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Autore Discussione: MAFIA - MAFIE - CORRUZIONE  (Letto 69678 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 12, 2009, 09:22:16 am »

Mistero Borsellino

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


Dopo il "botto" sull'autostrada di Capaci, nei 56 giorni che separarono l'attentato a Giovanni Falcone da quello a Paolo Borsellino, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino sarebbe venuto a sapere che pezzi dello Stato avevano intavolato una "trattativa" con Cosa nostra per far cessare il terrorismo mafioso, in cambio di alcune concessioni legislative: prima fra tutte la revisione del maxiprocesso. Sarebbe stato uno dei protagonisti di quel negoziato, Vito Ciancimino, a chiedere alcune "garanzie istituzionali", tra cui quella che Mancino fosse informato.

E avrebbe ottenuto, attraverso canali tuttora al vaglio dei magistrati, che l'informazione giungesse al destinatario. È uno dei passaggi più delicati delle nuove rivelazioni fatte nei giorni scorsi ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, il figlio prediletto di Vito, l'ex sindaco mafioso del capoluogo siciliano che fu per decenni la longa manus del boss Bernardo Provenzano nel cuore della Dc.

I nuovi verbali, trasmessi subito a Caltanissetta, sono già sul tavolo del procuratore Sergio Lari, che coordina l'ultimo fascicolo rimasto aperto sui mandanti esterni della strage di via D'Amelio e contengono rivelazioni che potrebbero imprimere una svolta alle indagini sull'eliminazione di Borsellino, la pagina più inquietante della sfida mafiosa sferrata contro le istituzioni all'inizio degli anni Novanta. Gli stessi verbali sono confluiti nella nuova indagine della procura di Palermo sui "sistemi criminali" in azione in Italia durante la stagione delle stragi. E non è escluso che Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, venga chiamato dalle due procure siciliane nelle prossime settimane per fornire la sua versione dei fatti.

Massimo Ciancimino, l'unico dei quattro figli di don Vito a vivere con lui fino alla fine dei suoi giorni, è un personaggio assai controverso: condannato a cinque anni e otto mesi per riciclaggio del tesoro accumulato dal padre in quarant'anni di attività politico-amministrativa, imprenditore di una miriade di società grandi e piccole, è noto a Palermo per le sue abitudini da bon vivant, tra auto di lusso, yacht miliardari e vacanze esclusive. Da qualche mese, il figlio dell'ex sindaco 'collabora' con gli inquirenti e nelle ultime settimane ha ricostruito nei dettagli con i magistrati di Palermo le fasi cruciali del negoziato che gli uomini del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, a cavallo tra le due stragi del '92, avviarono con don Vito per chiedere al boss Totò Riina di fermare l'attacco allo Stato. "Mio padre", ha detto Ciancimino, "era molto prudente, comprendeva tutti i rischi della situazione, e voleva essere sicuro che ci fosse una copertura istituzionale al negoziato.

Voleva accertarsi che gli uomini del Ros avessero concretamente l'approvazione delle istituzioni".
È questa una circostanza che Mori e De Donno hanno sempre negato, sostenendo di essere andati da Ciancimino in assoluta autonomia, spinti solo dalla necessità di stringere il cerchio attorno a Riina. Ma Ciancimino jr la racconta in un modo diverso, sostenendo davanti ai pm di Palermo di aver visto con i suoi occhi il famoso "papello", il foglio con le richieste che Cosa nostra presentò allo Stato in cambio di uno stop alla stagione delle stragi. "Il medico personale di Riina, Antonino Cinà", ha raccontato, "era il collegamento diretto.

Tutte le volte che mio padre ha iniziato la trattativa, l'ho visto spesso a casa mia". Ma a portare il "papello", secondo il giovane imprenditore, sarebbe stata un'altra persona, un "signore distinto", che avrebbe consegnato materialmente la busta con le rivendicazioni di Cosa nostra. "Mio padre lo conosceva", ha aggiunto Massimo Ciancimino, "lo aveva incontrato varie volte a Roma. Non so perché la busta gli venne consegnata a Palermo". Quel "signore distinto" il figlio di don Vito non lo conosce, non sa chi sia. I pm di Palermo gli hanno sottoposto una serie di fotografie, ma l'esito degli accertamenti è ancora top secret.

È a questo punto della trattativa che l'ex sindaco di Palermo, secondo il figlio, avrebbe chiesto una "garanzia" istituzionale per procedere nel negoziato con lo Stato. Chiedendo di informare il ministro Mancino degli incontri avviati tra Roma e Palermo con gli uomini del Ros. Secondo Ciancimino jr, quella richiesta sarebbe stata esaudita. Il padre avrebbe avuto la conferma che Mancino era stato informato.

Dopo questa rivelazione, l'attenzione investigativa si è concentrata sull'incontro del 1 luglio 1992, il giorno in cui Paolo Borsellino venne convocato al Viminale durante la cerimonia di insediamento di Mancino, che subentrò a Vincenzo Scotti alla guida del ministero degli Interni. I pm hanno acquisito l'interrogatorio reso da Mancino ai magistrati di Caltanissetta nel '98: "Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla", ha detto Mancino ai pm, "era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui però non ho avuto alcuno specifico colloquio e perciò non posso ricordare in modo sicuro la circostanza".

Un incontro che, invece, ricorda l'avvocato generale di Palermo Vittorio Aliquò che quel giorno accompagnò Borsellino sulla soglia della stanza del neo-ministro. Ricorda di averlo visto entrare, di averlo visto uscire poco dopo, e di essere entrato a sua volta, ma da solo.

Perché questo incontro è importante per le indagini? Perché, ipotizzano i magistrati, se è vero che Mancino fu avvertito della trattativa in corso, anche Borsellino, erede di Falcone, in quel momento uomo-simbolo della lotta alla mafia in Italia, e candidato in pectore alla Superprocura, potrebbe esserne stato a sua volta informato quel giorno al Viminale. E se davvero Borsellino avesse saputo che lo Stato era sceso a patti con Cosa nostra, è la tesi investigativa, la sua posizione di netta contrapposizione o di presa di distanza potrebbe averne determinato la morte. È certo, sottolineano in procura, che ad un certo punto la trattativa si arenò, le richieste di Cosa nostra vennero giudicate inaccettabili, e Riina decise di provocare un nuovo "botto" per riavviare i contatti istituzionali. E le sentenze di due processi, quello per la strage di Firenze e il Borsellino-bis concluso a Caltanissetta, acquisite a Palermo agli atti della nuova inchiesta, hanno sostenuto che fu proprio la trattativa interrotta a provocare una ripresa della stagione delle stragi.

"Dopo la morte di Borsellino, mio padre si sentiva in colpa", ha rivelato Massimo Ciancimino. "Mi confidò le sue riflessioni su tutta questa storia: disse che avviare la trattativa era già stata una prova di debolezza da parte dello Stato, ma che fermarla aveva avuto un effetto disastroso".

Fin qui le rivelazioni del figlio di don Vito, che nei giorni scorsi a Palermo è rimasto vittima di un'intimidazione che lo ha costretto ad anticipare la partenza per la città del nord Italia dove vive attualmente con la famiglia.

Chiarezza sugli incontri di quel primo luglio al Viminale hanno sempre reclamato i fratelli di Paolo Borsellino, Rita e Salvatore. "Chiedo soprattutto al senatore Nicola Mancino del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al '92, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo", ha scritto Salvatore Borsellino in una lettera aperta nel luglio del 2007, "lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi e abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di cosa si parlò nell'incontro con Paolo"

(08 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 17, 2009, 03:51:25 pm »

Il boss Setola e i suoi sicari intercettati: canzoni e risate prima delle stragi

Venti lunghissimi minuti ascoltati in diretta dai carabinieri sulle tracce del gruppo di fuoco

Le voci shock dei killer di Gomorra "Uccidiamoli e beviamoci un caffè"

dall'inviato CONCHITA SANNINO

 
SANTA MARIA CAPUA VETERE (Caserta) - "Li dobbiamo uccidere, hai capito? Na botta 'nfaccia". Spietati ordini in dialetto, ma anche risate, voci che intonano canzoni neomelodiche. E poi gli spari dei mitra, colonna sonora dell'ultima strage portata a termine. Sono il contenuto di un'intercettazione ambientale che inchioda il boss camorrista Giuseppe Setola, arrestato tre giorni fa.

"Li dobbiamo levare di mezzo, hai capito? Na botta 'nfaccia, vai". Voci gutturali. Parole tronche. Il ghigno della distrazione e l'eccitazione dei giustizieri di mafia. Adrenalina e analfabetismo, bestemmie e insulti. In testa hanno soprattutto le femmine (le proprie) e il sangue (dei nemici). Un manifesto di bestialità casalese. Ecco quale lingua parlano Giuseppe Setola e il suo commando di fuoco, mentre stanno per uccidere. Eccoli cantare, un attimo prima di seminare sangue e terrore. E ridere. Gli assassini intonano gorgheggi da neomelodici. La goliardia galleggia nell'auto sotto intercettazione, mentre i criminali impugnano sotto i giubbotti pistole e kalashnikov e coprono in auto i pochi metri dalle loro case verso i nemici, diretti come schegge sui bersagli e le loro famiglie da massacrare.

Abbandonati ai sedili, i killer guidati dal capostragista di Casal di Principe biascicano lamenti da innamorati, musica stampata su cd quasi clandestini. "Tu sì zucchero per me, doce doce doce". E poi, arrivati a destinazione, sparano. Una pioggia di fuoco. Potente. Incessante. Centosette colpi di semiautomatiche e di un kalashnikov. Ma sono raffiche che lo Stato ascolta quasi in diretta. È impossibile fermare quel branco per tempo. Resta però la prova schiacciante. Oltre venti interminabili minuti di intercettazione. Un documento choc. Un supporto di straordinario valore probatorio. Che resterà nelle pagine dell'antimafia di Napoli. E da stamane diventa indizio schiacciante. Integrato all'ordinanza di custodia, per duplice tentato omicidio, che sarà contestata proprio oggi, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a Giuseppe Setola e ai suoi sicari, dai pubblici ministeri Alessandro Milita e Cesare Sirignano, con il procuratore antimafia Franco Roberti.

Il sonoro della violenza cieca è targato "FO 25", numero in codice della captazione eseguita dai carabinieri del casertano, coordinati dal colonnello Carmelo Burgio. In quel file c'è il racconto audio del fuoco esploso dai sicari a 360 gradi contro finestre, abitazioni e gente inerme. La missione è sterminare i nemici. Regia criminale ed esecuzione di Giuseppe Setola, il terrorista del gotha mafioso di Casal di Principe, il trentottenne e pericoloso capobranco, lucida follia criminale al servizio "politico" dei padrini più imprendibili di lui. Solo che questo "film" si ascolta in diretta dalle viscere di un impero mafioso. È Gomorra, ben oltre il lungometraggio del mancato Oscar. Questo è un film senza immagini, senza sceneggiatura, né aggiustamenti dettati dal cast. Ma si imprime: pura verità nel suo divenire criminale. La registrazione è in mano alla Procura di Napoli che ha firmato la cattura del boss.

L'intercettazione racconta in diretta due tentati omicidi. I centosette colpi, canzoni intonate dai killer e il tempo persino per concedersi un caffè. Il tutto condito da recriminazioni e volgarità contro i due bersagli che sono sfuggiti al loro grilletto. È l'ultimo raid firmato da Setola, quasi un mese prima della sua resa a un'imponente caccia all'uomo. Si tratta del duplice agguato di Trentola Ducenta, nel casertano.
È il 12 dicembre scorso, sono le 22. Le due spedizioni punitive vengono messe a segno a distanza di pochi secondi, sempre nel cuore del paese di Trentola, lo stesso sgarrupato paese dove - venti giorni più tardi - si scoprirà il covo di Setola, quella topaia di via Cottolengo in cui Setola si rifugia con la moglie, che si è trascinata lì con la sua shopping Louis Vuitton, gioielli, profumi e 17mila euro in contanti, un basso dal quale il boss riesce a fuggire calandosi nelle fogne e strisciando nella melma.

La sera del 12, dunque. Setola si sente ancora spavaldo e imprendibile. Escono armati di almeno quattro armi. A terra, tanti bossoli: tracce di un fucile mitragliatore calibro 7.62, tipo AK 47, di una pistola calibro 9 per 21 ed un'altra semiautomatica calibro 9 corto.

La follia criminale si concentra contro due nemici, Salvatore Orabona e Pietro Falcone. Il primo, vanno a colpirlo in via Caravaggio. Il secondo, a pochi minuti di auto, in via Vittorio Afieri. Entrambi sono "colpevoli", agli occhi del capobranco, di non aver versato parte delle tangenti raccolte sul territorio nella cassa di Setola. Non lo riconoscono come il plenipotenziario del padrino Bidognetti, oggi in carcere. In azione, c'è un commando di cinque o sei uomini. Due auto portano i killer, una delle quali è la Lancia Y sotto intercettazione.

Il viaggio raccontato da "loro", dai sicari, è un sonoro raggelante. "Ma noi quando arriviamo là sopra, chi vogliamo trovare?". L'altro risponde: "Ci vuole una botta in faccia. Dobbiamo uccidere a tutti e due". Passano pochi minuti, cantano. Poi arrivano in via Caravaggio. Si fanno avanti Granato e Barbato, due dei killer. Ma il trucco di attrarre fuori del portone Orabona con un vassoio di dolci e una bottiglia di spumante non funziona. Allora quelli sparano come pazzi. Le vittime si richiudono in casa, chiamano il 113. E i killer si scatenano. "Cornuto vieni fuori", gridano. "Dai esci cornuto, che uomo sei". E ancora: "Mannaggia ora ho finito il caricatore e adesso ho soltanto la 38". Insulti alla moglie, bestemmie. "Lo dobbiamo appicciare anche di notte", gli appicchiamo il fuoco.

Risulterà poi, la perfetta coincidenza logica e temporale tra questa registrazione e l'intercettazione simmetrica, stavolta telefonica, del raid così come l'ha vissuta la mancata vittima, Orabona. Che parla al cellulare con l'amico Peppe e si sfoga: "Hai capito? Quel cornuto è venuto a citofonare con una guantiera di paste e la bottiglia di champagne. Ma io l'ho visto, e dietro a lui c'era Peppe Setola, c'era Cascione. Hanno sparato come i pazzi, io mi sono salvato perché tenevo il pigiama e mi stavo cambiando, ma se io già mi ero messo la camicia e mi affacciavo, ero morto". A sparare, attestano anche i pm, c'è infatti Setola con il mitragliatore, Peppe 'a puttana. E poi: Giuseppe Barbato detto Peppe 'o Cascione; Raffaele Granata; Angelo Rucco, Angioletto o Chiattone. E i pm sospettano anche di Paolo Gargiulo, ovvero Calimero: un nome segnato in rosso perché era il fedelissimo che parlò, senza sapere di essere captato, dei cinquanta chili di tritolo in possesso del gruppo Setola. Era Gomorra quando sfidava lo Stato, con cento colpi in diretta.

(17 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 28, 2009, 03:59:30 pm »

Il magistrato antimafia: "Così la Camorra assaltò Parma"

Raffaele Cantone, il pubblico ministero che indagò sul boss del cemento e svelò gli interessi dei casalesi al nord, parla dell'inchiesta che fece tremare la città ducale, dell'intreccio tra imprenditoria e malavita, dei contatti con la politica

di Stefania Parmeggiani
 

E’ stato uno dei capitoli più inquietanti della recente storia di Parma: l’assalto della Camorra alla città, un patto di cemento tra gli imprenditori del nord e i boss casalesi, i contatti con la politica che si giustificò: “Non sapevamo chi fossero”. Raffaele Cantone, attualmente magistrato presso il Massimario della Cassazione, è l’uomo che coordinò le indagini su Pasquale Zagaria e i suoi affiliati, il pm di Napoli che scoperchiò gli interessi della Camorra al nord e che fece tremare la città ducale.

Cantone, che da dieci anni vive sotto scorta, oggi pomeriggio tornerà a Parma, alle 16 nell'aula magna di giurisprudenza, per presentare il suo libro “Solo per giustizia”. Lo abbiamo intervistato per rileggere, tramite i suoi occhi, quell’intreccio tra imprenditoria e mafia che sconvolse Parma. Non vuole fare i nomi, così come non li fa nel suo libro perchè le condanne non sono definitive e per alcune delle persone coinvolte non sono emersi elementi di rilevanza giudiziaria, perché ciò che gli preme è fare capire come la storia della città sia paradigmatica di quello che, distraendosi, può capitare ovunque nella ricca Emilia.

Dottore, perché la Camorra scelse Parma?
“Non credo che ci fosse una ragione specifica oltre ovviamente a quella della grande ricchezza dei possibili destinatari di interessi camorristici. Semplicemente a Parma i casalesi avevano un punto di riferimento, un imprenditore che poi è stato condannato in primo grado per associazione a delinquere di stampo camorristico, primo caso in tutto il nord Italia. Quest’uomo era legato, tramite il suo rapporto sentimentale con una donna, agli Zagaria. Era perfetto, quindi, come testa di ponte. I casalesi dovevano investire ingenti capitali e a Parma c’erano le condizioni per farlo”.

Quali erano queste condizioni? 
“Come in tutto il nord a lungo c’era stata una sottovalutazione del fenomeno mafioso dovuto a un difetto di conoscenza. Non c’erano stati significativi episodi di sangue e Pasquale Zagaria poteva passare come un grosso imprenditore forse un po’ eccentrico, come ci disse il direttore della filiale di una banca che lo aveva accompagnato a Milano a fare shopping in via Montenapoleone, ma non per questo impresentabile. Nessuno ci vedeva nulla di male nell’a verlo come socio. Aveva grandi disponibilità di denaro e anche capacità e conoscenze imprenditoriali”.

Vuol dire che oltre a essere un boss tra i più sanguinari era anche un buon imprenditore?
“Abbiamo delle intercettazioni telefoniche in cui lo si sente discutere di affari, di prezzi al metro quadrato, di materiali e mano d’opera come un esperto costruttore. La Camorra dispone di una raggiera d'imprese che convengono anche al nord perché affidare a loro, magari in sub-appalto, alcuni lavori significa non avere problemi di ritardo nella consegna o di liquidità… Tutto viene fatto e consegnato velocemente, a prezzi convenienti. Queste ditte sono utili a chi non si fa troppe domande”.

Quale era l’affare in quell'occasione?
“Una delle più grosse società immobiliari di Parma è stata confiscata perché per suo tramite la Camorra aveva acquisito un terreno nel pieno centro di Milano, sul quale potevano essere edificate varie unità immobiliari. Un affare da otto milioni di euro”.

La politica che ruolo ha avuto?
“L’imprenditore, che aveva una lunga storia professionale alle spalle, poteva evidentemente vantare rapporti con le istituzioni. Era in grado di mettere in contatto, come una sorta di mediatore, i boss casalesi e i politici. L’incontro avvenne in un albergo di Roma e il politico presente lo ammise, ma spiegandoci di non sospettare chi in realtà fosse quell’uomo. La sua condotta non ha nulla di rilevante dal punto di vista giudiziario, ma è sicuramente inquietante. Credo che oggi, anche grazie a libri come Gomorra, sia più difficile dire non sapevo”.

Esiste ancora il rischio di infiltrazioni camorristiche a Parma?
“In una situazione di crisi economica come quella attuale c’è il rischio concreto, a Parma come in tutto il nord, che vi siano soggetti malavitosi con grandi disponibilità economiche che provino a fare incette di imprese, case, terreni, che scalino le società per cambiarne gli assetti. E’ necessario vigilare, non sottovalutare o minimizzare nessun segnale. La storia di Parma è in questo paradigmatica perché disegna uno scenario che è applicabile ovunque, esportabile in qualunque città abbia grandi ricchezze e scarsa attenzione ai fenomeni malavitosi. Ci insegna molto, sui meccanismi con cui la Camorra tenta di infiltrarsi e conquistare territori che fino a poco fa le erano estranei”.

(04 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 14, 2009, 03:04:44 pm »

2009-04-14 13:40


TERREMOTO: PROCURATORE,FIUME DI SOLDI APPETIBILE PER MAFIOSI


 L'AQUILA - Il "fiume di soldi" che arriverà all'Aquila per la ricostruzione è appetibile per gli interessi mafiosi, che non sono estranei all'Abruzzo: e dunque la Procura dell'Aquila, che ha aperto un'inchiesta sui crolli provocati dal terremoto, vigilerà anche su quest'aspetto. Lo ha detto, parlando con i giornalisti, il procuratore della Repubblica presso di tribunale dell'Aquila Alfredo Rossini. "Ho parlato poco fa con il procuratore nazionale antimafia Grasso" del rischio di infiltrazioni mafiose, ha affermato Rossini. "Noi non possiamo dire che abbiamo già trovato interessi mafiosi nella ricostruzione, perché la ricostruzione ancora non è partita. Abbiamo però supposto che siccome in Abruzzo, come abbiamo già dimostrato, ci sono delle infiltrazioni mafiose, è abbastanza normale pensare che i mafiosi non siano distratti rispetto al fiume di soldi che deve arrivare". "Quindi - ha aggiunto il procuratore - staremo molto attenti per controllare chi verrà, i requisiti che dovranno avere, e non parlo soltanto della certificazione antimafia".

CHIODI, MAFIA NON E' PREOCCUPAZIONE CONCRETA - L'allarme relativo alla infiltrazione della criminalità organizzata nella ricostruzione in Abruzzo "non è una preoccupazione concreta". Lo ha detto, parlando con i giornalisti, il presidente della Regione, Gianni Chiodi. "E' una paura, un'ansia - ha spiegato - che deriva da quello che alcune volte è accaduto nel nostro Paese. Però i tempi sono cambiati: questo è l'Abruzzo e, soprattutto, non c'é nemmeno un principio di indizio per dire queste cose. Capisco però - ha concluso - che fa leggere i giornali".


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IN ABRUZZO INDAGINI SU INFILTRAZIONI MAFIOSE
di Lirio Abbate

ROMA - La mafia, già prima del terremoto, aveva iniziato a infiltrasi nella pubblica amministrazione in Abruzzo: il dato emerge da indagini della procura della Repubblica dell'Aquila, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia. Ora, dopo il sisma, il timore che la criminalità organizzata allunghi le mani sugli appalti è reale e gli investigatori stanno mettendo a punto le strategie per preservare il fiume di denaro che arriverà in Abruzzo per la ricostruzione.

Secondo rapporti giudiziari, di cui è in possesso l'ANSA, da alcuni mesi erano già state avviate indagini "che presentano tutte le caratteristiche di possibili infiltrazioni mafiose - scrivono gli inquirenti - ed in particolare di Cosa nostra, nel settore degli appalti e dello smaltimento dei rifiuti, attraverso la costituzione e il trasferimento in Abruzzo di società che potrebbero servire da un lato come serbatoio per il riciclaggio di denaro sporco e dall'altro per ottenere finanziamenti pubblici e appalti per lo smaltimento dei rifiuti".

L'indagine su possibili infiltrazioni mafiose in Abruzzo nella pubblica amministrazione ha portato a indagare su un'impresa costituita da alcuni anni, i cui movimenti societari hanno portato a ritenere "che serva ad operazioni di riciclaggio o altre attività illecite che richiedano la copertura di esponenti politici".

L'analisi fatta dalla Procura nazionale antimafia sull'Abruzzo porta alla conclusione che è "in netta crescita l'insinuarsi nella regione della camorra per quanto riguarda il traffico di droga e di Cosa nostra per possibili infiltrazioni mafiose, in corso di accertamento, soprattutto nel settore dello smaltimento dei rifiuti, con il suo strascico di corruzione e riciclaggio di denaro sporco". Il territorio abruzzese, secondo quanto emerge dalle inchieste, fino a poco tempo fa era immune da radicati insediamenti di matrice mafiosa, anche se sono state in costante aumento ed hanno assunto connotati di maggiore significatività le presenze criminali organizzate nel pescarese e nel teramano (principalmente nel settore del gioco d'azzardo, della contraffazione illegale di prodotti commerciali e dello spaccio di sostanze stupefacenti).

Ad ogni buon conto l'Abruzzo, così come la provincia di L'Aquila, per motivi legati soprattutto alle radici culturali e storiche, non ha prodotto fenomeni legati alla criminalità organizzata. Intanto gli scali marittimi di Pescara, Giulianova, Vasto ed Ortona focalizzano nella regione alcune rotte commerciali secondarie utilizzate anche per i traffici di stupefacenti, provenienti prevalentemente dall'Albania, e la tratta di esseri umani. "Penetrante ormai - scrivono i magistrati della Dna - la presenza di elementi legati alla camorra (soprattutto) ma oggi anche alla 'ndrangheta e alla mafia siciliana''.

Fenomeno peculiare dell'Abruzzo è la presenza sul territorio di gruppi di nomadi stanziali (le famiglie dei Di Rocco e degli Spinelli) dediti a tutti i possibili traffici, dallo smercio degli stupefacenti acquistati dagli albanesi, alle estorsioni e all'usura, con conseguenti investimenti immobiliari milionari. "L'esperienza del passato per le ricostruzioni del dopo terremoto nell'Irpinia - dice il procuratore nazionale Pietro Grasso - ci serve da esperienza per valutare e prevenire quello che può accadere in Abruzzo".

"Occorre considerare che l'Abruzzo - prosegue il capo della Dna - non è certo la Campania, dove vi è una presenza massiccia della criminalità organizzata". "L'esperienza - aggiunge il procuratore - impone di rendere più trasparenti gli appalti del dopo-terremoto, facendo anche attenzione a come vengono gestiti i fondi milionari e a quali imprese vengono affidati i lavori con trattativa privata". 

da ansa.it
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« Risposta #49 inserito:: Aprile 15, 2009, 09:07:05 am »

Mancato deposito della sentenza di primo grado.

L'Anm: i magistrati sono troppo oberati

Sottoposti all'obbligo di firma. Il prefetto assicura: "Situazione sotto controllo"

Giustizia lumaca in Puglia In libertà 22 mafiosi baresi


di GABRIELLA DE MATTEIS

 BARI - Saranno scarcerati in 22, tutti ritenuti vicini al clan più pericoloso della città, tutti condannati dopo anni e anni d'indagini, minacce e omertà. Saranno scarcerati oggi per il mancato deposito delle motivazione della sentenza di primo grado entro i termini previsti dalla legge. Sono gli imputati del maxiprocesso Eclissi nei confronti del potente clan mafioso barese degli Strisciuglio: oggi infatti scadono i termini di durata massima della custodia cautelare per coloro che sono stati condannati a pene inferiori ai dieci anni per accuse come quelle di aver fatto parte di un'organizzazione mafiosa o di un'associazione specializzata nel traffico di droga.

Il processo, celebrato con rito abbreviato, si era concluso il 16 gennaio 2008 con la condanna di quasi tutti i 161 imputati da parte del gup del tribunale di Bari Rosa Anna De Palo, da pochi mesi alla guida del Tribunale per i Minorenni.

E adesso le forze dell'ordine sono in stato di massima allerta: 13 dei 22 che torneranno in libertà, sino a questa mattina, erano in carcere. Da oggi non saranno più sottoposti ad alcuna misura cautelare nomi della criminalità come Gianluca Corallo (condannato a dieci anni e quattro mesi) e Luigi Schingaro (nove anni e quattro mesi). E non è finita: nei prossimi mesi altri pregiudicati, condannati con sentenze superiori ai dieci anni, potranno riacquistare la libertà. Per scongiurare questo pericolo, il giudice dovrebbe depositare le motivazione e la Corte d'appello procedere con la fissazione del processo di secondo grado e con la sospensione dei termini di custodia cautelare. Una corsa contro il tempo, con ogni probabilità, destinata a fallire.

"Si tratta di fatti che destano comprensibile allarme nell'opinione pubblica, ma va precisato che per sentenze con 160 imputati, imputazioni complesse, fatti articolati, sarebbe necessario che il magistrato chiamato a decidere il processo in sede di abbreviato potesse quantomeno fruire di un esonero totale dall'attività ordinaria", spiega Salvatore Casciaro, responsabile della giunta barese dell'Anm secondo il quale "a un magistrato si può chiedere la massima diligenza, ma non una impossibile obbligazione di risultato al di là delle umane possibilità". A spiegare il perché del ritardo delle motivazioni è anche Giovanni Leonardi, a capo dell'ufficio Gip: "Si tratta - dice - di un processo molto articolato che contava 161 imputati".

I 22 presunti affiliati al clan degli Strsciuglio che lasceranno il carcere o i domiciliari, comunque, saranno sottoposti a misure di sorveglianza, come l'obbligo di firma. Ed è il prefetto di Bari, Carlo Schilardi, a rassicurare: "La situazione sarà sotto controllo. I cittadini non devono avere alcuna paura".

(15 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Aprile 15, 2009, 09:08:22 am »

Rischio infiltrazioni nella ricostruzione. Maroni: vigileremo

Documenti emersi dalle macerie della Casa dello studente e della Prefettura

La procura lancia l'allarme mafia "Qui arriverà un fiume di soldi"


nostro inviato MEO PONTE

 L'AQUILA - I documenti sono emersi dalle stesse macerie da cui vigili del fuoco hanno strappato i corpi martoriati di più di 20 studenti. Progetti di ristrutturazione e revisione presentati nel 2003, poi nel 2004 e infine nel 2005. E mai realizzati. Quelle carte sgualcite ritrovate dai pompieri tra le rovine della Casa dello Studente e consegnate alla Squadra Mobile potrebbero rappresentare il primo indizio per la Procura della Repubblica de l'Aquila.

Ieri gli investigatori hanno sequestrato altri reperti anche tra quanto resta della Prefettura e di alcune case in via XX Settembre e via Gualtieri d'Ocre, il cui crollo ha causato diverse vittime. Alfredo Rossini, il capo della Procura della Repubblica dell'Aquila, ha infatti un piano preciso per quella che definisce "la madre di tutte le inchieste". E per individuare i primi responsabili la Procura ha chiesto l'acquisizione degli atti della commissione parlamentare istituita a suo tempo per comprendere come l'ospedale progettato nel 1960 fu realizzato soltanto nel 2000 e messo in funzione senza l'obbligatorio collaudo. In più Rossini non nasconde la sua preoccupazione per quello che sarà il dopo-terremoto. "Qui arriverà un fiume di soldi per la ricostruzione. Molto appetibile per mafia e camorra. È scontato ipotizzare che le organizzazioni criminali che non sono estranee all'Abruzzo cercheranno di infiltrarsi. Ne ho parlato con il procuratore nazionale dell'Antimafia Piero Grasso che mi ha espresso le sue preoccupazioni al riguardo. E se per ora non abbiamo ancora scoperto tracce mafiose evidenti è perché la ricostruzione è ancora da iniziare".

Da parte sua Grasso aggiunge: "L'Abruzzo non è tradizionale terra di mafia. Le eventuali infiltrazioni camorristiche o più in generale mafiose, dovrebbero risultare più visibili". Interviene anche il ministro dell'Interno Roberto Maroni: "Assicuro che vigileremo perché la criminalità organizzata se ne stia lontana. Trovo giusto l'allarme lanciato dal procuratore Grasso e dallo scrittore Roberto Saviano circa la nascita del cosiddetto "partito del terremoto", che va sicuramente evitata".

Ma del fatto che nella regione ci sia una presenza discreta di mafia e camorra Rossini è consapevole. È stato lui a coordinare l'inchiesta che alcuni mesi fa a Tagliacozzo ha scoperto che al vertice di una piramide di società immobiliari facenti capo alla Sirco srl che gestiva un residence extralusso e un gigantesco campeggio c'era il figlio di Ciancimino. A Vasto la polizia ha portato alla luce un giro di estorsioni orchestrate dalla camorra napoletana. Nella Marsica i carabinieri del Reparto Operativo hanno rilevato la presenza di elementi dei clan campani, tra cui alcuni esuli da Scampia.

(15 aprile 2009)
da corriere.it
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« Risposta #51 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:04:29 pm »

Rivelazioni - Gli attentati di Palermo, Milano e Roma

Il pentito e le stragi

La nuova verità che agita l'antimafia

Via D'Amelio, conferme su un ex boss
 

ROMA — Dopo quella del pentito Gaspare Spatuzza, arriva un'altra «voce di mafia» a mettere in dubbio la verità giudiziaria sulla strage di via D'Amelio. L'attentato in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta — 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l'eliminazione di Giovanni Falcone, la moglie Francesca e tre degli uomini che dovevano proteggerlo — fu realizzato con una Fiat 126 imbottita di esplosivo; un'auto rubata, secondo le sue ammissioni d'allora e i processi costruiti anche su quelle parole, da un «balordo» palermitano, tale Salvatore Candura, pregiudicato per reati contro il patrimonio, arrestato dalla polizia nel settembre '92 per una violenza carnale.

In carcere Candura confessò quasi subito il furto dell'auto destinata a far saltare in aria Borsellino, e disse che a dargli l'incarico era stato Vincenzo Scarantino. Il quale fu arrestato, si pentì, e raccontò molti particolari sulla strage di Via D'Amelio: parlò di una riunione di boss a casa del mafioso Calascibetta e tirò in ballo gran parte della «cupola» di Cosa Nostra, compreso il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù Pietro Aglieri e altri «uomini d'onore». Le confessioni andarono avanti a sprazzi: confermate, poi ritirate, quindi ribadite, ma ritenute attendibili dai giudici fino alle sentenze di Cassazione. Oggi però Candura, che a Scarantino faceva da «spalla», si rimangia tutto e dice: il furto della 126 non l'ho commesso io, fu la polizia a farmelo confessare, ma con quella storia non c'entro. L'ha detto durante il confronto con Gaspare Spatuzza, già capo del mandamento mafioso di Brancaccio a Palermo, pluriergastolano legatissimo ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, uno dei killer che nel 1993 uccisero padre Pino Puglisi.

Da alcuni mesi Spatuzza, arrestato nel 1997, collabora coi magistrati e ha rivelato una nuova verità su Via D'Amelio. Smentendo proprio Scarantino. Ha detto di aver rubato lui l'autobomba nel luglio del '92 (la stessa per la quale s'erano accusati Candura e Scarantino), portando gli investigatori sul luogo esatto in cui era parcheggiata. E ha spiegato che con la strage i boss di Santa Maria di Gesù — Aglieri e altri — non c'entrano: fu opera dei Graviano e dei mafiosi di Brancaccio; lui compreso, sempre scampato a inchieste e processi. Messi faccia a faccia con il nuovo «dichiarante», Candura ha ritrattato e gli ha dato ragione, mentre Scarantino ha insistito sulla sua versione. Ma magistrati e investigatori sembrano orientati a dare credito più al nuovo pentito che al vecchio, anche se i suoi verbali possono creare non pochi problemi. Perché le rivelazioni di Spatuzza aprono vistose crepe sulla ricostruzione giudiziaria, sancita dalla Cassazione, dell'omicidio Borsellino e non solo. Mettendo in crisi il lavoro svolto negli anni passati dalla Procura e dalle corti d'assise di Caltanissetta, e offrendo la possibilità di far riaprire il processo, ad esempio, per il boss Pietro Aglieri, ergastolano per Via D'Amelio (eccidio dal quale era stato scagionato, inutilmente, pure dal pentito Giovanni Brusca) oltre che per altri delitti. La valutazione dell'attendibilità di Spatuzza non è stata completata dai magistrati di Caltanissetta, mentre quelli di Palermo lo considerano affidabile ma non decisivo per il contributo fornito alle indagini su altri fatti di mafia per cui sono competenti.

Il neo-collaboratore — sempre rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, in isolamento ma non più ai rigori del «41 bis» — dovrà passare il vaglio anche di altre Procure, perché le sue rivelazioni riguardano diversi episodi. A cominciare dalle stragi organizzate da Cosa Nostra nel 1993 sul continente fra Firenze, Roma e Milano, per le quali sta scontando il carcere a vita. Per l'autobomba esplosa in via Palestro a Milano (27 luglio 1993, cinque morti e 12 feriti) ci sarebbe un condannato che a dire di Spatuzza è innocente, mentre altri coinvolti nell'attentato non sarebbero nemmeno stati inquisiti. Quell'azione doveva avvenire in contemporanea con le bombe di Roma (San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, 22 feriti), ma Spatuzza racconta che l'obiettivo di Cosa Nostra doveva essere un altro: la Casa di Dante, nel rione Trastevere. Ma il piano saltò, a causa della popolare festa de' noantri in corso nei giorni programmati per l'attentato; c'era il rischio di provocare vittime, mentre l'obiettivo erano i monumenti e i luoghi d'arte, non le persone. Per coordinare le diverse indagini in corso o da riaprire sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha convocato per oggi nei suoi uffici una riunione con i rappresentanti di tutte le Procure interessate: Caltanissetta, Palermo, Milano, Roma, Firenze e Reggio Calabria; tra le tante cose raccontate dal neo-pentito, infatti, ci sono pure i commenti dei fratelli Graviano sull'omicidio di due carabinieri avvenuto lungo la Salerno-Reggio, nei pressi di Scilla, nel gennaio 1994. Sarà l'occasione per mettere a confronto le diverse interpretazioni sulla collaborazione del killer di Cosa Nostra che ha deciso di parlare, e di smentire altri pentiti, dopo aver scontato più di undici anni di galera.

Giovanni Bianconi

22 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #52 inserito:: Aprile 23, 2009, 10:42:19 am »

La pm di Milano nel '94, lasciando Caltanissetta, chiese nuovi accertamenti su via D'Amelio

Stragi mafiose, ritorna la Boccassini

Il vertice sulle verità del pentito Spatuzza. «Va protetto, è attendibile»


ROMA — A rompere gli indugi è stata la Procura di Firenze. Per l'ufficio giudiziario titolare delle inchieste sulle stragi e i progetti dinamitardi della mafia sul continente l'ex boss di Cosa Nostra Gaspare Spatuzza, «dichiarante» già da qualche mese, è un collaboratore di giustizia attendibile e utile alle indagini. Dunque proporrà per lui il programma di protezione, riservato ai pentiti considerati affidabili. La decisione è stata comunicata ieri nella riunione svoltasi nella sede della Direzione nazionale antimafia tra gli inquirenti interessati dalle nuove rivelazioni (quelli di Palermo, Caltanissetta, Milano, Roma e Reggio Calabria, oltre che di Firenze), per confrontare i diversi giudizi su quello che sta raccontando l'ex capo del mandamento mafioso palermitano di Brancaccio, già killer di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Le novità più dirompenti introdotte da Spatuzza riguardano la strage di via D'Amelio del 19 luglio '92, in cui morirono il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta: Spatuzza smentisce le dichiarazioni di un altro pentito, Vincenzo Scarantino, sulle quali si sono fondate diverse condanne all'ergastolo, tra cui quella del capomafia Pietro Aglieri. Per questo c'era chi, soprattutto tra Palermo e Caltanissetta, era più cauto nell'attribuire la patente di attendibilità al nuovo collaboratore, ma ora sono arrivati i riscontri e le valutazioni di altri magistrati. Fra questi il sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, presente alla riunione di ieri per via di uno stralcio d'indagine sull'attentato di via Palestro del 27 luglio '93, 5 morti e 12 feriti. Quello della Boccassini è un ritorno alle indagini sulle stragi di mafia, poiché tra il '92 e il '94 fu applicata alla Procura di Caltanissetta per fare luce sugli eccidi di Capaci (dove morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre agenti di scorta) e via D'Amelio. Con la prima inchiesta giunse all'individuazione degli esecutori materiali e dei mandanti mafiosi, mentre la seconda dovette abbandonarla al termine del periodo di applicazione nell'ufficio nisseno. Ma prima di andarsene, il pubblico ministero sbarcato da Milano lasciò una relazione che riletta oggi suona quasi profetica rispetto a ciò che sta emergendo dalle rivelazioni di Spatuzza.

Nell'ottobre 1994 la Boccassini, insieme all'altro pm Roberto Saieva, lasciò scritto ai colleghi che il pentito Scarantino era sostanzialmente inattendibile, e che bisognava svolgere ulteriori e urgenti accertamenti per metterlo alle strette e smascherare le sue eventuali manovre intorno alla strage di via D'Amelio; lo stesso Scarantino oggi contraddetto da Spatuzza. La relazione ripercorre le accuse mosse dal pentito nei confronti di alcuni mafiosi poi divenuti a loro volta collaboratori, non verificate oppure risultate false dopo i riscontri, e conclude: «L'inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino (su quei singoli mafiosi, ndr) suggerisce di riconsiderare il tema dell'attendibilità generale di tale collaboratore, anche perché lo stesso ha, recentemente modificato la propria posizione in ordine ad una circostanza che assume estremo rilievo». È la vicenda del furto della Fiat 126, successivamente imbottita di esplosivo, di cui oggi si autoaccusa proprio Spatuzza. Boccassini e Saieva consigliavano nuove verifiche su quel pentito traballante, e scrivevano: «Rinviare il compimento dei necessari atti d'investigazione potrebbe avere come effetto di lasciare allo Scarantino una via aperta verso nuove piroettanti rivisitazioni dei fatti». È ciò che s'è puntualmente verificato, tra ritrattazioni e conferme, anche se alla fine le sentenze hanno dato credito alle dichiarazioni di Scarantino. Oggi un nuovo pentito lo smentisce, e potrebbe aprire scenari diversi non solo sulla strage che fece saltare in aria Borsellino ma anche su altri importanti fatti di mafia.

Giovanni Bianconi

23 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #53 inserito:: Aprile 29, 2009, 12:16:11 am »

Il procuratore di Napoli Lepore: tre politici su 10 collusi con la camorra
 
 
 
 NAPOLI (28 aprile) - Il 30 per cento circa della politica è colluso con la criminalità organizzata. Lo ha detto in una intervista a Radiorai il procuratore di Napoli, Giandomenico Lepore, a margine di una aadizione in Commissione parlamentare antimafia, che è riunita a Napoli. A una domanda sulla percentuale dei politici campani che potrebbero essere collusi con la camorra il procuratore ha risposto: «Non mi faccia dare cifre, ma secondo me un 30 per cento».

Lepore ha anche commentato le dimissioni del sindaco di Castel Volturno, Francesco Nuzzo che ha lamentato di essere stato lasciato solo contro la camorra. «Non è ancora venuto da noi - ha detto il procuratore - ma avrà i suoi buoni motivi». Per Lepore, nel Napoletano «la lotta contro la criminalità organizzata continua efficacemente ma bisogna combattere - ha aggiunto - la politica collusa e farlo con la collaborazione di tutti quanti».
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #54 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:13:44 am »

28.4.09 - L’ordine siciliano dei giornalisti contro l’informazione antimafia?

Normalmente ci mettiamo a scrivere per dare qualche notizia o per provare a proporre uno stimolo alla riflessione, questa volta, invece, ci auguriamo ardentemente di essere smentiti, anzi supplichiamo di essere smentiti con prontezza e magari anche con la giusta dose di sdegno.

Qualche tempo fa vi raccontammo la storia di Pino Maniaci il coraggioso giornalista che dai microfoni di Telejato denunciava e denuncia ogni giorno i misfatti dei mafiosi e dei loro amici.

Per questa ragioni Pino vive sotto scorta, dopo aver ricevuto avvertimenti di ogni sorta, anche sotto forma di attentati e di un pestaggio in pieno giorno consumato sotto gli occhi di decine di testimoni. Attorno a Pino, in quella occasione, si strinse una positiva solidarietà nazionale. La Federazione della stampa, l’unione cronisti, le associazioni regionali, articolo 21 e tanti altri si recarono a Partinico per abbracciare Pino, i suoi familiari, i suoi collaboratori, per non lasciarli soli, per non esporli a rischi peggiori. Davanti alle telecamere internazionali e nazionali gli furono consegnate le tessere onorarie della professione giornalistica.

Qualche settimana fa la magistratura palermitana, sulla base di una denuncia per ora senza firma, aprì un procedimento contro Pino per esercizio abusivo della professione, in quanto non aveva e non ha in tasca il tesserino professionale, anche perché, come era già noto a tutti, Maniaci aveva riportato delle lievi condanne in gioventù per reati non connessi alla professione, anche in questa ultima occasione, tuttavia, non erano mancati gli attestati stima per il coraggio civile, professionale e umano che ha sempre caratterizzato l’attività professionale di Telejato.

Per stemperare il clima e per non prestare il fianco a polemiche tese a oscurare il merito delle sue denunce, Pino aveva annunciato la sua disponibilità a richiedere formalmente il benedetto tesserino e porre fine ad una lunga telenovela.

A questo punto, stando alle indiscrezioni odierne, si sarebbe consumato un nuovo colpo di scena. L’ordine siciliano dei giornalisti, con l'astensione del presidente, avrebbe deciso di negare il riconoscimento e di costituirsi, addirittura, parte civile nel procedimento a carico di Maniaci. Ci auguriamo di essere smentiti, anche perché stiamo parlando della medesima persona verso la quale sono state espresse da tutti gli organismi professionali quintali di attestati di stima.

Comprendiamo il rispetto della lettera delle norme, ma come cancellare gli anni trascorsi, come dimenticare le battaglie civili di Pino e dei i collaboratori a cominciare da Riccardo Orioles, coraggioso e indomita giornalista anti mafia, storico collaboratore di Pippo Fava.

Come sottovalutare il rischio che questo gesto possa essere interpretato come un atto di sfiducia verso chi non ha mai piegato la testa di fronte alle prepotenze? Come dimenticare che dentro la professione restano invece giornalisti che nascondono, omettono, si prestano persino a diventare postini delle lettere spedite dal carcere dai mafiosi e che spesso trovano compiacente ospitalità sulle pagine di alcuni giornali siciliani.

Lo ripetiamo, la polemica ci interessa davvero poco, invochiamo solo una smentita o almeno l’apertura di una pubblica discussione che coinvolga tutto il mondo dell'informazione e impedisca l’isolamento di Telejato.

Per quanto ci riguarda questo blog e il sito di articolo 21 saranno sempre a disposizione di Pino, dei suoi collaboratori, con o senza il tesserino professionale.

Giuseppe Giulietti

(28 aprile 2009)
da repubblica.it/micromega-online
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« Risposta #55 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:44:03 pm »

Cesare Piccitto,   

29 aprile 2009, 12:25

 Il caso/3     

Apprendiamo che la sezione siciliana dell'Ordine dei giornalisti ha deciso di costituirsi parte civile contro il direttore di Telejato nel procedimento contro di lui per esercizio abusivo della professione di giornalista. Vogliamo pensare che si tratti solo di un "tecnicismo burocratico"; una persona che rende onore alla professione giornalistica non può ritrovarsi, alla vigilia del procedimento che lo vede imputato, a combattere contro chi, solo qualche mese prima, gli ha riconosciuto la tessera "ad honorem"

Era l'anno scorso quando comparve nel sito di "Telejato" , la tv che Pino dirige, la scritta "Siamo tutti Pino Maniaci". Fu inserita la dicitura dopo che fu aggredito in pieno giorno da due soggetti uno dei quali era proprio il figlio (ancora minorenne) del boss Vito Vitale.
Ogni volta ci viene in mente la stessa frase, anche quando alla fine di marzo si apprese la notizia del suo rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista.

Secondo la procura di Palermo "con più condotte poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso" Maniaci avrebbe svolto l'attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato e ha fissato il processo davanti al giudice monocratico di Partinico l'8 maggio prossimo.
E pensare che l'"indagato"  è stato minacciato di morte dalla mafia e querelato, quasi 200 volte, per le sue inchieste scomode sulle cosche e sull'inquinamento della distilleria Bertolino, una delle più grandi d'Europa.

Maniaci imperterrito continua a condurre il tg di TeleJato, un'emittente locale che copre un territorio di 20 comuni in provincia di Palermo con un bacino di circa 150 mila telespettatori. Da anni porta avanti coraggiose crociate contro le cosche mafiose della zona facendo nel suo telegiornale nomi e cognomi di boss. L'opinione pubblica, sempre di più, gli esprime solidarietà e i vertici dell'Ordine regionale e nazionale che insieme all'Unci (Unione nazionale cronisti italiani) e al Fnsi, gli riconoscono una tessera "ad honorem". "Questo vorrà pur dire qualcosa" dice Maniaci, il quale spiega come non sia la prima volta che viene colpito da un provvedimento simile: "E' la seconda volta che mi trovo sotto processo per esercizio abusivo della professione - aggiunge - A luglio sono stato assolto dalla stessa accusa, chiarirò tutto anche questa volta".

Nonostante questi fatti oggi apprendiamo che la sezione siciliana dell'Ordine dei giornalisti ha deciso di costituirsi Parte Civile contro il direttore di Telejato, Pino Maniaci, nel procedimento contro di lui per esercizio abusivo della professione di giornalista.

E dunque? L'affare si complica. Sono passate poche ore dalla notizia e cercheremo di capirne di più. Vogliamo pensare che Pino sia stato vittima di un "tecnicismo burocratico", vogliamo ben sperare che sia solo e solamente così; una persona che rende onore alla professione giornalistica non può ritrovarsi, alla vigilia del processo che lo vede imputato, con contro chi qualche mese prima, gli ha riconosciuto la tessera "ad honorem".

Esprimiamo solidarietà a Pino e al suo giornalismo di frontiera, di notizie, secco, sfrontato, spesso ironico... Giornalismo di nomi e cognomi senza piegare la schiena.
Lo stesso giornalismo di Impastato e Alfano, a cui l'Ordine riconobbe il tesserino solo dopo la morte.

Quel giornalismo che era anche di Giuseppe Fava, lì però il tesserino c'era, allo zelante ordine però sfuggi di esprimere solidarietà alla famiglia e di andare a quel funerale.

da aprileonline.info
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« Risposta #56 inserito:: Maggio 14, 2009, 11:59:27 am »

Il procuratore capo di Torino rievoca in un volume autobiografico le sue «due guerre»

Antimafia, la vittoria mancata

Il bilancio di Gian Carlo Caselli: le Br erano isolate, Cosa nostra no

A Gian Carlo Caselli piace il calcio. Tanto che all'epoca del terrorismo i suoi figli Paolo e Stefano dicevano che con lui i rischi maggiori si correvano alle partite del Toro, per via delle sue «intemperanze di tifoso granata». Ma è tremendamente amara la metafora calcistica che il procuratore capo di Torino adotta per spiegare il comportamento delle istituzioni nella lotta alla mafia. Lo Stato, scrive Caselli, «si è fermato a undici metri dalla fine, come se dovesse tirare un calcio di rigore, al novantesimo. Ma invece di tirare, è rientrato negli spogliatoi».

Qui sta la differenza tra Le due guerre che danno il titolo al nuovo saggio del magistrato, edito da Melampo e in uscita il 28 maggio (pagine 157, 15), che verrà presentato in anteprima domani alla Fiera del libro di Torino (ore 15.30, Spazio Ibs). Nel primo dei due conflitti, contro il terrorismo, si è andati fino in fondo, perché il nemico era sostanzialmente isolato, disponeva di agganci molto deboli nel contesto sociale. Contro la mafia, nella seconda e più difficile guerra, i successi ottenuti contro i killer e i boss non sono bastati, perché Cosa nostra gode di collusioni diffuse, negli ambienti politici come in «quote consistenti della borghesia ricca e colta». E quando si tocca quell'intreccio perverso, la solidarietà verso l'azione degli inquirenti si attenua, mentre crescono i distinguo, le critiche, i veleni. Caselli parla per doppia esperienza diretta. Fu da subito in prima fila contro le Brigate rosse, quando certi terroristi catturati preferivano farsi interrogare da lui in quanto esponente della corrente di sinistra delle toghe, Magistratura democratica, per poi rimanere miseramente delusi di fronte alla sua proverbiale fermezza piemontese.

Più tardi, nel gennaio 1993, assunse la guida della procura di Palermo, con il compito di affrontare una mafia apparentemente invincibile, che pochi mesi prima aveva eliminato, in rapida successione, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel racconto le due vicende corrono parallele, con affinità e divergenze. Si parla della vita blindata di un magistrato nel mirino. E già qui spicca il divario tra le pur rilevanti misure di sicurezza prese per sventare un eventuale agguato delle Br e l'ossessiva sorveglianza cui Caselli venne sottoposto a Palermo, una città «non vissuta, solo intravista», nei rapidi spostamenti tra luoghi fortificati. Un altro tema scottante è l'utilizzo dei pentiti, sempre indispensabile secondo Caselli, ma assai più arduo quando gli interlocutori non sono fanatici militanti delusi, ma delinquenti incalliti e perfidi, capaci di qualsiasi inganno. Il vero abisso però si riscontra nell'atteggiamento degli osservatori e del potere politico.

Non mancarono polemiche nella lotta al terrorismo: l'autore per esempio resta favorevole alla linea della fermezza adottata durante il sequestro Moro. Ma ben diverso è il tenore dell'ondata di attacchi subita da Caselli e dai magistrati della sua procura quando cominciarono ad accusare di complicità con la mafia eminentissimi personaggi della classe dirigente. Il libro è anche una sistematica autodifesa per il lavoro svolto a Palermo fino al 1999, con le pesanti condanne inflitte a centinaia d'imputati, l'immensa mole di beni e i munitissimi arsenali sequestrati. E naturalmente Caselli insiste sul fatto che il senatore Giulio Andreotti, da lui portato alla sbarra, non si può considerare innocente, visto che è stato assolto per i fatti successivi al 1980, ma per le vicende precedenti ha fruito della prescrizione per il tempo trascorso dal momento del reato. Inoltre Caselli insiste sulla coerenza, non da tutti riconosciuta, tra la sua opera e quella svolta prima di lui da Falcone e Borsellino, anch'essi bersaglio di aspre critiche, mentre tiene a marcare le distanze dal proprio successore Pietro Grasso, oggi procuratore nazionale antimafia, cui rimprovera un atteggiamento di «ostile insofferenza» nei suoi riguardi.

Come scrive Marco Travaglio nella postfazione, il libro «è la storia di una sconfitta», poiché l'ambizione di recidere i legami tra mafia e politica non si è realizzata. Ma non bisogna disperare. Sia perché, nota Caselli, la battaglia contro l'ala militare di Cosa nostra produce tuttora «risultati di una continuità che non ha assolutamente precedenti». Sia perché la società civile trasmette forti segnali di rigetto della mafia, grazie ad associazioni come «Libera» di don Luigi Ciotti e alla nuova consapevolezza che le categorie economiche mostrano nel contrastare il racket. Insomma, la partita non è chiusa e forse ci sarà di nuovo la possibilità di battere quel fatidico rigore.

Antonio Carioti
14 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 20, 2009, 06:22:57 pm »

Caso Mills, ecco in che stato è l'informazione

di Giovanni Maria Bellu


C’è un modo molto semplice per verificare lo stato dell’informazione, e dunque della democrazia, nel nostro paese: ascoltare con attenzione i telegiornali e leggere i giornali di oggi e di domani. Vedere quanto tempo e quanto spazio viene dato alla sentenza del processo Mills. E anche «come» la notizie viene riferita.

Si scoprirà che nei telegiornali – sia pubblici, sia privati – verrà presentata non come un «fatto» ma come un’«opinione». L’opinione di un collegio giudicante. E che la sommaria descrizione del merito della vicenda sarà seguita dai commenti politici. L’ultimo dei quali – a chiusura di questo giro di opinioni attorno all’opinione-sentenza – sarà affidato a un esponente del Pdl o a uno degli avvocati di Berlusconi (ma spesso le due qualità sono riassunte in un singolo soggetto).

L’intervistato non entrerà nel merito del caso giudiziario ma dirà che si è trattato di «giustizia a orologeria». Il concetto sarà ripetuto in modo martellante dai telegiornali e, con un po’ di fortuna, sarà possibile – in una conversazione al bar, su un autobus – sentire qualcuno che, senza sapere nulla della vicenda, lo ripeterà in modo testuale: «Giustizia a orologeria».

Più complesso il discorso sui quotidiani. Parliamo, naturalmente, dei normali quotidiani di informazione e non di quelli che, per vie politiche o familiari, sono direttamente controllati dal premier. Là si potrà leggere una sintesi abbastanza completa del fatto che, in qualche raro caso, sarà anche accompagnata da un commento. Non di più e, difficilmente, per più di un numero.

E se qualcuno – su un giornale non allineato come per esempio l’Unità – oserà insistere sul tema, sarà liquidato come «giustizialista». Nel caso in cui l’inopportuna insistenza fosse espressa in una trasmissione televisiva, saranno inquadrati gli ospiti politicamente vicini al premier che, in quello stesso istante, cominceranno a sorridere con gli occhi rivolti verso l’alto e a scuotere la testa.

E’ possibile fare la verifica sullo stato dell’informazione del paese anche seguendo un’altra via. E cioè osservando con attenzione in che modo televisioni e giornali danno la notizia di altre sentenze. Sarà facile scoprire che un imputato per omicidio condannato in primo grado (e dunque ancora presunto innocente) sarà indicato come l’«assassino». E che un extracomunitario, subito dopo l’arresto e dunque in assenza non solo di processo ma anche di rinvio a giudizio, sarà qualificato «stupratore». Nel caso in cui facciate notare l’incongruenza in uno studio televisivo, vi osserveranno con aria perplessa, cominceranno a scuotere la testa, e qualcuno ci definirà «buonista». Non avrete il tempo di dire: «Ma non ero giustizialista?». Si spegnerà la luce.

17 febbraio 2009
da unita.it
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 22, 2009, 12:15:36 pm »

Brusca: «Lo Stato trattò con Riina fra gli attentati a Falcone e Borsellino»

Il collaboratore di giustizia: il boss consegnò un "papello" con le richieste.

Un pentito: sul 41 bis si cercò l'aiuto della Chiesa

 
   
 ROMA (21 maggio) - «Riina mi disse il nome dell'uomo delle istituzioni con il quale venne avviata, attraverso uomini delle forze dell'ordine, la trattativa con Cosa nostra». Lo dice per la prima volta in aula il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, deponendo nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia. I giudici del processo, che si svolge davanti ai giudici del tribunale di Palermo, sono oggi in trasferta nell'aula bunker di Rebibbia a Roma per sentire alcuni pentiti.

Rapporti con persone dello Stato. Brusca racconta che tra la strage di Falcone e quella di Borsellino «persone dello Stato o delle istituzioni» si erano «fatti sotto» con Riina, il quale aveva loro consegnato un «papello» di richieste per mettere fine agli attentati. Per la prima volta in un pubblico dibattimento, Brusca afferma di aver saputo da Riina il nome della persona a cui era rivolta la trattativa. Ma, quando il pm Nino Di Matteo gli chiede di farlo davanti ai giudici quel nome, Brusca si ferma e dice: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, perché su questa vicenda vi sono indagini in corso e non posso rivelare nulla». Il riferimento è all'inchiesta che viene condotta dalla procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, che da mesi ha avviato nuove indagini sulle stragi del '92.

Spunta fuori la Lega. E Brusca fa riferimento anche alla Lega: «Tra l'omicidio di Salvo Lima e quello del dottor Falcone alcuni politici si proposero a Riina per prendere il posto che era stato dell'europarlamentare ucciso. Ma Riina non era soddisfatto, voleva di più. E qualcuno tentò di proporgli anche un contatto con la Lega di Bossi.
Ma non so cosa ne fece, perché nel frattempo Riina aveva trovato il canale giusto ed era soddisfattissimo».

Strage di Capaci non doveva fare così clamore. Brusca rivela anche che «la strage di Capaci, così come è stata fatta, Provenzano non la voleva, perché lui preferiva che Falcone venisse ucciso a Roma o in altri luoghi, senza fare troppo clamore.A Provenzano non piaceva la spettacolarizzazione degli omicidi, ma condivideva con Riina l'uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino». Il boss, infatti, dopo l'arresto di Riina, impedì a Bagarella, Messina Denaro, Graviano e allo stesso Brusca di proseguire gli attentati in Sicilia.

Rapporti con la Chiesa. Dal pentito Ciro Vara invece rivelazioni sui rapporti con la Chiesa. «Dopo le stragi del '92 e del '93 Provenzano per alleggerire la pressione dello Stato su Cosa nostra, in particolare per i detenuti sottoposti al 41 bis, aveva cercato una strada attraverso la Chiesa». Lo ha rivelato oggi il pentito Ciro Vara dicendo di aver appreso questa strategia di Provenzano nel novembre 1993 da un mafioso di Caltanissetta, Mimmo Vaccaro, che all'epoca era latitante. «Nel 1993 soffrivamo la pressione dello Stato, i detenuti in particolare, e per questo motivo - dice Vara - incontrando Vaccaro dopo che per una settimana era stato insieme a Provenzano, gli chiesi cosa stava facendo per aiutarci. E Vaccaro mi rispose che stava tentando la strada attraverso la Chiesa, in modo da ammorbidire la repressione della magistratura e alleggerire il 41 bis». Vara ha inoltre rivelato per la prima volta in aula che il boss catanese Pietro Balsamo, negli anni Novanta, riusciva a conoscere in anticipo le mosse delle forze dell'ordine a Catania. «Balsamo - dice Vara - aveva notizie sempre di prima mano su arresti che doveva effettuare la Dda di Catania». 
 
da ilmessaggero.it
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:22:33 am »

ultimo aggiornamento: 23 maggio, ore 14:44

Palermo, 23 mag. - (Adnkronos) -


Un no netto, quello espresso dal procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso, alla proposta avanzata dalla Lega dell'elezione diretta dai magistrati.

"Ho visto le esperienze di altri Paesi -ha detto il preocuratore al termine del dibattito con gli studenti nell'aula bunker di Palermo- per esempio, negli Stati Uniti c'e' la possibilita' di eleggere le magistrature minori. Per essere eletti si schierano o con i conservatori o con i repubblicani. Se vogliamo far entrare anche di piu' la politica nella magistratura -ha evidenziato- e' una soluzione, ma io sono assolutamente contrario''. ''La magistratura -ha ribadito Grasso- deve essere considerata un valore per i cittadini. Non vorrei esprimere io un parere ma vorrei che fossero i cittadini ad esprimere un parere sulla magistratura e sul suo operato, se vogliono contare su questa parte dello Stato che tanti successi miete ogni giorno".

Rispetto ai continui attacchi della politica alla magistratura, Grasso sottolinea che "c'è sempre insofferenza per chi controlla, per chi vuole la legalita'". "C'e' sempre insofferenza perche' ognuno vorrebbe essere libero completamente. Ma -ha sottolineato- in una democrazia le liberta' si devono compensare. Non esiste una liberta' non limitata da un contrappeso. Se un potere raggiunge la supramazia su un altro, allora non siamo piu' in democrazia".

Rispondendo infine a una domanda di uno studente su possibili infiltrazioni mafiose nella ricostruzione in Abruzzo, il procuratore nazionale antimafia ha concluso: "Dobbiamo evitare che i fondi destinati alla ricostruzione in Abruzzo finiscano per rimpinguare le casse della mafia e degli speculatori. Dove c'e' odore di soldi - ha aggiunto - la mafia si presenta. Dobbiamo vigilare - ha concluso - perche' il popolo abruzzese abbia il risarcimento che si merita".

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