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Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 70267 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 09, 2009, 06:33:51 pm »

Non recepite le modifiche chieste dal procuratore nazionale antimafia

Intercettazioni: il governo pone la fiducia

Lodo Alfano: bocciata la mozione Pd per l'abrogazione dell'immunità per le 4 più alte cariche dello Stato
 

ROMA - «C’è l’accordo di maggioranza sul testo e il governo porrà la questione di fiducia sul disegno di legge sulle intercettazioni». Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, al termine della riunione con i ministri Maroni, Vito e Calderoli, i presidenti dei deputati di Pdl e Lega, il presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, e l'on. Niccolò Ghedini, avvocato di Berlusconi e componente della stessa commissione. Nel maxiemendamento su cui il governo porrà la fiducia non dovrebbero essere state recepite le modifiche chieste dal procuratore nazionale antomafia, Piero Grasso. «Il testo è quello uscito dalla commissione Giustizia con un solo chiarimento tecnico», ha spiegato Ghedini.

LODO ALFANO - Nel frettempo la Camera ha bocciato la mozione del Partito democratico, presentata dal segretario Dario Franceschini, che chiedeva al governo di abrogare il lodo Alfano.
L'Idv ha chiesto e ottenuto il voto separato delle tre parti di cui si componeva il dispositivo. Il primo conteneva la richiesta di cancellare la norma che garantisce l'immunità per le quattro più alte cariche dello Stato fin quando restano in carica. Nella mozione Franceschini chiedeva all’esecutivo di «sollecitare e favorire un confronto tra maggioranza e opposizione per discutere immediatamente la riforma della II parte della Costituzione» che riproduca la bozza Violante approvata dalla commissione affari Costituzionali di Montecitorio nella scorsa legislatura.


09 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #61 inserito:: Giugno 12, 2009, 07:05:56 pm »

Intercettazioni, ecco come la riforma toglie spazio ai pm e limita la stampa

Da Lady Asl agli immobiliaristi: l'obbligo di indizi "evidenti" impedirebbe molti controlli

Tangenti, "furbetti" e Calciopoli le verità che non avremmo saputo

 
ROMA - Gli orrori della clinica Santa Rita di Milano? Sarebbero rimasti ben segreti. Le partite truccate di Calciopoli? Avrebbero continuato a essere giocate. L'odioso stupro della Caffarella? Gli autori sarebbero ancora liberi. Il sequestro dell'imam Abu Omar? I pm di Milano non l'avrebbero mai scoperto. E gli agenti del Sismi che collaborarono con la Cia non avrebbero mai lasciata impressa sul nastro la fatidica frase "quell'operazione è stata illegale".

Lady Asl e la truffa della sanità nel Lazio? La cupola degli amministratori regionali avrebbe continuato ad operare indisturbata. I furbetti del quartierino? Per le scalate Antonveneta e Bnl forse non ci sarebbero stati gli "evidenti indizi di colpevolezza" per mettere i telefoni sotto controllo. A rischio le inchieste potentine di Henry John Woodcock, Vallettopoli, Savoiopoli, affaire Total, tangenti Inail, dove i nastri hanno continuato a girare per otto-nove mesi prima di produrre prove, e quelle calabresi (Poseidone, Toghe lucane, Why not) dell'ormai deputato europeo Luigi De Magistris.

Una moria impressionante, in cui cadono processi famosi e meno famosi, in cui le indagini sulla mafia sono messe a rischio perché non si potrà più mettere sotto controllo telefoni per truffa ed estorsione. Si salva Parmalat dove, come assicurano i pm di Milano e di Parma, le intercettazioni non furono determinanti né per arrestare Calisto Tanzi in quel dicembre 2003, né per accertare ragioni e colpevoli del crack. Ha detto e continua a dire l'Anm con una frase ad effetto, "è la morte della giustizia penale in Italia".

Nelle stesse ore in cui alla Camera, con il concorso dell'opposizione nonostante l'appello del giorno prima a Napolitano di Pd, Idv, Udc, si approva la legge sugli ascolti, nelle procure italiane, tra lo sconcerto e l'irritazione delle toghe, si fanno i conti delle intercettazioni che non si potranno più fare in futuro e di quelle che, in un passato recente, non sarebbero mai state possibili. E, anche se fossero state fatte, non si sarebbero mai potute pubblicare, né nella versione integrale, né tantomeno per riassunto.

Le indagini cadono su due punti chiave della legge: "evidenti indizi di colpevolezza" per ottenere un nastro, solo 60 giorni per registrare. Così schiatta l'indagine sulla clinica Santa Rita che parte con una truffa ai danni dello Stato per via dei rimborsi gonfiati e finisce per rivelare che si operava anche quando non era necessario. Non solo sarebbero mancati gli "evidenti indizi" (se ci fossero stati i pm Pradella e Siciliano avrebbero proceduto con gli arresti), ma non si sarebbe andati avanti per undici mesi, dal 4 luglio 2007 al 24 giugno 2008. Giusto a metà, era settembre, ecco le prime allusioni a un reparto dove accadevano "fatti gravi". Niente ascolti, niente testi sui giornali, niente versione integrale letta al processo, niente clinica costretta a cambiare nome per la vergogna.

Cambia corso il caso Abu Omar, nato come un sequestro di persona semplice contro ignoti. Solo due mesi di tape. Ma la telefonata chiave, quando l'imam libero per una settimana racconta alla moglie la dinamica del sequestro, giunge solo allo scadere dei 12 mesi d'ascolto. In più la signora, in quanto vittima, non avrebbe mai dato l'ok a sentire il suo telefono, come stabilisce la nuova legge.

Per un traffico organizzato di rifiuti a Milano, dove arrivava abusivamente anche la monnezza della Campania, hanno fatto 1.500 intercettazioni per sei mesi. Solo dopo i primi due s'è scoperto cosa arrivava dal Sud. In futuro impossibile. Come gli accertamenti che fanno scoprire i mafiosi. A Palermo hanno intercettato l'imprenditore Benedetto Valenza per quattro mesi: dalla truffa e dalla frode nelle pubbliche forniture sono arrivati a scoprire che riciclava i soldi del clan Vitale e forniva cemento depotenziato pure agli aeroporti di Birgi e Punta Raisi. Idem per l'inchiesta contro gli amministratori di Canicattì e Comitini che inizia per abuso d'ufficio e corruzione e approda a un maxi processo contro le cosche di Agrigento. Telefoni sotto controllo per sei mesi, ormai niente da fare.

"La gente sarà meno sicura" dicono i magistrati. E citano lo stupro della Caffarella d'inizio anno. Due arresti sbagliati (i rumeni Ractz e Loyos), il vanto di aver fatto tutto "senza intercettazioni", poi il ricorso all'ascolto sul telefono rubato alla vittima. Domani impossibile perché in un delitto contro ignoti si può intercettare solo il numero "nella disponibilità della persona offesa". Assurdo? Contraddittorio? Sì, ma ormai è legge.

(12 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:26:43 pm »

Mafia, revocata la scorta al pm che fece arrestare Riina e Brusca
 
 
 PALERMO (13 giugno) - Franco Lo Voi, il pubblico ministero 51enne che arrestò decine di boss mafiosi, non ha più diritto alla scorta. A revocare la misura di tutela al pm della procura generale della Cassazione, sotto scorta dal 1992, è stata la prefettura di Roma.

Lo Voi è stato per oltre dieci anni alla direzione distrettuale antimafia di Palermo e ha partecipato alle indagini che hanno portato all'arresto di Totò Riina. Il pm era dietro alla cattura anche di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, l'uomo che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. L'attività di Lo Voi come pm a Palermo ha riguardato anche l'arresto di decine di mafiosi siciliani, in gran parte condannati all'ergastolo.

In passato alcuni collaboratori di giustizia avevano rivelato ai pm che Cosa nostra voleva uccidere Lo Voi e che quindi, alcuni boss mafiosi si sarebbero procurati un bazooka per l'attentato al pm. L'arma non è mai stata trovata dagli investigatori, ma ultimamente il neo pentito Gaspare Spatuzza, ha sostenuto che sarebbe ancora nelle mani dei mafiosi di Brancaccio.

L'unica cosa che dice il pm, refrattario ai contatti con i giornalisti, è: «Se le autorità dicono che non ci sono più pericoli, non posso che esserne contento, specialmente per le mie figlie, che da piccole costringevo ad allontanarsi dalle finestre quando uscivo da casa. Tanto ormai sono maggiorenni e, se mi accadesse qualcosa, sanno chi citare in giudizio per il risarcimento dei danni».

Lo Voi, 51 anni, sposato con una gip del tribunale di Palermo, oggi si occupa ancora alla procura generale della Cassazione di processi che riguardano molti imputati di mafia su cui aveva già indagato a Palermo. Per questa attività il procuratore generale della Cassazione aveva richiesto un rafforzamento della protezione nei confronti di Lo Voi. Il magistrato vive a Palermo con la sua famiglia e recentemente qualcuno ha fatto irruzione per due volte nella sua casa di villeggiatura, senza rubare nulla.

da ilmessaggero.it
 
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 18, 2009, 09:58:45 am »

La strage di via D'Amelio, 17 anni dopo l'indagine è sul ruolo dei Servizi

di Nicola Biondo


Domani saranno passati diciassette anni dal giorno in cui giudice Paolo Borsellino e la sua scorta furono trucidati da un’autobomba. Diciassette anni senza verità. Troppe ombre, false testimonianze, reticenze, omertà. Ma forse tutto questo sta per finire. Le indagini delle Procure di Caltanissetta e Palermo - che mai si sono interrotte - negli ultimi mesi hanno individuato tre nuove testimonianze che potrebbero essere decisive.

La prima è quella del mafioso Gaspare Spatuzza. Dopo 11 anni di carcere duro ha rivelato di essere stato lui a rubare la macchina che sarebbe poi stata imbottita di esplosivo. Un racconto che demolisce molte false verità, alcune delle quali consacrate da sentenze passate in giudicato, e apre la porta all'individuazione di nuovi e diversi responsabili dell’organizzazione della strage.

Le altre due testimonianze sono quelle di Giovanni Brusca, il killer della strage di Capaci, e di Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, la mente dei rapporti tra il mondo politico e la mafia. Entrambi, da visuali diverse, dicono la stessa cosa. E cioè che, in quei 57 giorni che separano la morte dei giudici Falcone e Borsellino, lo Stato e Cosa nostra trattarono.

Il figlio di don Vito racconta di aver incontrato in quella torrida estate del 1992 gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e alcuni agenti segreti. Chiesero a suo padre di fare da intermediario con i boss. E don Vito ubbidì. In quello stesso periodo, infatti, incontrò Bernardo Provenzano e un emissario di Riina, Antonino Cinà. Divenne, in sostanza, il garante di un patto col sistema politico.

Il racconto di Giovanni Brusca è ambientato in luoghi e situazioni del tutto diverse dal salotto di don Vito e arriva dal cuore nero di Cosa nostra. «Riina mi disse chi era il terminale della trattativa», ha rivelato di recente. E ha aggiunto: «Per la strage del dottor Borsellino ci fu una straordinaria accelerazione». Determinata dal fatto che il giudice si era opposto alla trattativa «con tutte le sue forze».

Il tema delle nuove indagini è nella domanda che scaturisce da questa informazione. Una domanda che ci si pose fin dal 1992 e che oggi torna a essere drammaticamente attuale: è stata una strage di mafia,[/CLREG5N]<CF161> solo </CF>della mafia? È questa la posta in gioco. Altissima. Perché la ricerca della verità porta ad arare campi lontani da quelli tradizionalmente coltivati dai boss di Corleone.

Una fuga di notizie sulle indagini in corso ha riportato alla ribalta una vecchia storia che "l'Unità" ha già raccontato. È quella di Luigi Ilardo che, tra il 1994 e il 1996, si infiltrò nella mafia per conto del colonnello della DIA Michele Riccio e che poi, come tanti altri protagonisti di questa storia, fu assassinato.

Ilardo è stato il primo a parlare di un patto tra politici della Seconda Repubblica e la mafia. Secondo il colonnello Riccio - che è diventato il principale accusatore del suo superiore - un giorno lo gridò al generale Mori: «Molte cose successe in Sicilia, questi attentati - gli disse - sono stati fatti dallo Stato e addossati alla mafia e voi lo sapete…».

Una miniera di informazioni, Ilardo, e tutto date in tempi non sospetti. È stato anche il primo a parlare di «faccia da mostro». È questo personaggio, sul quale indagava la procura nazionale antimafia diretta da Pietro Grasso, l’oggetto della citata fuga di notizie). Si tratta di un agente dei Servizi contiguo ad ambienti mafiosi che, fin dagli anni ‘80, cominciò a comparire in luoghi dove venivano compiute delle stragi o degli omicidi.

È stato sempre Ilardo a raccontare di incontri riservatissimi tra Riina ed esponenti dei Servizi, insomma qualcosa di molto simile a quello che in seguito sarebbe stato chiamato il «papello». «Molte ombre - disse ancora Ilardo qualche tempo pprima di essere ucciso - aleggiano intorno all'arresto di Totò Riina. All'interno di Cosa Nostra si faceva esplicito riferimento al ruolo avuto dai servizi segreti anche alla luce degli strani contatti che Riina aveva con persone sconosciute anche ai suoi più stretti collaboratori».

Una testimone prezioso, capace di fornire anche una lettura di sintesi degli avvenimenti di quegli anni. Eccola: «Molti misteri siciliani, la maggior parte dei delitti politici in Sicilia, non sono stati a favore di Cosa Nostra. Cosa Nostra ha avuto solamente danni da questi omicidi, quelli che ne hanno tratto vantaggi sono solamente politici.

Diciassette anni dopo quella lettura sembra potersi applicare anche alla strage di via D’Amelio. Perché, in effetti, Cosa Nostra ne ebbe solo danni. La reazione dello Stato fu la promulgazione della legge sul carcere duro e l'arresto di tutti i boss più rappresentativi, da Riina a Bagarella. Ma chi, allora, ebbe dei vantaggi da quella strage? Ancora una risposta postuma di Ilardo: «Ci sono state tante e tante altre cose in Sicilia, come ad esempio molti omicidi che, da quello che mi è stato raccontato da persone inserite in Cosa Nostra, sono stati commessi dai Servizi Segreti e poi addossati a Cosa Nostra».

E adesso è chiaro perchè da qualche tempo negli uffici giudiziari siciliani si respira una tensione che sembrava dimenticata. Non solo perché, forse, si sta per venire a capo di una delle vicende più misteriose dell’ultimo ventennio. Ma, soprattutto, perchè si ha l’impressione di poter scoprire, attraverso di essa, le «regole generali» di un meccanismo che ha segnato tragicamente l’intera storia del nostro paese.

18 luglio 2009
da unita.it
« Ultima modifica: Luglio 19, 2009, 05:04:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #64 inserito:: Luglio 18, 2009, 10:01:14 am »

L'ultima pista: "In un hotel la regia della strage di via D'Amelio"

Dalla sede degli 007 alle frasi di un pentito. E spunta anche la versione di Genchi

Mafia e servizi, telefonate e carte sparite ecco gli indizi nelle inchieste


dai nostri inviati ATTILIO BOLZONI FRANCESCO VIVIANO

 
CALTANISSETTA - C'è puzza di spie in ogni strage siciliana. Misteri di mafia e misteri di Stato. Chiamate fatte da boss e dirette a uffici dei servizi segreti, biglietti con numeri telefonici intestati a capi degli apparati di sicurezza trovati sulla scena del crimine, esperti in bonifica ambientale in contatto con sospetti attentatori. E ancora: agende sparite (quella rossa di Paolo Borsellino), depistaggi, pentiti fasulli o pilotati. Dalle indagini sui massacri avvenuti in Sicilia fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 stanno affiorando complicità e patti, intrecci, una rete di "interessi convergenti".

I procuratori di Caltanissetta hanno riaperto tutte le inchieste sulle stragi ripescando vecchi fascicoli e interrogando nuovi testimoni, ripercorrendo piste frettolosamente abbandonate, scoprendo indizi che si orientano verso quelli che vengono chiamati "i mandanti occulti" o i "soggetti esterni" a Cosa Nostra.
Uno degli ultimi personaggi ascoltati dai magistrati è stato Gioacchino Genchi, uno dei protagonisti del "caso De Magistris" a Catanzaro, il consulente che 17 anni fa era con il questore Arnaldo La Barbera alla guida del "Gruppo Falcone Borsellino", il pool di investigatori che indagò fin dall'inizio sulle stragi. Gioacchino Genchi ha parlato per un giorno intero, il 16 aprile scorso. E alla fine ha indicato una traccia: "Dovete scoprire chi c'era il 19 luglio del 1992 a Villa Igiea perché lì dentro c'era la regia...".

A Villa Igiea, lo splendido albergo voluto dai Florio sul mare di Palermo, quel pomeriggio c'era - secondo Genchi - un ospite speciale che avrebbe praticamente "guidato" le operazioni per l'uccisione di Borsellino. Il consulente ha ricostruito il "movimento" telefonico nei minuti che hanno preceduto l'attentato. Ha accertato che dal cellulare clonato di un'ignara donna napoletana, A. N., sono partite prima alcune chiamate a mafiosi di Villagrazia di Carini (il luogo dove Borsellino quel pomeriggio è partito con la sua scorta), poi alcune chiamate a mafiosi di Palermo e infine - proprio quando l'autobomba è esplosa - l'ultima chiamata a Villa Igiea. Chi c'era dentro il lussuoso hotel? Chi era l'ospite innominabile che probabilmente i procuratori di Caltanissetta stanno cercando?
Un testimone che sarà interrogato nei prossimi giorni sarà il pentito Francesco Di Carlo, nei primi anni '90 rinchiuso in un carcere londinese dove ricevette una visita di quattro uomini. "Tre erano stranieri e uno italiano", ha risposto qualche anno fa al pubblico ministero Luca Tescaroli. Quattro 007. Il pentito Di Carlo non ha mai voluto fare il nome dell'agente segreto, però ha raccontato che gli 007 gli chiesero una sorta di "consiglio" su come ammazzare Falcone e Borsellino che tanto stavano dando fastidio a Cosa Nostra e ai suoi traffici. Lo stesso Totò Riina, usò per proprio tornaconto in un'udienza queste rivelazioni di Francesco Di Carlo: "Io con le stragi del 1993 non c'entro niente, chiedetelo a Di Carlo: era lui in contatto con i servizi segreti non io".

Mafia e servizi, ci sono impronte dappertutto. Di chi era quel numero di telefono trovato sul bigliettino di carta recuperato a qualche metro da dove Giovanni Brusca fece esplodere l'autostrada a Capaci? Era di L. N., il capo del Sisde a Palermo. "Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P 300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo", ha risposto L. N. Fine della deposizione e fine delle indagini. C'è solo un particolare da ricordare: cellulari di quel tipo - Nec P 300 - sono stati trovati qualche tempo dopo nel covo di via Ughetti, la casa dove si nascondevano i macellai di Capaci e parlavano - ascoltati dalle microspie - "dell'attentatuni" che avevano preparato.

A chi erano indirizzate le telefonate di Gaetano Scotto - mafioso dell'Acquasanta, imputato dell'inchiesta sull'uccisione del procuratore - poco prima della strage di via D'Amelio? Al castello Utvegio, una costruzione degli Anni Venti che domina Palermo da Montepellegrino. Lì erano acquartierati alcuni "irregolari" del Sisde, i superstiti di quel carrozzone sfasciato che era l'Alto Commissariato antimafia. Spie.
E che lavoro facevano quei due fratelli di Catania, indagati l'anno scorso per la strage Falcone insieme a un noto imprenditore palermitano, che avevano a che fare con telecomandi a media e a lunga distanza? Avevano l'appalto per bonificare alcune "case" dei servizi segreti.

Coincidenze, tutte coincidenze che ora i procuratori di Caltanissetta stanno mettendo in fila e risistemando in un "quadro". Forse in passato ci sono state "carenze investigative". O forse c'è sempre stato qualcuno che non voleva spingersi oltre Totò Riina e i suoi Corleonesi.

(18 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #65 inserito:: Luglio 18, 2009, 07:18:40 pm »

Nel pomeriggio "la marcia delle agende rosse" per ricordare Paolo Borsellino

La sorella Rita: "C'è puzza di rassegnazione, ma non dobbiamo arrenderci"

"Senza verità non c'è giustizia"

Palermo e quelle stragi del '92



 PALERMO - "Una verità che si attende da 17 anni: troppi per potere aspettare ancora. Solo con la verità si può avere giustizia. Questo quadro inquietante che si sta delineando sulle stragi del '92 e del '93 merita la massima attenzione, sia a livello nazionale che europeo". Rita Borsellino non ha mai avuto dubbi. Meno che mai ora che è stata riaperta l'inchiesta sul tritolo mafioso che diciassette anni fa ha insanguinato la Sicilia. L'eurodeputato Pd dice questo mentre partecipa assieme a duecento persone a un corteo antimafia che si è tenuto nel pomeriggio a Palermo. Una manifestazione che qualcuno ha già chiamato "la marcia delle agende rosse", perché tutti hanno in mano un'agenda simile a quella custodita gelosamente dal magistrato e sparita nel nulla dopo l'attentato di via d'Amelio.

Rita Borsellino sente "puzza di rassegnazione. Non e' possibile rassegnarsi. Non abbiamo questo diritto, dobbiamo continuare a impegnarci giorno per giorno perché solo l'impegno quotidiano puo' costringere chi ha il compito di fare delle scelte a intraprendere la strada giusta. Ci vuole il coraggio della rabbia, della denuncia". L'europarlamentare si riferisce alle parole pronunciate ieri da procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che ha denunciato minore rabbia di una parte della magistratura nella lotta alla mafia rispetto al 1992.

"Dal '92 ad oggi si è fatto poco - ha detto Salvatore Borsellino, fratello del magistrato - Sembra quasi che qualcuno stia pagando delle cambiali alla mafia. Oggi finalmente, dopo anni di tenebre, la lotta che si sta conducendo nelle procure di Palermo e Caltanissetta sta andando nel verso giusto. Si stanno acquisendo elementi positivi. Fino ad oggi ci sono stati tanti depistaggi, ora si sta lavorando per coprire la complicità di pezzi deviati delle istituzioni".

De Magistris dalla sua pagina Facebook scrive che "la magistratura, come intuirono per altro già Borsellino e Falcone, deve entrare nelle banche e nei conti correnti internazionali, nel meccanismo degli appalti e nei settori industriali, utilizzando le intercettazioni e operando in modo autonomo. La società civile deve avviare una riflessione interna profonda esigendo verità dallo Stato, anche sullo stragismo degli anni '90, su cui la Procura di Caltanissetta sta nuovamente indagando".

E se l'europarlamentare e sindaco di Gela Rosario Crocetta propone una commissione antimafia anche a Strasburgo, per l'Associazione familiari della strage dei Georgofili non bisogna istituire un'inchiesta parlamentare sulle stragi del '93. "Temiamo - si legge in una nota scritta dalla portavoce Giovanna Maggiani Chelli - che, come sempre, userà tutti i suoi strumenti per porre limiti ancora una volta alla magistratura. Una contromossa per esorcizzare la paura del fantasma di Vito Ciancimino".

(18 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #66 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:11:07 pm »

19/7/2009 (7:39) - LA STORIA

L'ultimo veleno di Riina "Borsellino delitto di Stato"
 
Il padrino: non c'entro, sono stati loro. La trattativa? Fatta su di me

FRANCESCO LA LICATA
ROMA


Il vecchio padrino esce dal cono d’ombra e, nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio, offre - a modo suo - la «versione inconfessabile» sulla morte di Paolo Borsellino. «Lo hanno ammazzato loro», ripete al suo legale, Luca Cianferoni, aggiungendo: «Lo può dire tranquillamente a tutti, anche ai giornalisti. Tanto sono stanco di fare il parafulmine d’Italia». L’avvocato e il boss erano, ieri mattina, nella sala colloqui del carcere di Opera e l’occhio del detenuto è andato su una copia del «Sole 24 Ore», in particolare su un titolo che riferiva i misteri della strage di via D’Amelio. A Riina vengono interdetti i quotidiani siciliani, ma non quelli nazionali. E così ha potuto essere informato sul grande “affaire” che va profilandosi sulla storia di via D’Amelio.

Come a voler sottolineare l’assenza di sorpresa per le notizie sul coinvolgimento di apparati istituzionali nella strage, ha commentato: «Avvocato, io con questa storia non c’entro nulla. Avvocato gli vada sotto tranquillamente: le assicuro che è come le sto dicendo. Trattativa? Io trattativa non ne ho fatto con nessuno, ma qualcuno ha trattato su di me. La mia cattura è stata conseguenza di una trattativa». E torna il ritornello che fu oggetto di una prima “esternazione”, ma molto più criptica e contratta di questa che ha invece l’aria di una vera e propria entrata in gioco. «Com’è - aveva chiesto dalla gabbia del processo di Firenze - che il ministro dell’Interno sapeva che mi avrebbero arrestato?». Il ministro in questione era Nicola Mancino, indicato anche dal pentito Giovanni Brusca come una delle parti in trattativa: rivelazione respinta al mittente dall’attuale vicepresidente del Csm nel corso degli incontri sostenuti coi magistrati inquirenti.

Questo del coinvolgimento dei servizi nella strage è stato sempre argomento prediletto di Riina ed è comprensibile dal momento che contribuisce a rendere meno intelleggibile l’intera vicenda. Gli ultimi sviluppi, inoltre, continuano a produrre una densa cortina di dubbi. «Prendiamo questo signorotto che ora parla - ha aggiunto don Totò - di trattativa e di papello, questo signor Massimo Ciancimino. Io ho sempre detto che bisognava interrogarlo e farsi dire tutto. Magari lo consegnasse, questo papello (le richieste che Cosa nostra avanzò allo Stato con la mediazione di Vito Ciancimino, padre di Massimo ndr). Forse se lo consegna si potrà fare una perizia per sapere finalmente chi l’ha scritto. Io no di sicuro».

Per la prima volta, dunque, Riina esce allo scoperto (ovviamente sempre negando aprioristicamente ogni possibilità di collaborazione) e recita il ruolo di chi vuole verità e giustizia, anche se «so perfettamente che la mia posizione processuale non cambierà di un millimetro». Al legale suggerisce spunti di analisi: la borsa contro Falcone all’Addaura in una scogliera affollata di strani personaggi, esattamente come la scena di via D’Amelio. «E mi mettono sempre accanto ai carabinieri. Mi creda, avvocato, io sono stato soltanto tragediato da questi signori». Poi con l’astuzia che non gli manca torna sulla trattativa politica. Ma perchè non ne ha parlato in tutti questi anni? Cianferoni è ancora più malizioso: «Quando si è presentata l’occasione sono andati a sentirlo in cinque, un modo per indurre chiunque a chiudersi a riccio».

Sembra sia stato il processo per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro a provocare questa mutazione di don Totò. Con gran disinvoltura, nemica della tradizionale riservatezza degli uomini d’onore, Riina si è appassionato al giallo del giornalista de L’Ora rapito nel 1970. Fino a definire più attendibile il “movente Mattei”, forse perché anche quello affollato dai servizi segreti. Ma si è lasciato andare, il boss, anche a qualche commento caustico, proprio in direzione «degli sbirri segreti» e persino della «massoneria». Una vera metamorfosi, rispetto al silenzio autistico del dopo-cattura. Ma se si ritiene vittima della trattativa, e la trattativa c’è stata, chi lo ha “venduto”? Il riflesso condizionato porta a Bernardo Provenzano, il grande amico di Vito Ciancimino. Ma su questo, giura Luca Cianferoni, Riina ha una sola certezza: «Con le mie disavventure Provenzano non c’entra nulla». Potenza della vecchia amicizia.

da lastampa.it
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« Risposta #67 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:11:56 pm »

19/7/2009 (7:49) - INTERVISTA

Delitto Borsellino: "Strage di mafia, ma restano delle zone d’ombra"
 
Ingroia: «Riina rifiuta di parlare. Se vuole fare chiarezza, noi siamo pronti»


GUIDO RUOTOLO
ROMA

Per la prima volta Totò Riina ha deciso di offrire un contributo di maggiore chiarezza ai misteri dello stragismo mafioso. E’ una novità positiva. Il dato più importante di queste sue esternazioni è quando dice che si è stufato di fare il parafulmine d’Italia». Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, titolare delle inchieste più importanti su quell’area grigia dei rapporti tra poteri criminali e pezzi delle istituzioni, commenta lo sfogo del Capo dei capi di Cosa nostra, il corleonese Totò Riina. Che avviene alla vigilia dell’anniversario della strage di via d’Amelio, del massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta.

Dottore Ingroia, Totò Riina dice che la strage di Borsellino è opera dello Stato...
«Non è la prima volta che indica questo scenario. Oggi lo fa con maggiore chiarezza. Finora - in questi anni voglio dire - Riina ha sempre rifiutato ogni forma di dialogo. Non ha mai voluto rispondere alle nostre domande. In passato ha mandato, talvolta, messaggi sibillini e mai un granché chiari. Ora vedo nelle sue dichiarazioni un desiderio di far chiarezza, e non solo per ragioni processuali difensive».

E allora, Borsellino chi l’ha ammazzato?
«Che Cosa nostra abbia avuto un ruolo nella strage di via D’Amelio è indiscutibile. Rimangono delle zone d’ombra al punto che non si sa ancora chi ha premuto il pulsante dell’autobomba. Possiamo aggiungere che sicuramente vi sono stati interessi convergenti con quelli mafiosi».

Il capo dei Corleonesi dice che si è stancato di fare da parafulmine...
«Lasciando sottintendere, evidentemente, che non vuole pagare per colpe altrui. Intendiamoci, Riina è l’artefice della strategia stragista di Cosa nostra, sotto il suo comando la mafia ha ucciso, ha seminato terrore, ha soggiogato imprenditori e commercianti. Quando afferma che non vuole essere più il parafulmine di tutti, dice esplicitamente che sta pagando per colpe e responsabilità non sue. Siccome da indagini e processi si sono percepite altre corresponsabilità, che però non sono mai state messe a fuoco, solo lui, depositario di queste verità, ci può indicare, spiegare, dire di chi è stato il parafulmine. Noi siamo pronti, senza pregiudizi, ad ascoltare questa sua verità. E naturalmente a verificarla».

Procuratore, Riina sostiene di non avere nulla a che fare con la trattativa, semmai sospetta che il risultato di quella trattativa è stato la sua cattura.
«Su questo aspetto non posso entrare nel merito. Da indagini e processi in corso, in effetti è emerso che vi sono state una, due, forse tre trattative. All’inizio, Totò Riina stava incominciando ad avere un qualche ruolo nella trattativa. Poi, evidentemente, è stato scavalcato».

Quando?
«Già prima del suo arresto e sicuramente dopo. Lui ne sa, comunque, più di noi».

La prima trattativa. Quella del papello. Riina si chiama fuori e invita a fare una perizia calligrafica sul pezzo di carta attribuito a lui, ma non ancora consegnato da Massimo Ciancimino, sul quale avrebbe posto allo Stato le condizioni per far cessare le stragi e gli omicidi eccellenti.
«Su questo davvero non posso dire nulla. Sono in corso indagini molto delicate. Se vi fu trattativa, certamente non fu solo interesse di Cosa nostra a chiuderla. Tutti, da subito, sin dal 1992, hanno avuto la sensazione che vi fossero altri mandanti esterni a Cosa nostra, dietro lo stragismo di quel biennio ‘92-‘94».

da lastampa.it
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« Risposta #68 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:17:07 pm »

I «messaggi» del boss accusato di decine di omicidi che parla in carcere con l'avvocato: «Non ho scritto io il papello. Nesso tra bombe e Tangentopoli»

Totò Riina: dietro le stragi i piani alti della politica

«Borsellino fu ucciso da quelli che fecero la trattativa»


DAL NOSTRO INVIATO

PALERMO — È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando ieri mattina Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali. Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro. Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino. Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione. Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».

Felice Cavallaro
19 luglio 2009

da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:03:47 pm »

Palermo, la marcia delle 'agende rosse'



Al grido di «Resistenza. L'agenda rossa esiste» è partita da via D'Amelio la «marcia» voluta da Salvatore Borsellino, per commemorare il fratello Paolo, procuratore aggiunto ucciso il 19 luglio del 1992 assieme agli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Nessun politico, pochi palermitani, tanta gente del Nord alla marcia che ha il sapore della protesta più che del ricordo.
Protesta contro lo Stato che «ha fatto - ha detto Salvatore Borsellino - davvero poco in 17 anni» per scoprire i mandanti di quella strage che avvenne a soli 57 giorni dall'uccisione dell'altro magistrato, Giovanni Falcone. Circa trecento persone si sono messe in marcia verso castello Utveggio (ex sede del Sisde, da cui, secondo i parenti di Borsellino, sarebbe forse partito il segnale per uccidere il magistrato) con le agende rosse in mano, che rappresentano quella del giudice che non fu mai ritrovata, e tenendo lo striscione «Via D'Amelio, strage di Stato».

Alla testa del corteo, oltre a Salvatore Borsellino, c'era anche l'ex pm Luigi De Magistris, esponente di Italia dei Valori.    «La lotta alla mafia procede per due vie diverse - ha detto Salvatore Borsellino -. Da un lato una parte delle forze dell'ordine e della magistratura che conduce una lotta serrata, dall'altro lato ci sono altre istituzioni, come la politica, che si contraddistinguono per una fortissima carenza di provvedimenti contro la mafia».

Le nuove indagini sulle stragi aprono adesso spiragli di speranza verso l'affermazione della verità. «Oggi finalmente, dopo anni di tenebre - ha proseguito Borsellino -, la lotta che si sta conducendo nelle procure di Palermo e Caltanissetta sta andando nel verso giusto».

La sorella, Rita, parlamentare europeo del Pd, si chiede però «perchè queste piste vengano fuori solo dopo 17 anni. Ho molti dubbi, ma non accuso nessuno». Per Salvatore Borsellino «Se pentiti come Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino non avevano parlato fino adesso è perchè forse non avevano trovato le interfacce giuste all'interno della magistratura».

Proprio affinchè i pm continuino a lavorare «bisogna vigilare - ha detto De Magistris - perchè non vengano fermati da parte di pezzi deviati delle istituzioni che hanno operato e opereranno per ostacolare la magistratura».

18 luglio 2009
da unita.it
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« Risposta #70 inserito:: Luglio 21, 2009, 11:05:04 pm »

21/7/2009
 
Il Padrino non parla mai a caso
 
 
FRANCESCO LA LICATA
 
Fedele al ruolo che la storia recente le attribuisce, Palermo sembra tornare alla vecchia vocazione di laboratorio che sperimenta trame e «prove d’arte» per sceneggiature poi puntualmente esportate nel panorama nazionale. È, questo, un timore fondato, se il Capo dello Stato ha avvertito la necessità di intervenire, documentando così la sua protettiva attenzione, in una vicenda scivolosa che coinvolge le recenti esternazioni di due soggetti molto «particolari», come Totò Riina e Massimo Ciancimino (figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, è già stato condannato per riciclaggio e ora è teste in numerosi processi di mafia) che il Quirinale definisce «discutibili».

Che succede, dunque, a Palermo? Non è facile dare risposte ad una domanda che puntualmente si ripropone ogni volta che i miasmi del pozzo nero del potere mafioso restituiscono antichi interrogativi irrisolti e nuovi scenari incomprensibili. Ascoltando le parole del vecchio «padrino» di Cosa nostra torna alla memoria, giusto per fare un esempio concreto, un anonimo inviato nel 1992 ad un fitto elenco di autorità (Quirinale compreso). Era un documento di una lucidità impressionante che «spiegava» - col sistema più dell’ammiccamento che della prova limpida - la tragica fine del giudice Giovanni Falcone.

La inseriva al culmine di una asserita strategia politico-istituzionale tendente a guidare sostanzialmente il trapasso dalla prima alla seconda Repubblica. E non casualmente il testo, carico di fatti, misfatti e retroscena più o meno inconfessabili, si chiudeva con un elenco che proponeva - in sostanza - di scandagliare giudiziariamente in pratica tutte le realtà economiche e finanziarie siciliane e non solo, dagli Anni Sessanta ai Novanta.

Dopo quell’anonimo, rimasto tale malgrado acclarati contatti coi principali sospettati, fu ucciso anche Paolo Borsellino. Oggi dagli interventi dei «discutibili» Riina e Ciancimino apprendiamo che in mezzo alle due tragedie (siciliane ma nazionali) fu stilato un «papello», cioè un elenco di richieste avanzato da Cosa nostra allo Stato perché fosse alleggerita la posizione giudiziaria dei capi della «cupola». Ancora una scritto viscido, dunque, al centro di un dialogo innaturale fra «guardie e ladri».

Per lunghi anni quel «papello» è rimasto quasi una suggestione impalpabile. Ne parlavano i pentiti ma era un favoleggiare più che altro. Poi il figlio di Ciancimino ha trasformato la suggestione in una prova. Ha detto di essere in grado di esibire il famigerato pezzo di carta, custodito in una cassaforte all’estero.

Non si sa se e quando sia avvenuta la «consegna ufficiale», ma - a giudicare dalla reazione di Riina - sembra proprio che il «pezzo di carta» cominci a creare qualche irrequietezza.

Se Riina sente la necessità di affidare al suo avvocato il messaggio-ricatto alle Istituzioni («Borsellino l’hanno ammazzato loro») deve aver percepito che si è creata la necessità di mettere in moto un tipo di meccanismo simile a quello del ’92, che paralizzò il Paese mentre cambiava lo scenario politico. Allora le bombe, oggi la strategia mediatica dello sfascio istituzionale. E chi conosce il mondo criptico dell’esoterismo mafioso, assicura che il messaggio del «Padrino» è anche «stabilizzante» rispetto alla propria leadership («Tranquilli, il capo sono ancora io e posso interloquire con chiunque»). Resta un fatto: Riina ha «dovuto» parlare, anche a costo di dovere in qualche modo certificare l’esistenza (sempre negata) della mafia, spingendosi ad ammettere di essere stato non coprotagonista di una «trattativa», ma «oggetto».

L’altro fatto riguarda Ciancimino e la sua capacità dirompente, non si sa quanto gestibile dallo stesso «teste a tutto campo». Coinvolge politici in una «normale» storia di corruzione, ma poi caccia dal cilindro tre documenti inediti: tre lettere che la mafia avrebbe inviato al presidente del Consiglio in un periodo compreso tra il ’91 e il ’95.

A differenza del «papello», si ha prova dell’esistenza delle tre lettere, che si apprestano ad entrare nel processo d’appello contro il senatore Dell’Utri, con l’immancabile conseguenza di un coinvolgimento, almeno di immagine, del premier.

Un tiro mancino dalla Sicilia che, proprio in questo momento, comincia a far mancare a Berlusconi il tradizionale plebiscito, dirottando il consenso sul «Partito del Sud» che governa in Sicilia stravolgendo ogni rapporto di forza e di affari.
 
da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:39:04 am »

I nuovi pentiti: contatti fino al '94, anno di nascita di Forza Italia

I fratelli Graviano accostati in più inchieste a Dell'Utri

Dalle carte delle stragi di mafia quella trattativa tra boss e politica


di ATTILIO BOLZONI


PALERMO - Le indagini sui morti eccellenti di Palermo cambiano rotta e destinazione. Tornano in scena i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss più "stragisti" della città. I mafiosi che in tante inchieste e agli atti di un processo vengono raccontati come molto vicini al senatore Marcello Dell'Utri.

Torna in scena una "trattativa" fra mafia e Stato che non si è interrotta con Capaci o con via D'Amelio, ma è proseguita fino al 1993 e anche nei primi mesi del 1994. Torna in scena la coincidenza temporale fra le stragi siciliane e la nascita di un nuovo partito: Forza Italia.

S'indaga su altri mafiosi. E s'indaga anche su quelli che chiamano i "mandanti altri", i mandanti che non sono di Cosa Nostra. Le ultime scoperte spostano l'epicentro investigativo: da una borgata palermitana all'altra, dalla Guadagna a Brancaccio. Sono appena un paio di chilometri sulle mappe di Palermo, sono un paio di chilometri che portano in un altro mondo di intrecci fra boss e uomini politici a ridosso delle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
Ci sono i fatti e poi ci sono le congetture, le ipotesi, le voci. Ci sono personaggi che sono già scivolati nelle nuove indagini e poi ci sono ombre che si allungano oltre i boss. C'è chi dice che un pentito abbia già fatto nomi, c'è chi dice di no, certo è che la "pista di Brancaccio" fa scorrere una nuova trama nella storia delle stragi siciliane del 1992.

Si scava - alla procura di Palermo e a quella di Caltanissetta - sul patto fra i Corleonesi di Totò Riina e apparati dello Stato (alcuni già identificati, altri in corso di identificazione), si scava sul coinvolgimento nelle stragi di uomini dei servizi segreti, si scava sulla "accelerazione" della decisione di uccidere Borsellino voluta a tutti i costi da qualcuno. Chi?
Sono due i testimoni che hanno svelato elementi inediti ai magistrati delle procure siciliane, a quella di Firenze e a quella di Milano. Uno è il pentito Gaspare Spatuzza, ex sicario e poi a capo della "famiglia" di Brancaccio. L'altro è Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito.

Il pentito Spatuzza si è autoaccusato della strage di via D'Amelio e ha praticamente sbugiardato Vincenzo Scarantino, l'uomo che 17 anni fa aveva confessato di aver portato in via D'Amelio l'autobomba. Ma Spatuzza non ha parlato solo della strage.
Spatuzza ha parlato tanto anche dei Graviano e dei loro "interessi" su a Milano, delle amicizie importanti che avevano in ambienti imprenditoriali. Dei Graviano e dei rapporti che avrebbero avuto con Dell'Utri riferiscono tanti altri pentiti, tutti passati al vaglio dei giudici di primo grado che nel dicembre del 2004 hanno condannato il fondatore di Forza Italia a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il racconto di Spatuzza è stato "secretato". Poi, i procuratori siciliani si sono concentrati sulla "pista di Brancaccio" con annessi e connessi.

Il secondo testimone chiave è il figlio dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. La procura di Palermo ha già depositato agli atti del processo d'appello a Marcello Dell'Utri uno stralcio di un suo interrogatorio e tre lettere che negli anni a cavallo delle stragi - fra il 1991 e il 1994 - l'allora capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano avrebbe indirizzato a Silvio Berlusconi. Lettere che sarebbero state inviate alla vigilia e subito dopo la famosa "discesa in campo". Lettere dove si fanno velate minacce e si parla del "contributo politico" che avrebbe voluto portare lo stesso Provenzano.

Grandi mediatori di questa che sembrerebbe all'apparenza un'altra trattativa, secondo Massimo Ciancimino, sono stati suo padre Vito e Marcello Dell'Utri. Il 17 settembre la Corte di appello deciderà se acquisire agli atti del processo di secondo grado l'interrogatorio del figlio di don Vito e le tre lettere. Se la richiesta verrà accolta la sentenza subirà uno slittamento, altrimenti a metà o a fine ottobre sapremo se al senatore Marcello Dell'Utri sarà confermata o sarà annullata la condanna per mafia.
I sussurri si sono rincorsi per tutta l'estate su quei "mandanti altri". E anche sulla trattativa. Fino a qualche tempo fa si diceva che era cominciata prima di Capaci ed era finita prima di via D'Amelio. Poi si è scoperto che è andata avanti ancora per due anni. "Fino al 1994", riferisce il colonnello dei carabinieri Michele Riccio riportando le confidenze del suo informatore Luigi Ilardo, un boss vicino a Provenzano. Fino al 1994, fino a quando Berlusconi è diventato il leader di Forza Italia.

E' un'indagine che si ripete. Con tanti nuovi protagonisti. Ma non tutti. I nomi del premier e del suo braccio destro siciliano erano già entrati nelle indagini sulle stragi siciliane e poi anche in quelle in Continente, le bombe di Firenze e Roma e Milano del 1993. A Caltanissetta furono iscritti nel registro degli indagati come "Alfa" e "Beta" "per concorso nelle stragi", a Firenze come "Autore 1" e "Autore 2". Dalla prima inchiesta - ("Prove insufficienti, dichiarazioni di pentiti senza riscontro, elementi contrastanti") - uscirono nell'inverno del 2002, dalla seconda tre anni prima.

(9 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #72 inserito:: Settembre 18, 2009, 11:51:43 am »

Stragi ’92

Mafia, Mancino dai pm: mai saputo di trattative

No a Ciancimino nel processo Dell’Utri: parole confuse


ROMA — Era quasi una tap­pa obbligata, per le testimo­nianze raccolte in precedenza e per i due esposti che l’interessa­to ha presentato alle Procure di Caltanissetta e Palermo, che an­cora indagano sulle stragi ma­fiose del 1992 e sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa No­stra in quella stagione.

Ieri Nico­la Mancino, ministro dell’Inter­no dell’epoca insediatosi tra l’eccidio che uccise Giovanni Falcone e quello che tolse di mezzo Paolo Borsellino, è stato ascoltato per circa tre ore dai procuratori di Caltanissetta La­ri e di Palermo Messineo, che insieme ai loro sostituti hanno verbalizzato ciò che l’attuale vi­ce- presidente del Consiglio su­periore della magistratura ripe­te da mesi: lui, al Viminale, non ha mai sentito parlare né di trat­tativa né di papello con richie­ste mafiose per far cessare le stragi; «e quando fu ipotizzato che questo potesse essere il di­segno deli boss, l’eventualità fu immediatamente scartata». Nell’interrogatorio, sollecita­to dallo stesso Mancino, s’è tor­nati a parlare dell’incontro con Borsellino segnato sull’agenda del giudice alla data del 1˚ lu­glio ’92, che il vicepresidente del Csm nega esserci stato: «Non l’ho visto, a meno che non sia stata una stretta di ma­no come le centinaia di altre di quel giorno, di cui non ho me­moria ». Nessun colloquio, quin­di, come nessuna notizia dei contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino. E’ stato il figlio dell’ex sinda­co mafioso di Palermo, Massi­mo Ciancimino, a dire che suo padre aveva chiesto la «garan­zia istituzionale» del governo e dell’opposizione prima di allac­ciare contatti coi boss, facendo i nomi di Mancino e di Luciano Violante. Quest’ultimo ha con­fermato una proposta di incon­tro da parte di Ciancimino se­nior che lui rifiutò, mentre l’al­lora ministro dell’Interno riba­disce di non averne saputo nul­la. «Del resto - ha ribadito ai pm - con me al Viminale l’azio­ne di contrasto a Cosa Nostra s’è inasprita fin da subito».

Dunque Mancino smentisce che quanto riferito dal figlio di Ciancimino sia mai avvenuto, nello stesso giorno in cui altri magistrati hanno definito «con­fuse e contraddittorie» alcune dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco: quelle sulla presunta lettera che Bernardo Provenza­no avrebbe fatto avere a Silvio Berlusconi tramite Marcello Dell’Utri, senatore del Popolo della libertà condannato in pri­mo grado a nove anni di carce­re per concorso in associazione mafiosa. Il processo d’appello è giunto alle battute finali, e sul filo di lana il pubblico ministe­ro ha proposto ai giudici la testi­monianza Ciancimino jr; per parlare del misterioso foglio di carta, trovato solo in parte a ca­sa sua, dove si citano l’attuale premier e un possibile «triste evento» ai suoi danni. Secondo Massimo Ciancimino, all’inizio degli anni Novanta Dell’Utri sa­rebbe stato l’intermediario di quel messaggio mafioso indiriz­zato a Berlusconi, che gli «uo­mini d’onore» consideravano un «irriconoscente che si stava scordando di certe situazioni e vantaggi avuti». I giudici della corte d’appel­lo, però, hanno detto di no alla sua deposizione. Perché riten­gono che quanto il giovane Ciancimino ha già spiegato nel­l’inchiesta palermitana fornisca un quadro «confuso e oltremo­do contraddittorio», inutile ri­spetto al processo contro il se­natore: «Non emergono condot­te e fatti riconducibili a Del­l’Utri che siano suscettibili di utile apprezzamento».

Scartata questa testimonian­za, la fase dibattimentale del processo Dell’Utri s’è chiusa, e sempre ieri il pubblico ministe­ro ha avviato la requisitoria. Suo malgrado, perché l’accusa avrebbe voluto sottoporre ai giudici anche il neo-pentito Ga­spare Spatuzza. Il quale nell’in­dagine fiorentina sulle bombe del ’93 ha riferito fatti e collo­qui coi fratelli Graviano (boss stragisti suoi diretti superiori in Cosa Nostra) che coinvolge­rebbero anche il senatore. Ma stavolta il no è arrivato proprio dagli inquirenti di Firenze. In una lunga e accesa riunio­ne mercoledì alla Direzione na­zionale antimafia il procuratore generale di Palermo Luigi Cro­ce ha chiesto il verbale di Spa­tuzza per portarlo al processo, e il capo della Procura fiorentina Giuseppe Quattrocchi glielo ha negato: le indagini in corso non consentono di renderlo pubblico in questa fase. Che pe­raltro, se convocato al dibatti­mento contro Dell’Utri, avrebbe dovuto rispondere alle doman­de degli avvocati, che certo avrebbero spaziato su tutte le sue recenti rivelazioni. Un dan­no troppo grande all’inchiesta, ha spiegato Quattrocchi. Inva­no il procuratore nazionale Grasso ha perorato la causa pa­lermitana: le dichiarazioni di Spatuzza su dell’Utri e dintorni restano coperte dal segreto, in attesa di nuovi sviluppi.

Giovanni Bianconi
18 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #73 inserito:: Ottobre 14, 2009, 10:42:43 am »

La moglie del giudice ai pm. I dubbi del magistrato a 48 ore dalla morte

Un testimone rivela: "Aveva sospetti su un generale dei carabinieri"

La vedova Borsellino ai pm "Ecco tutti i sospetti di Paolo"

di ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO


HA PARLATO come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D'Amelio.

Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall'altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell'autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l'uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.

Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. "Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi". Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: 'Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...'". Un paio d'ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, "per interrogare ancora Mutolo".

Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell'allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all'ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò".
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l'ha ribadito un'altra volta: "Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".

Un'informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un carcere dov'erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza.
Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della "trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori - "l'anima" dei reparti speciali - e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella "trattativa".

Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L'ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L'ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: 'Il generale Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra ndr)...'".

Un'affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato.
Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?...".

E conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c'è il loro referente capo, il generale Subranni...". È un'altra indagine nell'indagine sui misteri delle stragi siciliane.

© Riproduzione riservata (14 ottobre 2009)
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« Risposta #74 inserito:: Novembre 21, 2009, 09:59:05 pm »

Il collaboratore sul presunto «accordo politico» della mafia

«Io, i Graviano e i politici»

Il verbale del pentito Spatuzza

«Il boss non trattava con le mezze carte».

Le «deduzioni» su contatti con Dell’Utri e Berlusconi.


PALERMO — Il pentito Ga­spare Spatuzza non ha dubbi: quando fece l’accordo politi­co con chi doveva risolvere i problemi della mafia — Sil­vio Berlusconi e Marcello Del­l’Utri, a suo dire — il boss Giuseppe Graviano li contat­tò direttamente. «Ritengo di poter escludere categorica­mente — spiega l’ex uomo d’onore —, conoscendoli as­sai bene, che i Graviano si sia­no mossi nei confronti di Ber­lusconi e Dell’Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averne personalmente parlato». Che avevano chiuso l’accor­do, ha raccontato Spatuzza, glielo spiegò lo stesso Giusep­pe Graviano, facendogli i no­mi dell’attuale capo del gover­no e del suo principale colla­boratore in Sicilia. Ma quan­do un pm gli chiede se Gravia­no potesse essere arrivato a quei due «attraverso un’altra persona, senza conoscere lo­ro », Spatuzza reagisce deciso: «No, no! Non esiste! Non trat­tano con le mezze carte. Han­no avuto sempre nella vita i contatti diretti». E parlando­gli di Dell’Utri come «un pae­sano », il capomafia intende­va «qualcosa di più di Berlu­sconi... Paesano lo posso con­siderare come una persona vi­cinissima a noi».

Nell’interrogatorio reso ai magistrati di Firenze che in­dagano sulle stragi mafiose del 1993, depositato ieri al processo d’appello contro il senatore del Pdl Marcello Del­l’Utri (condannato in primo grado a 9 anni di carcere per concorso in associazione ma­fiosa) il neo-pentito Spatuz­za, che deporrà in aula il 4 di­cembre, spiega che lui con i Graviano e gli altri boss parla­va «a mezze frasi», ma poi precisa: «Sono le abitudini di Cosa nostra, nella quale con le mezze frasi si fanno i palaz­zi ». E aggiunge la «deduzio­ne », come la definisce lui stes­so, maturata sulla base della sua «disgraziata esperienza», che Berlusconi e Dell’Utri, «in un un primo momento han­no fatto fare le stragi a Cosa nostra, e poi si volevano ac­creditare all’esterno come co­loro che erano stati in grado di farle cessare».

Accuse pesanti, entrate ora anche nell’indagine palermi­tana sulla presunta trattativa tra mafia e Stato nel cui ambi­to ieri è stato nuovamente in­terrogato Massimo Ciancimi­no, figlio dell’ex sindaco ma­fioso di Palermo. A Firenze in­vece, dov’è stata riaperta l’in­chiesta sulle bombe del ’93, Spatuzza è stato messo a con­fronto con i due fratelli Gra­viano, condannati all’ergasto­lo per l’omicidio di don padre Puglisi, il parroco del quartie­re palermitano Brancaccio, e per le stragi organizzate nel continente. Davanti al mag­giore, Giuseppe, il pentito s’è presentato con una lettera in cui lo invita a muovere il suo stesso passo. «Mi rendo con­to quanto sia difficile passare dalla parte dello Stato — scri­ve Spatuzza al suo ex capoma­fia — ma una volta fatto il pri­mo passo tutto diventa più bello... Si deve avere la capaci­tà di rompere questo schema terroristico mafioso che è pro­fondamente radicato nella no­stra cultura...». All’esortazio­ne Giuseppe Graviano ha ri­sposto con un secco: «Non ho niente da dire».

Ha parlato, invece, Filippo. Senza confessare nulla e anzi smentendo le accuse e i ricor­di di Spatuzza. Ma ripetendo sempre, come un ritornello: «Mi dispiace...». Quarantotto anni, laureando in Economia e commercio attraverso esa­mi sostenuti in carcere con ot­timi risultati, Filippo Gravia­no dice che lui dai politici non s’è mai aspettato nulla, né di aver mai confidato a Spatuzza che se i politici non avessero rispettato le promes­se fatte a Cosa nostra si pote­va cominciare a parlare coi magistrati. Ma ad ogni occa­sione il giovane Graviano ri­badisce al suo ex amico frater­no: «Mi dispiace dovermi tro­vare in contraddizione con te. Io non ho motivo di con­traddire quello che tu hai det­to ». Atteggiamento insolito per un mafioso davanti a un pentito, solitamente oggetto di contumelie e controaccuse di «infamità». Niente di tutto questo, anzi: «Ti auguro tutto il bene del mondo, non ho niente contro le tue scelte. So­no contento che tu abbia ri­trovato la pace interiore».

Nel faccia a faccia Spatuzza mostra a Graviano jr la famo­sa foto del bambino ebreo al cospetto dei nazisti. «Te l’ho fatta vedere nel 2000», gli ri­corda: «Rappresenta padre Puglisi, Giuseppe di Matteo (il figlio del pentito sciolto nell’acido, ndr )... tutte le vitti­me che abbiamo fatto». Filip­po Graviano nega: «Non ricor­do di averla mai vista». Ma ancora una volta, rivolto al pentito: «Non ho nulla con­tro di te, né contro la tua col­laborazione ».

Giovanni Bianconi

21 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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