EDITORIALI
13/04/2013
Il buon senso contro i remake
CESARE MARTINETTI
Il triste volantino che rivendica alla Federazione anarchica informale (Fai) l’ordigno arrivato martedì alla redazione de La Stampa è stato recapitato ieri al Secolo XIX. Quasi alla stessa ora un cubetto di porfido scagliato da un gruppetto di incappucciati ha frantumato il lunotto di una delle nostre auto di servizio colpendo l’autista e sfiorando cronista e fotografo in servizio ad una manifestazione anarchica. Fortunatamente la «bomba» non è esplosa martedì, fortunatamente il nostro collega è ferito in modo non grave.
Bomba, volantino, porfido sono evidentemente tre momenti di uno stesso fenomeno che trova nella scelta di Genova il luogo simbolico e insieme programmatico dell’inizio di quella che si sarebbe detta una volta la «campagna» contro l’informazione.
È nella città ligure che un anno fa due incappucciati dello stesso Fai hanno sparato alle gambe dell’Ad di Ansaldo Roberto Adinolfi colpendolo secondo una liturgia terroristica che speravamo esaurita nei lontani anni di piombo. Allora l’azione venne rivendicata con un documento articolato che legava l’attività degli anarchici italiani ad una rete internazionale, faceva riferimento ai militanti incarcerati in Grecia, mescolava termini e motivazioni vetuste e stereotipate a parole d’ordine attuali e sinistre elucubrazioni sul piacere del distribuire pallottole e dolore ai nemici di «classe».
Il volantino di ieri è più rozzo e sbrigativo (i giornalisti vengono definiti «pennivendoli» e ci si poteva aspettare di più da questi postmoderni epigoni di coloro che diedero l’assalto al cuore dello Stato) ma quel che conta è la sostanza e la novità. Giornali, giornalisti, organi di informazione, media vari sono nel mirino di uno squadrismo movimentista che dura ormai da molti mesi a Torino e dintorni. Il documento recapitato ieri al Secolo XIX traduce questa pressione indistinta in minaccia esplicita contro i giornalisti che si sono occupati e si occuperanno degli anarchici. Per loro si fa baluginare un destino alla Adinolfi: colpi di pistola alle gambe.
Nella rivoluzione a bassa intensità - fortunatamente, per ora - in corso nella società italiana, dove i disastri della crisi economica stanno provocando sofferenze sociali sempre più pesanti e diffuse, giornali e giornalisti sono rimasti vittime quasi della stessa delegittimazione che ha colpito una classe politica paralizzata dalla propria inettitudine. In parte a ragione, in parte a torto. Ma attenzione: il vento di qualunquismo che soffia sull’Europa e sull’Italia (e del quale il massiccio voto a Grillo è, in parte, una delle ragioni più evidenti) non può interdire completamente l’esercizio della ragione. E come non vedere, per esempio, che la rivelazione e la denuncia dell’odiata «Casta» è stata compiuta da due giornalisti del più borghese dei giornali italiani, il Corriere della Sera. E che da tempo tutto il resto della stampa e della tv - per convinzione e per legittime ragioni editoriali - hanno fatto della denuncia dei ritardi e delle ingiustizie del sistema l’argomento principale del lavoro quotidiano? Su La Stampa di ieri - solo per citare l’ultimo in ordine di tempo - il nostro Luca Ricolfi denunciava nell’editoriale lo scandalo di un sistema politico che quaranta giorni dopo le elezioni non ha ancora saputo dare un governo all’Italia. Prigionieri di formule nominalistiche e di egoismi partigiani i nostri politici non sanno vedere l’abisso di bisogno sociale che ormai li separa dai cittadini.
È evidente che i tristi estensori del volantino del Fai se ne faranno un baffo di questi argomenti. Ma il passato deve servire da lezione. Negli Anni Settanta e Ottanta (quelli che chiamiamo «di piombo») la partita fu vinta sul piano politico e culturale con l’isolamento dei violenti proprio da parte di coloro che avrebbero potuto essere i loro naturali alleati. Oggi come allora la cosa fondamentale è che gli incappucciati siano lasciati soli nella cupa e caricaturale ripetizione di gesti altrui: cubetti di porfido, spranghe, bombe e bombette, colpi di pistola sparati con viltà contro vittime disarmate e spesso (come poi ci hanno raccontato anni dopo i «rivoluzionari» di allora) esplosi con mano tremante. Ma davvero siamo condannati al remake di tutto questo? Urge spargere buon senso e ragione, il momento è difficile, per molti doloroso, ma non si può rinunciare alla difesa continua e ostinata di tutti anche i minimi spazi di vita civile. Ogni rinuncia, ogni tradimento può avere conseguenze imprevedibili.
Per quanto ci riguarda, non possiamo negare: qui a La Stampa siamo preoccupati. Nel giro di tre giorni due di noi - l’impiegato che ha maneggiato il pacchetto esplosivo e l’autista ferito - sono stati sfiorati da qualcosa che poteva avere pesanti conseguenze sulla loro vita. È grave e non lo sottovalutiamo. Ma non possiamo far altro che impegnarci nel continuare semplicemente il nostro lavoro: raccontare i fatti, rappresentare le paure, i disagi e i bisogni della gente, indagare nella società, giudicare la politica e i governi per quello che fanno.
Non solo. Nel volantino di ieri, i tristi estensori del Fai, denunciano arresti e carcerazioni arbitrarie e punitive di anarchici. E dunque anche a polizia e giudici chiediamo trasparenza e rapidità: le violenze non vanno mai tollerate e sempre punite; le ingiustizie e gli arbitrii però peggiorano le cose. Nel 1977, nell’Italia già percorsa dal terrorismo e dove cresceva la domanda di sbrigative repressioni, Carlo Casalegno scrisse su la Stampa il suo ragionato e ostinato no a leggi speciali. Qualche settimana dopo veniva ucciso dalle Brigate Rosse. Vogliamo essere coerenti con la sua lezione: nessuna forzatura, ma nessuna tolleranza. Noi, qui, eserciteremo la ragione fino in fondo per evitare che - come diceva Norberto Bobbio - alle armi della critica si sostituisca la critica delle armi.
da -
http://www.lastampa.it/2013/04/13/cultura/opinioni/editoriali/il-buon-senso-contro-i-remake-gK0BGWqBfpXP3gitgWedhL/pagina.html