...». Ferrara, che sembra recitare il ruolo di un severo istitutore in un collegio di epoca vittoriana: «Questo vale per una condanna definitiva in Cassazione o vale anche per una condanna di primo grado?». Cuffaro da buon chierichetto non si sottrae: «Beh la prima condanna mi vedrebbe continuare a lavorare mentre sono già condannato quindi, per quel che mi riguarda, vale subito per la prima condanna...». Esemplare.

Ma c’è un vero passaggio-chiave della trasmissione. Questo. Ferrara: «Quello che è successo nella Procura di Palermo ha dell’inaudito». Inaudito: le parole sono pietre, avrebbe detto qualcuno. Di rimando, Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia, che di fronte alla partita manifesta l’imparzialità di quell’ultrà che qualche anno fa scagliò un motorino dalle gradinate sulla testa di chi stava di sotto: «io non ho ancora capito perché questo processo si faccia e si stia facendo a Palermo. Questo processo nasce quando è esploso lo scandalo delle talpe in Procura, talpe in Procura non fuori della Procura... stando così le cose il processo doveva essere immediatamente spostato a Caltanissetta su questo non ci sono dubbi... invece è rimasto a Palermo e da qui sono nati tutti i pasticci... il tutto poi ha innescato una competizione interna, ma chiamarla competizione è poco, una faida, interna alla magistratura palermitana...». Il che sembra eccessivo persino a Ferrara: «detta così sembra che si tagliano le teste...». Ma tant’è.

Ormai il piattino è in tavola.

La Armeni, non ce ne voglia, addentratasi nel paese delle meraviglie (la mafia e la lotta alla mafia), sussurra: «Cuffaro, ma lei questa legittima suspicione perché non l’ha chiesta prima?». E la domanda non è sballata. Tutt’altro. Ferrara e Jannuzzi glissano, poi Jannuzzi rincara: «Piero Grasso è stata la prima vittima di questa faida».

Le cronache dicono, non le piccole cronache marziane di Otto e mezzo, che il processo alle talpe nacque proprio per volere di Grasso. Famosa la sua dichiarazione che in tempi di guerra «le talpe sarebbero state fucilate». Caselli era già a Torino, anche se il centro destra per anni non se ne accorse e continuò ad attaccarlo come fosse ancora il procuratore in carica. Le cronache dicono, non le piccole cronache marziane di Otto e mezzo, che resta agli atti una telefonata di Berlusconi a Cuffaro (nei giorni in cui esplose la notizia che il governatore era finito sotto inchiesta) per tranquillizzarlo, avendo appreso parole di Berlusconi, registrate e agli atti- da fonti interne alla stessa Procura che (nonostante tutto, ndr) c’era un «orientamento favorevole nei suoi confronti». Telefonata che una certa Procura, quella di cui è innamorato Jannuzzi, fece di tutto per mandare al macero. Fu questa la ragione che in passato spinse Cuffaro a non sollevare la questione della legittima suspicione? La domanda della Armeni meritava una risposta che invece non c’è stata.

Per Jannuzzi ed è una sua rispettabilissima opinione- Cuffaro non ha favorito la mafia. È un opinione che, per quanto possa sembrare paradossale, rispettiamo. Concludendo, cercheremo di spiegare perché. Jannuzzi ha una sua coerenza. Per Jannuzzi infatti - e chi scrive ne ha ottima memoria - , persino Michele Greco, il papa di Cosa Nostra, numero uno della mafia prima che venissero alla ribalta Riina e Provenzano, condannato a una raffica di ergastoli confermati dalla Cassazione, non era mafioso, bensì un semplice produttore di limoni.

Insomma: Michele Greco era l’uomo che amava i limoni, Totò Cuffaro l’uomo che amava i telefonini...

saverio.lodato@virgilio.it


Pubblicato il: 19.10.07
Modificato il: 19.10.07 alle ore 8.51   
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 07, 2007, 08:04:34 am »

Lo Stato dà un colpo alla mafia

Saverio Lodato


Presi, nelle campagne in cui spadroneggiava, sessanta e più anni fa, il bandito Salvatore Giuliano. Presi in numero maggiore del previsto. C’è il capo di Cosa Nostra: Salvatore Lo Piccolo, 63 anni. Suo figlio Sandro, di 32; e questa è la prima sorpresa per i quaranta poliziotti che ieri mattina alle 9 e 38 hanno fatto irruzione in un casolare - contrada Giardinello, campagne di Montelepre - che domina dall’alto l’intera zona e dal quale si vede tutta Palermo. Terza sorpresa: Andrea Adamo, di 45, anche lui latitante.

Quarta sorpresa: Gaspare Pulizzi, di 36, altro ricercato. Entrambi nella lista dei «30», i più braccati d’Italia. Il proprietario di casa: Salvatore Piffero, di 58, incensurato; due favoreggiatori, presi nei paraggi, Vito Palazzolo, di 45, e Vincenzo Giuseppe Di Bella, di 40.

Trascorrono tre minuti prima di convincere i boss, che si sono asserragliati, ad aprire. «Aprite polizia». «Ma cu siti? No. Un niscemu», ma chi siete? non usciamo, è la risposta dall’interno. I poliziotti sparano in aria. La porta si apre. È l’irruzione. Ed è davvero il giorno della pesca miracolosa.

Ecco la «24 ore» in pelle di Lo Piccolo: zeppa di carte, fogli scritti, rendiconti. Anche nel water-closet vengono trovati alcuni fogli scritti, ma gli occupanti, sentiti i colpi d’arma da fuoco non fanno in tempo ad azionare lo sciacquone. Il contenuto dell’archivio, a primo di giudizio di chi ieri sino a tarda notte spulciava i documenti uno per uno, viene definito «impressionante». Anche quattro borsoni. In uno, otto pistole (Beretta calibro 9, revolver calibro 38, 357 Magnum), un paio con matricola abrasa, negli altri borsoni biancheria, vestiti. Vale la pena ricordare che Michele Greco o Totò Riina o Giovanni Brusca, o lo stesso Provenzano, al momento della cattura non avevano neanche una scacciacani.

Gli arrestati di ieri erano appena arrivati sul posto, con una Toyota e una Citroen C3, provenendo da luoghi diversi proprio per incontrarsi e «ragionare». Da ieri, nel palermitano, l’organizzazione militare di cosa Nostra risulta acefala.

Titolava il «Televideo» Rai: «Traditi da fedelissimo ora pentito». A domanda, in conferenza stampa, Francesco Messineo, procuratore capo: «Non mi risulta che ci siano collaboratori di giustizia o pentiti dietro questa operazione». Lo ribadiscono i quattro magistrati, il questore e il dirigente della mobile. Lo Piccolo lo cercavano da quasi dieci anni. Da alcune settimane avevano ristretto il cerchio in contrada Giardinello.

L’allarme alle 7 e 25. Da un binocolo ad alta intensità appaiono le immagini dell’arrivo delle due vetture. Chi è di turno al cannocchiale capisce che è quello, fra i tanti, il casolare giusto.

Il procuratore Messineo: «La notizia è semplice, schematica, scheletrica nella sua essenzialità. Grazie a un’impeccabile operazione della polizia di Stato, che ha profuso intelligenza, lavoro e sacrificio, abbiamo raggiunto un risultato di decisiva importanza. L’organizzazione militare di Cosa Nostra è stata sgominata nel palermitano, o almeno in buona parte del suo territorio». Aggiunge: «Io sono solo un vigile urbano che ha smistato il traffico». Diamogliene atto: da ieri, a Palermo, si circola molto meglio...

Pubblicato il: 06.11.07
Modificato il: 06.11.07 alle ore 13.36   
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 12, 2008, 11:04:28 am »

IL CASO

Voto di scambio all'estero

Dell'Utri nelle intercettazioni

Indagine su 50 mila schede, coinvolti uomini della 'ndrangheta

Le intercettazioni: «Si tapperanno gli occhi quando barreremo le schede bianche con il simbolo Pdl»


REGGIO CALABRIA — Stando all'inchiesta della procura di Reggio Calabria sui possibili brogli elettorali commissionati all'estero, spunta il nome del senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri. Dalle intercettazioni telefoniche il faccendiere-bancarottiere Aldo Miccichè, calabrese di Maropati, avrebbe affidato il compito di sostenere la lista Berlusconi alla cosca Piromalli di Gioia Tauro, il casato di 'ndrangheta più potente in Calabria. Miccichè, intanto, dal Venezuela dove si è rifugiato per sottrarsi alla condanna definitiva per bancarotta fraudolenta e millantato credito, avrebbe messo a disposizione del senatore di Forza Italia i suoi legami con il cartello di 'ndrangheta sudamericana per favorire il controllo del voto degli italiani all'estero, mobilitando i consoli onorari.

Nel dossier di circa 430 pagine consegnato al ministro dell'Interno Amato dal procuratore distrettuale di Reggio Calabria Francesco Scuderi e dal pm Roberto Di Palma, si capisce come le schede bianche, circa 50 mila, sarebbero diventate voto utile per il partito di Berlusconi. Miccichè al telefono con Dell'Utri si dice convinto che l'operazione andrà in porto. «Basterà pagare qualche addetto ai lavori — dice rivolgendosi a Del-l'Utri, chiamandolo per nome —. I responsabili delle votazioni si tapperanno entrambi gli occhi quando qualcuno dei nostri si preoccuperà di recuperare tutte le schede bianche e barrare la casella col simbolo Pdl». Per tutto ciò c'era un prezzo: 200 mila euro. L'esponente politico azzurro però chiede al faccendiere calabrese garanzie anche sul voto in Calabria. «Nessun problema», si affretta a ribadire dal Venezuela, Miccichè. E per sancire un'alleanza strategica con Dell'Utri invia a Milano Antonio Piromalli, reggente del casato, figlio di Pino, detto «Facciazza », in carcere con il 41 bis e suo cugino Gioacchino, avvocato, radiato dall'ordine dopo una condanna per mafia. Miccichè gli raccomanda al telefono di essere convincenti con il senatore azzurro, facendo trasparire tutta la potenza della cosca non solo in ambito provinciale, ma nell'intera regione. L'incontro avviene nello studio di Dell'Utri. Il senatore forzista resta entusiasta del colloquio tant'è che al telefono, successivamente, si congratula con Miccichè per avergli fatto conoscere due «bravi picciotti».

L'inchiesta della procura di Reggio Calabria nasce per caso e prende spunto da un omicidio. Quello di Salvatore Pellegrino, «l'uomo mitra», assassinato il 5 luglio dello scorso anno a Gioia Tauro. Pellegrino sarebbe stato ammazzato dai Piromalli — è l'ipotesi investigativa — perché ritenuto responsabile dei danneggiamenti alla cooperativa Valle del Marro, un tempo dei Piromalli e oggi, dopo la confisca, passata a Libera di don Ciotti. Le utenze dei Piromalli, in particolare quelle di Antonio e Gioacchino, sono messe sotto controllo. Si scopre così che i due rampolli della famiglia hanno continui scambi con Aldo Miccichè. Il faccendiere parla al telefono con tutti i politici italiani. Per gli inquirenti è un uomo che ha ancora molto potere in Italia. Si sente spesso con Clemente Mastella, allora ministro della Giustizia. In più occasioni parla anche con i suoi più stretti collaboratori. E chiede un favore: bisogna fare in modo che sia tolto il 41 bis a Pino Piromalli. La richiesta viene anche fatta a Dell'Utri, in cambio dell'appoggio elettorale dei Piromalli. L'indagine Why not della procura di Catanzaro coinvolge il ministro della Giustizia. È l'estate del 2007. La richiesta si blocca.

Carlo Macrì
12 aprile 2008

da corriere.it

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« Risposta #12 inserito:: Aprile 13, 2008, 02:47:15 pm »

CRONACA

Inchiesta sui brogli sul voto all'estero, il senatore di Forza Italia

"So chi è quel Micciché, ma non l'ho mai visto. Nessu avviso di garanzia"

"Mi ha offerto aiuto in Sudamerica un polverone sospettare le frodi"

dal nostro inviato FRANCESCO VIVIANO


REGGIO CALABRIA - Marcello Dell'Utri è stupito di ritrovarsi al centro di un'inchiesta su brogli elettorali, ma apprende la notizia con un atteggiamento quasi rassegnato. "Non capisco, davvero non capisco, tutto questo clamore - dice - è vero, mi hanno offerto di organizzare il voto degli italiani all'estero, ma lo fanno tutti da sempre per qualunque partito a qualunque latitudine. Dov'è lo scandalo? Poi, se vogliono sollevare un polverone elettorale, facciano pure".

Senatore Dell'Utri, questo Aldo Micciché che compare nelle telefonate intercettate è un suo amico?
"Ma quale amico... Io non lo conosco neppure fisicamente, non l'ho mai visto. Certo, so chi è, era un amministratore della Dc negli anni 60-70, poi si è trasferito in Venezuela con la famiglia e adesso lì fa l'imprenditore. Lui si occupa di energia, di forniture di petrolio e, se ricordo bene, io ho fatto da tramite per metterlo in contatto con una società russa che io conosco e che ha sede anche in Italia".

Ma al telefono avete parlato anche di altro, cioè di voti, non solo di affari. A quanto sembra vi davate del tu. E' vero?
"Ma quello è uno che dà del tu a tutti. Sì, è vero, abbiamo parlato. Mi ha chiamato lui, due o tre volte, qualche mese fa, ora non ricordo con esattezza, e mi ha detto: 'Ti interessa se mi metto ad organizzare il voto degli italiani che vivono in Sudamerica?'. Io gli ho risposto 'Sì, va bene' e gli ho detto di mettersi in contatto con Barbara Contini, il nostro rappresentante per gli italiani all'estero. Tutto qua. Il discorso è finito lì. Ma poi questo Micciché è uno notissimo in Italia. Lo conoscono tutti".

Senatore, lei ha ricevuto qualche provvedimento dalla magistratura di Reggio Calabria?
"Assolutamente no. Allora, tanto per chiarire: io non solo non ho ricevuto alcun avviso di garanzia, ma di questa storia ho letto solo ieri sui giornali. Ovviamente mi sono molto stupito di trovare pubblicate queste cose, ma pazienza, io sono sereno come sempre. E a queste cose ormai ci stiamo facendo il callo".

Insomma, lei di questa ipotesi di brogli, che sarebbe consistita nel "truccare" le schede bianche in favore della sua lista, non sa niente?
"Neanche per idea. Ma stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri! Se vogliono sollevare un polverone elettorale, facciano pure, io questo purtroppo non lo posso impedire. Ma stiamo davvero dando i numeri".

Senatore Dell'Utri, pare che Micciché fosse in contatto con i mafiosi della cosca dei Piromalli. Anche quest'aspetto per lei è una sorpresa?
"Ma figuriamoci, io non avevo minimamente idea dei suoi rapporti, e tantomeno di questi. Li ho appresi leggendo i giornali. In nessuna occasione lui mi ha detto di conoscere i Piromalli e nemmeno mi ha mai spiegato come intendeva organizzare questo voto degli italiani residenti in Sudamerica per convogliarlo verso la nostra lista. Gli ho indicato il nome della Contini, ripeto, perché è così che fanno tutti i partiti, ma è una cosa banalissima e soprattutto non c'è assolutamente niente di illegale".

(12 aprile 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 13, 2008, 11:41:14 pm »

Marcello e l’inconscio


Ecco, ci mancava il bollo auto per completare l’offerta berlusconiana e farla diventare sempre più simile a quella dello spot telepass, in cui si vede un giovanotto sollevato di peso, portato al cinema e servito di bibita e pop corn.

Il linguaggio è lo stesso e, se gli italiani gli crederanno, siamo davvero messi male, dopo quasi trent’anni di una campagna televisiva così intensiva che non si è mai vista al mondo. Un bombardamento che, se messo in atto a favore di Totò Riina, farebbe eleggere pure lui.

E infatti poco ci manca. Se è vero come è vero che il vero genio politico di Berlusconi è Marcello Dell’Utri, costruttore di Publitalia prima e Forza Italia poi.

L’uomo che, intervistato da Santoro, incappò nella più clamorosa gaffe mai vista in tv. Per scolparsi da accuse e testimonianze pesanti, Dell’Utri disse infatti: «Ce l’hanno con me perché sono mafioso... (pausa di imbarazzo), volevo dire siciliano».

Così l’amico di Vittorio Mangano e Berlusconi ha dimostrato che forse non tutti hanno una coscienza, ma l’inconscio sì.

Maria Novella Oppo


Pubblicato il: 13.04.08
Modificato il: 13.04.08 alle ore 9.26   
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« Risposta #14 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:31:33 pm »


La «zona grigia» della mafia: convegno al Sole 24 Ore sulla criminalità organizzata
 
 
L'ultima verifica in ordine di tempo è quella che i magistrati stanno facendo in provincia di Trapani. Nel mirino il professionista che avrebbe curato le pratiche per far ottenere i finanziamenti della 488 a Giuseppe Grigoli, il patron della Despar nella Sicilia Occidentale ritenuto prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro. Si tratta, come è evidente, dell'ennesimo caso di un professionista al servizio della criminalità organizzata.

Di tanti altri casi, se vogliamo rimanere nel trapanese, si stanno ancora occupando i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Palermo i quali in più di un'occasione hanno sottolineato la capacità di Matteo Messina Denaro di tenere rapporti con i salotti buoni. Si tratta di un episodio, non l'unico, della storia della nuova mafia che si avvale di avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti, medici, intermediari finanziari. Insomma in due parole delle cosiddetta Zona grigia più volte richiamata dai magistrati antimafia e che lo stesso capo della direzione nazionale Antimafia Pietro Grasso ha più volte sottolineato trattarsi un individui le cui azioni in qualche caso non sono di rilevanza penale ma certamente di rilevanza etica e morale.

Il fenomeno, come è ormai chiaro, non appartiene solo alla Sicilia ma è piuttosto diffuso in almeno un paio di Regioni del Mezzogiorno (è di qualche giorno fa l'operazione in Campania in cui è emerso il sostegno di un gruppo di medici alla camorra) e nel Nord del Paese.

Si pensi al ruolo di professionisti qualificati nel decidere dove e come investire i capitali sulle piazze finanziarie più importanti senza farsi alcuna domanda sulla provenienza di quei soldi. Di costoro e degli altri quattrocento professionisti che solo in Sicilia finiti negli ultimi dieci anni in inchieste di mafia si è parlato lunedì nella sede del Sole 24 Ore in Via Monte Rosa 91 a Milano nel corso del convegno "Economia legale e bonomia illegale: il rischio di osmosi".

Attorno al tavolo Nino Amadore, autore del libro "La zona grigia, professionisti al servizio della mafia" edito dalla Casa editrice La Zisa di Palermo, Ivan Lo Bello presidente di Confindustria Sicilia, Michele Prestipino magistrato antimafia e autore del libro "Il codice Provenzano", Donato Masciandaro presidente del centro Paolo Baffi e docente all'Università Bocconi.

Presente l'amministratore delegato del Sole 24 Ore Claudio Calabi, apertura dei lavori del direttore Ferruccio De Bortoli.

 
da ilsole24ore.com
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