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Autore Discussione: Federico Rendina. Subito un fisco più equo  (Letto 2142 volte)
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« inserito:: Marzo 10, 2013, 11:16:36 pm »

Quel cappio energetico che frena le imprese.

Subito un fisco più equo

di Federico Rendina

10 marzo 2013


Guai, per il Governo che verrà, a non fare dell'energia una priorità. Anche perché i fardelli sono ancora lì, pronti a frenare ogni nostro tentativo di ripresa economica e industriale: una dipendenza senza pari dall'import di petrolio e gas senza essere capaci di sfruttare le significative risorse nazionali, un fisco iniquo, una liberalizzazione ancora zoppa. Eppure la svolta è possibile. Perché qualcosa, anzi molto, si muove. Il mercato del gas si sta aprendo, le vistose penalizzazioni fiscali che sovraccaricano ulteriormente i costi energetici delle imprese potrebbero trovare una soluzione sull'onda dell'articolo 39 del secondo decreto sviluppo dello scorso anno.
Luci e non solo ombre nello scenario tracciato da Aurelio Regina, vice presidente di Confindustria con delega per lo sviluppo economico e l'energia. E sul capitolo cruciale dell'energia il Governo uscente "merita apprezzamento". La Strategia energetica nazionale, un documento quadro che manca da vent'anni, "traccia un buon percorso". Certo, non abbiamo il nucleare, peraltro in crisi in tutto il mondo. Usiamo poco il carbone, che aiuta a differenziare le fonti decongestionando i costi. Ma "esistono finalmente le condizioni per proporre al paese un approccio integrato e sinergico tra versanti considerati fino a ieri diversi, in qualche caso nemici: le rinnovabili, l'efficienza, la salvaguardia del patrimonio di generazione elettrica con le fonti tradizionali, gli ex monopolisti, i nuovi competitori".

Sinergie dove?
Nella gestione delle risorse idriche ad esempio. Il paese se ne sta finalmente occupando seriamente. L'Authority per l'energia ha avuto la competenza anche su questo settore, che presenta non poche criticità ma anche molti pregi e potenzialità, con un forte contenuto di tecnologia italiana. E in ballo ci sono tra i 60 e 70 miliardi di euro di investimenti che sistema dovrà attivare anche per non incorrere alle procedure e alle sanzioni comunitarie. All'orizzonte c'è un grande sforzo di modernizzazione. Lungo la strada già tracciata nel sistema elettrico, con un confronto competitivo tra molti gestori improntati a logiche sempre più industriali, orientate al mercato, attraverso società quotate votate alla remunerazione del capitale. Non a caso si sta aprendo un dialogo progettuale per l'adesione di un crescente numero di imprese dei servizi alla Confindustria. Una sfida simile a quella già aperta nell'elettricità e nel gas. Gas da cui dipende, va ricordato, il 60% della produzione elettrica italiana.
E che rappresenta il principale vincolo infrastrutturale per il nostro sistema energetico.
Ma anche la maggiore opportunità, grazie ai passi avanti che comunque abbiamo fatto. Il processo di liberalizzazione sta dando i suoi frutti e il sistema industriale italiano può già beneficiare della convergenza tra i prezzi nazionali del metano e quelli dei principali paesi europei. Tanto che sul versante dell'approvvigionamento all'ingrosso il problema dello spread gas è superato. Ora bisogna rendere questa convergenza strutturale. La separazione di Snam rete gas ha rappresentato un passo importante, ma ora va legata allo sviluppo e all'integrazione nel mercato europeo, dando sostanza al progetto dell'hub italiano del gas.

Come?
Completando l'interconnessione fisica con le reti europee sia dal punto di vista delle infrastrutture sia sul piano commerciale. Ecco perché abbiamo chiesto all'autorità dell'energia e al governo iniziative più decise per armonizzare le tariffe di trasporto del gas tra gli stati membri. Sul gasdotto Transitgas che attraversa la Svizzera si sta procedendo rapidamente. Grazie alle iniziative prese dal ministro dello sviluppo Corrado Passera per aprire la capacità di interconnessione tra l'Italia e gli hub del Nord Europa, ci auguriamo che il progetto possa essere completato per il prossimo anno termico. Molto, moltissimo, si sta facendo per aprire il mercato interno degli stoccaggi. Rimane da completare la borsa del gas con un mercato a termine liquido, ma il quadro di sviluppo è ormai definito, nella consapevolezza che il gas si conferma per il prossimo ventennio la principale fonte in tutto il pianeta per la produzione di elettricità, anche grazie alle poderose disponibilità offerte dalla tecnica estrattiva dello shale gas.
Peccato che il sistema elettrico italiano stia pagando nuovi evidenti squilibri frutto proprio della liberalizzazione, con un'eccedenza di capacità produttiva che costituisce un po' paradossalmente una nuova mina alla competitività.
Pregi e difetti di uno senario in transizione. Nel 2003 il nostro paese era tristemente noto per i blackout diffusi. Adesso, sull'onda di investimenti per oltre 30 miliardi di euro in cicli combinati, abbiamo le centrali termoelettriche più efficienti d'Europa e più sostenibili sul piano ambientale. Abbiamo però sovrapposto un nuovo ciclo di investimenti da quasi 50 miliardi di euro di impianti da fonte rinnovabile. Purtroppo si è trattato di un processo mal governato. Le rinnovabili sono concentrate in ristrette aree geografiche, prevalentemente nel sud, con un'eccedenza di potenza installata rispetto alla capacità delle reti. Con un eccesso di energia che anche alla richiesta di punta raggiunge il 40%. Non riusciamo a consumare in modo efficiente mentre gli impianti termoelettrici, tra i migliori in Europa, sono in crisi e la loro chiusura potrebbe pregiudicare l'equilibrio del sistema. Tale situazione rischia, paradossalmente, di creare nuove inefficienze tecnico economiche che rischiano di ampliare il differenziale di costo dell'energia elettrica rispetto agli altri paesi europei già oggi del 30% e pregiudicando ulteriormente la competitività del sistema industriale.

Quali contromosse? Come correggere queste distorsioni?
Abbiamo chiesto e ottenuto dal governo e dall'Autorità per l'energia di agire su tre fronti. Una razionalizzazione degli incentivi alle rinnovabili sulla base del merito economico che in buona parte è stata fatta, la responsabilizzazione di tutte le fonti intermittenti riguardo ai costi del bilanciamento e della sicurezza del sistema. Si potrebbero ipotizzare nuovi meccanismi dispacciamento di merito economico per le fonti rinnovabili per integrarle meglio del mercato elettrico come avviene ad esempio in Spagna. Inoltre va fatta un'opera di responsabilizzazione del territorio anche sul piano economico, per quegli enti locali che si oppongono allo sviluppo delle infrastrutture energetiche (reti, sottostazioni) senza le quali l'uso efficiente di tutte le fonti di generazione rischia di essere penalizzato. Basti pensare al caso dell'elettrodotto di collegamento con la Sicilia, che intanto è costato in bolletta all'Italia continentale 500 milioni di euro solo nel 2012. O al blocco dei progetti per i nuovi rigassificatori.

Resistenze pesanti, inutile nasconderselo. Si è tentato con i benefici e le garanzie locali, caso per caso. Si auspica a gran voce la correzione del titolo quinto della Costituzione riportando al centro i processi decisionali sulle infrastrutture. Cosa privilegiare?
La riforma del Titolo Quinto è diventata ineludibile. Il mercato, ma oserei dire l'intero scenario amministrativo italiano, ha assoluta necessità di certezza e stabilità delle regole, programmabilità e affidabilità degli investimenti, in un orizzonte definibile. Fermo restando che va perseguita ogni azione per favorire accordi sul territorio, anche caso per caso, progetto per progetto. Buoni segnali dal Governo uscente ne sono arrivati: si calcola che la recente introduzione dell'autorizzazione unica ambientale possa consentire alle imprese risparmi per almeno 600 milioni l'anno. Ma in gioco c'è un potenziale complessivo di investimenti tra i 30 e 40 miliardi di euro. Niente male considerando l'effetto moltiplicatore che tutto ciò potrebbe avere sull'efficienza complessiva del paese e sull'intero tessuto economico.
A proposito di costi, da tempo la Confindustria lamenta un'allocazione squilibrata degli oneri attribuibili all'inefficienza del sistema ma anche alle componenti fiscali e parafiscali sulle diverse categorie di utenza. A che punto siamo?
Al punto che la soluzione diventa veramente urgente visto che è stimabile nell'imminente futuro un onere aggiuntivo di oltre 1,5 miliardi di euro l'anno, che porterà a 12,5 miliardi il costo degli incentivi. Basti pensare che il livello medio della componente A3 per le piccole medie imprese manifatturiere in due anni è quali quadruplicata, passando da 12 euro a megawattora a oltre 45 euro a fine 2012. Un primo segnale positivo è arrivato dal governo con l'articolo 39 del secondo provvedimento sviluppo, che prevede una riallocazione delle componenti fiscali tenendo conto delle necessità delle imprese a più alta intensità energetica, per le quali gli attuali extra oneri rappresentano spesso la differenza tra un margine vitale di profittabilità e i conti in rosso.

Qualcuno pagherà l'energia di più, qualcuno pagherà di meno.
Mettiamola in un altro modo. Grazie agli attesi benefici complessivi nei costi e nei prezzi dell'energia la riallocazione e riordino di questi oneri potranno garantire equilibrio e vantaggi per l'intero sistema. Impegnando tutti, anche grazie a politiche fiscali più eque ma anche più coraggiose, nella corsa verso la frontiera più produttiva e redditizia: l'efficienza energetica. Che rappresenta il pilastro portante della green economy, un settore in cui la nostra industria manifatturiera è leader internazionale e ha dimensioni importanti, con oltre 300mila aziende e 3 milioni di occupati. Confindustria stimato che, al di là del rinnovo e all'estensione che siamo riusciti ad ottenere quest'anno per il beneficio del 55%, se si stabilizzassero da qui al 2020 gli attuali incentivi all'efficienza energetica, nell'ambito di un quadro normativo certo è stabile nel tempo, ciò garantirebbe nostro paese lo 0,4% di Pil annuale aggiuntivo. Senza considerare che il 70% delle potenzialità della riduzione delle emissioni nella lotta ai cambiamenti climatici si stima che possa venire proprio dall'efficienza. Confindustria è pronta a dare la sua parte. Anzi, la sta già facendo, ad esempio con il progetto Smart Energy per favorire lo sviluppo tecnologico del settore. Ecco perché ci auguriamo che nell'auspicabile consolidamento del progetto di strategia energetica nazionale venga abbandonato l'approccio congiunturale per ricondurre l'efficienza energetica ad una politica strutturale che definisca nel medio e lungo periodo obiettivi di riduzione dei consumi e chiare misure di incentivazione che consentano di favorire la crescita dell'industria italiana consolidando il suo indubbio valore anche sui mercati internazionali.

 Magari evitando gli errori commessi con l'incentivazione a pioggia di pannelli fotovoltaici senza privilegiare né i veri parametri di efficienza né la qualità, dando così spazio ad apparati costruiti in oriente con un sistema di certificazione aleatorio.
A conferma del fatto che una politica di incentivi poco accorta genera solo speculazione senza garantire una vera prospettiva di sviluppo industriale. Un errore che non possiamo ripetere. Nel 2011 abbiamo installato il 33% della quota mondiale di pannelli fotovoltaici senza riuscire a creare una vera e propria industria italiana se non nel campo, pur importante, della produzione degli inverter. Ma anche su questo versante stiamo facendo passi importanti. Nelle rinnovabili termiche, nel quale il nostro paese un significativo presidio industriale, i decreti approvati poco prima di Natale offrono al settore una prospettiva strutturale, per sanare le disparità di trattamento tra le diverse fonti rinnovabili e tra i paesi. Si tratta di un'importante problema di competitività relativa che deve trovare una soluzione convergente a livello europeo.

Operazione non facile, viste le difficoltà di trovare una sintonia nella Ue non solo su questi strumenti ma più in generale sulle grandi azioni comuni che hanno a che fare con la lotta ai cambiamenti climatici.
Anche qui il dibattito a Bruxelles per raggiungere questi obiettivi rischia di delineare soluzioni incoerenti. Un esempio lampante è costituito dal progetto della Commissione Ue di ritirare dal mercato quote di permessi dell'emission trading per sostenerne il prezzo in caduta. Una scelta da ponderare con attenzione, perché rischia di produrre nuovi pesanti oneri che minerebbero ulteriormente la competitività delle imprese.


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