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Autore Discussione: CHIARA BERIA DI ARGENTINE -  (Letto 32456 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Aprile 16, 2011, 04:23:46 pm »

16/4/2011

Il prof che difende l'Europa: "Sono figlio di Schengen"

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Sono stupito e amareggiato da certe dichiarazioni. Non si può accusare l’Europa di averci lasciato soli ad affrontare il problema dei profughi», attacca Giacomo Di Federico, «professore aggregato» di Diritto dell’Unione europea alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Bologna. A 36 anni, il brillante e giovane giurista, è il prototipo di una generazione che ha potuto prima studiare e oggi lavorare circolando liberamente nell’Europa senza confini. Da poche ore è rientrato da Bruxelles. «Negli ultimi 2 mesi», spiega, «ci sono andato 7 volte per seguire un progetto finanziato dalla Comunità sulla libera circolazione dei pazienti». A Bologna, al suo corso, quest’anno Di Federico ha introdotto una sezione sulla Cooperazione delle polizie giudiziarie in relazione alla Convenzione di Schengen, tema assai attuale e bollente negli ultimi giorni. «Troppo spesso ho letto e sentito», dice Di Federico, «non solo minacce suicide come quella di uscire dall’Europa ma anche troppe dichiarazioni a dir poco sconcertanti perché riguardano aspetti sui quali i Paesi membri non hanno trasferito competenze all’Unione. Si vuole mantenere la competenza penale sulla presenza di irregolari nel nostro territorio? Perfetto.

Ma, allora, non si può svegliarsi una mattina e dire che tutta l’Europa se ne deve far carico. E ancora. La Convenzione di Schengen stabilisce alcune condizioni minime per l’ingresso nel territorio dell’Unione; se l’Italia non le rispetta non ha poi il diritto di lamentarsi. Davvero non capisco se certe posizioni siano frutto d’ipocrisia o d’ignoranza!». Dichiaratamente esigente con se stesso prima ancora che con i suoi allievi («Vivo per studiare e studio per vivere. Agli studenti dico subito: “Se non avete intenzione di lavorare state pure a casa". Quest’anno? Hanno iniziato in 120, ora sono rimasti circa 40») Giacomo Di Federico, tutt’altro che uomo di sinistra, rivendica con orgoglio le sue radici accademiche italiane ma ammette di ritenersi assai fortunato di essere un cittadino dell’Unione. «Hai più chance di lavoro e di uscire da una realtà troppo piccola», dice il giurista che ha appena visto pubblicato un suo articolo in tema d’antitrust sulla prestigiosa rivista «Common Market Law Review».

Figlio unico di genitori separati; madre americana e un padre, Giuseppe Di Federico, professore emerito di Ordinamento giudiziario, ex consigliere laico del Csm, famoso per le sue filippiche contro le toghe rosse e/o «fannullone», Giacomo dice di aver rischiato da ragazzo di finire nel «Triangolo della morte: Bologna-Riccione-Cortina; un classico per i bamboccioni della mia città». Dopo che aveva «fatto fughino» non andando a scuola per 15 giorni suo padre, d’imperio, lo tolse dal ginnasio Minghetti per iscriverlo a un liceo linguistico privato; ogni estate lo mandò all’estero a studiare le lingue in maniera non turistica ma da applicare al diritto. «Sono un figlio di Schengen, da tanti punti di vista un privilegiato», dice Giacomo. «Anche durante l’università, dove ho scoperto l’amore per il diritto e per lo studio, ho sempre girato: Erasmus a Digione, corsi a Salamanca, Cambridge, Madrid per imparare un vocabolario tecnico-giuridico europeo». Questa Europa si occupa solo di salvataggi finanziari? Testimonianza Di Federico: «Dopo la laurea, un master alla Sorbona e il dottorato, grazie a Lucia Serena Rossi, ordinario di Diritto internazionale e direttore del Cirde (Centro interdipartimentale ricerche sul diritto delle comunità europee) sono stato reclutato in università. Il Cirde è un centro d’eccellenza. Nessuno lavora gratis, la professoressa Rossi - non a caso è una donna - ha saputo trovare fondi europei per i progetti. Altri non li sfruttano? Forse perché bisogna impegnarsi di più».

Giacomo Di Federico (è sposato a Manuela Comoglio) oggi vive nel triangolo global Bologna, Bruxelles, Pechino. Da 3 anni insegna anche al master della China-Eu School Law di Pechino. Seminare per una Cina più libera: un’altra sfida finanziata dall’Europa.

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« Risposta #16 inserito:: Maggio 20, 2011, 08:58:37 am »

18/5/2011

A Milano non s'addice lo stile Santanchè

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Tre grandi fotografie in bianco e nero di milanesi caduti in nome della legge - Giorgio Ambrosoli, Guido Galli ed Emilio Alessandrini, giudici eroi della Seconda Resistenza contro i terroristi - esposte sulla facciata di palazzo di Giustizia sono state la miglior risposta - la più dignitosa ed efficace - ai violenti attacchi di esponenti del centrodestra alle istituzioni e, in particolare, alla magistratura. Milano non dimentica. Tre semplici immagini evocatrici di una stagione in cui violenza e intolleranza hanno insanguinato le strade della città hanno spazzato via i truci manifesti, «Via le Br dalle Procure», del candidato Pdl, Roberto Lassini e i virulenti attacchi di Daniela Santanché arrivata a definire «una metastasi», il pm Ilda Boccassini.

«19 marzo 1980: un bambino di 12 anni piange disperato il padre ucciso. Aprile 2011: un uomo di oltre 40 anni è costretto a leggere manifesti infamanti contro quelle procure che guidarono il Paese oltre la devastazione del terrorismo». L’accorata lettera scritta prima di Pasqua al Corriere della Sera da Giuseppe, il figlio di Guido Galli (le due figlie indossano la stessa toga del padre) avrebbero dovuto suonare da campanello d’allarme per Letizia Moratti e la sua squadra di consiliori e spin doctor. Odio e denigrazione dell’avversario non pagano nella città del magistero di grandi cardinali, da Montini a Martini a Tettamanzi e del riformismo socialista mai del tutto sepolto. Incredibilmente però Letizia Moratti che il 18 aprile, in linea con la sua storia di moderata, aveva preso le distanze dall’operazione Lassini è poi caduta nella stessa trappola. Non solo non ha mai preso le distanze dal cosiddetto «stile Santanché», non solo ha lanciato dopo il fischio dell’arbitro una falsa accusa a Giuliano Pisapia ma, neppure a urne chiuse, ha ammesso i suoi errori.

Molto si è già discusso e si discuterà su chi ha spinto Moratti (alla sua prima campagna elettorale con la tessera di partito; a palazzo Marino fu eletta da indipendente) su posizioni così estreme giocandosi così, almeno al primo turno, una fetta consistente del voto moderato. Di certo, però, nonostante gli indefessi tour elettorali del sindaco, di quartiere in quartiere, tra cene con mille donne, tagli di nastri e comizi in dialetto per sedurre i leghisti, il sindaco e la sua squadra di assessori non sembrano aver saputo ascoltare le voci di Milano. Facile ora dire affronteranno il ballottaggio parlando dei problemi della città. Piccolo esempio: l’assessore ai servizi sociali Mariolina Moioli, fedelissima del sindaco, per mesi ha snobbato i rappresentanti dei 1500 genitori dell’istituto St. Louis (non certo pericolosi comunisti!) disposti a pagare di tasca loro la ristrutturazione di un edificio dismesso regalando al Comune anche un asilo pur di avere a Milano un liceo inglese. Risultato: tra i genitori c’è chi, per pura protesta, ha convogliato i voti su un candidato di sinistra, Lamberto Bertolè (1660 preferenze).

Affitti impossibili per studenti e giovani coppie; difficoltà per tante donne di conciliare maternità e lavoro; inquinamento da traffico privato; luoghi storici come la Darsena e Sant’Ambrogio da anni deturpati dai cantieri di contestatissimi parcheggi. Non solo, come dice Bossi, le buche nelle strade: l’elenco dei problemi da affrontare nella metropoli in crisi è davvero lungo ed è davvero ingiusto dare tutte le colpe alla sola Moratti. Anche Berlusconi potrebbe riflettere se, in questi anni, non ha persino penalizzato (esempio: Linate-Malpensa svuotate a favore di Fiumicino con grave disagio per tanti professionisti e imprenditori del made in Italy) la città che l’ha portato fino a Palazzo Chigi. Milano di donne come Benedetta. La figlia di Walter Tobagi, un’altra vittima milanese dei terroristi che, indignata dai manifesti sulle Br e dalle invettive della Santanché, si è battuta fino all’ultimo comizio per Giuliano Pisapia ora commenta: «Milano non ha dimenticato e non si adegua; è una signora!».

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« Risposta #17 inserito:: Maggio 31, 2011, 03:49:46 pm »

31/5/2011

Una sconfitta nata dalla conquista dell'Expo

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Più che una semplice fotografia è l’immagine della Moratti commissariata e, dunque, destinata alla sconfitta. Scattata alla vigilia del ballottaggio che l’ha vista sonoramente battuta da Giuliano Pisapia, quella foto mostra Lady Letizia seduta su un divano della terrazza di casa, circondata dai «bravi» del Cavaliere: il governatore della Lombardia Formigoni, fin troppo sorridente; la bresciana Gelmini, fin troppo diligente; il ministro La Russa, alquanto accaldato, e quel Mario Mantovani, coordinatore del Pdl lombardo che, in verità, la maggioranza dei milanesi ha scoperto giusto nei giorni delle sciagurate manifestazioni con la Santanchè fuori da palazzo di Giustizia. Parabola della prima donna sindaco nella storia di Milano; ovvero come il potere - se non si è delle vecchie volpi alla Andreotti- può logorare chi ce l’ha. Nominata nella prima era Berlusconi dai milanesi Carlo Scognamiglio e Irene Pivetti presidente della Rai, l’imprenditrice Moratti (ramo assicurazioni) aveva saputo chiudere con onore il suo mandato in viale Mazzini garantendo, da brava moderata, spazi anche alle voci meno filogovernative. Dopo l’assai amata Rai, Silvio Berlusconi le affida un altro compito non facile, il ministero della Pubblica Istruzione.

Oneri e onori per la signora dell’alta borghesia milanese, dalle ottime relazioni, grandi mezzi e perfetto inglese. Il Cavaliere forse la subisce più che amarla: a Milano i Moratti erano già ricchi&potenti quando lui ancora cantava sulle navi da crociera e Lady Letizia, la moglie del presidente della Saras che passa i week-end a San Patrignano, non è certo il genere di donna che china il capo.

C’è chi ricorda ancora quella scena a Palazzo Chigi: tutti in attesa d’iniziare il Consiglio dei ministri mentre il premier cerca d’arginare l’ira di donna Letizia per i tagli decisi da Tremonti. Forte del sostegno a 360 gradi del marito Gian Marco e di una campagna elettorale abilmente orchestrata dal suo spin doctor Paolo Glisenti, Letizia Moratti si insedia a Palazzo Marino al posto di un altro imprenditore sceso in politica, Gabriele Albertini. Sindaco del centrodestra ma senza tessera, persona assai perbene, grande lavoratrice, con legami e una formazione tutt’altro che provinciale, il sindaco Moratti ha tutto per piacere a una città che vuol riconquistare il primato di capitale morale. Dal suo più bel successo inizia la parabola discendente. Sostenuta dal governo Prodi (è lei a informare Chiamparino che il governo di centrosinistra appoggerà Milano e non Torino) Moratti, dopo aver girato il mondo a caccia di voti delegando nei fatti la gestione della città a una squadra ben poco abile, conquista l’Expo 2015. Da quel giorno inizia un fuoco amico dal quale non solo non saprà mai veramente sottrarsi ma che, a poco a poco, l’ha isolata dai suoi concittadini sempre più sensibili a problemi come l’inquinamento in città o le buche nelle strade e sempre più delusi dalle indecorose baruffe nel centrodestra per le poltrone dell’Expo. Agli scontri nel Pdl Moratti reagisce offrendo continue prove di fedeltà al Cavaliere e company. Sacrifica Glisenti, prende la tessera del Pdl (funesto presagio, è la sera in cui Berlusconi viene ferito con la statuetta della Madonnina) e si schiera con il premier contro Fini. E’ solo il preludio di una campagna elettorale gestita da troppi cortigiani e volgari pasdaran.

Un’incredibile sequenza d’inspiegabili errori in cui Letizia Moratti, il candidato commissariato, è apparsa irriconoscibile, frastornata e soprattutto sempre più lontana dai bisogni e desideri dei milanesi. Lei, almeno, ci ha messo fino in fondo la sua faccia: troppo facile dire che Letizia Moratti era un candidato sbagliato.

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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 01, 2011, 03:23:05 pm »

1/10/2011

Anna e Chiara, arte e gusto sull'asse Milano-Shanghai

CHIARA BERIA D'ARGENTINE

Grazie a loro la camera da letto della figlia dell’emiro del Qatar è diventata un luogo incantato dalle pareti di una lucente seta solcata da un nugolo di farfalle; una ricca coppia di svedesi ha voluto trasformare un loro salotto foderandolo di seta nera dipinta - barlumi di colore nella notte calata su un intatto stagno - con luminose libellule e fantastiche gru in color blu Cina. E ancora. Un albero carico di sgargianti cachi rosso-arancio ha reso certo più bucolico il bagno di un signore di Alba mentre un industriale lumbard ha scelto per la sua sala da pranzo rami di magnolie con tanto di un usignolo appollaiato su quello più alto.

«Nomi dei nostri clienti italiani? Top secret», rispondono Anna e Chiara Enrico, due sorelle - una avvocato, l’altra architetto - che, muovendosi sull’asse Italia-Cina sono riuscite a fondere due eccellenze, l’antica arte orientale della seta dipinta a mano (tecnica che risale alla dinastia Quing, XVIII secolo) con il gusto e la creatività italiana.

Risultato: non solo le Enrico hanno sdoganato l’uso della carta da parati per anni considerata in Italia fuori moda ma, soprattutto, con il loro raffinati pannelli di seta (veri e propri affreschi su misura; la seta pura incollata su carta di riso viene dipinta a mano in laboratori di artisti di campagna con fiori, piante, farfalle e uccelli; colori e materiali sono naturali) hanno scoperto una nicchia di mercato di superlusso che, alla faccia della crisi e del minimalismo, sta conquistando anche le dimore più moderne di doviziosi clienti. Chinoiserie altro che Ikea! Per i ricchi, come nei nobili palazzi dai tempi di Luigi XV, il meglio della Cina è nel chiuso dei salotti a 270 euro a mq più Iva. «Siamo distribuiti in 27 negozi, da Parigi a Berlino, da Milano a Madrid. Lavoriamo tantissimo con l’estero. Quest’anno abbiamo molte richieste dalla Germania per clienti privati e negozi», spiegano Anna e Chiara Enrico, belle e dinamiche signore che hanno creato Misha (acronimo di Milano-Shanghai) società da tempi global.

«Troppo spesso da noi si associa la Cina a prodotti di scarsissima qualità», dice Chiara, laureata al Politecnico di Milano, cresciuta nei prestigiosi studi di Cino Zucchi, Vittorio Gregotti e Jacopo Gardella mentre sua sorella Anna, dopo gli studi in Legge, l’esame d’avvocato, un master in marketing alla Bocconi, alla ricerca della sua vera strada se ne andava a fare la semplice commessa a Londra per, poi, rientrare in Italia e occuparsi di relazioni industriali in Confindustria tessile. Era il 2003 quando Chiara decise di lasciare il suo avviato studio a Milano per andare alla scoperta del colosso asiatico (a Pechino s’iscrisse all’università Beishida per imparare il cinese). «Vivendo e lavorando in Cina ho visto tutto ciò che non amiamo e temiamo: la Cina più povera, la Cina “fabbrica del mondo” che copia i nostri prodotti, la grigia Cina delle fabbriche di elettrodomestici.

Ma esiste anche un’altra Cina dalle mille sfaccettature: una Cina coltissima, legata alle sue tradizioni, persino molto spirituale. Nessuno si aspetterebbe che, nel colosso superindustrializzato, esistano artisti capaci di tramandare tecniche pittoriche così eleganti e antiche. Con loro ho preparato le mie collezioni semplificando disegni troppo carichi e scegliendo nuove gamme di colori. Troppo decorative e in contrasto con la mia formazione razionalista? Per me il tema è sempre lo spazio. Quando, lavorando come architetto a Shanghai, ho trovato queste fantastiche immagini della natura ho pensato a stanze dove ognuno ritrovi un suo spazio più poetico e intimo».

Nel 2007 Chiara convince Anna a entrare nella sua nuova impresa. Bozzetti, campioni per i clienti, rotoli di seta dipinta in arrivo per via aerea. Ogni mattina per 4 ore nel loro showroom milanese le sorelle Enrico sono in rete con gli artisti asiatici; Chiara (ormai parla benino il cinese) 3 volte l’anno va a Shanghai ma ritorna. «Laggiù ho imparato molte cose però ho sottovalutato la fatica. Con i cantieri aperti giorno e notte si lavora sempre». Anna più concreta chiosa: «Io non ci sarei rimasta un solo mese!».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9266
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:32:59 am »

Politica

12/11/2011 - LA STORIA

La rivincita dei milanesi sobri e in loden verde

Dal Cavaliere a SuperMario: due facce della stessa città

CHIARA BERIA DI ARGENTINE
MILANO

Partiamo da un piccolo dettaglio d’abbigliamento maschile: il cappotto. Quello che Silvio Berlusconi porta appoggiato sulle spalle, stile alla Napoleone Bonaparte (notoriamente da anni colleziona oggetti dell’Imperatore) è il tipico cappotto in morbido e regale cachemire prediletto da «lor scior pien de danee», per dirla con i versi in dialetto di Porta. Ovvero, la Milano esplosa nei favolosi Anni Ottanta che si estende da Montenapoleone alla «Brianza Saudita»; quella che ama esibire successo&potere e detesta ogni moderazione; che, per l’aperitivo, si ritrova in «Montenapo» da Cova o alla pasticceria Sant Ambroeus; per solcare il mare ha la «barca», gioca a golf nei circoli di Monza e Barlassina e, per il Capodanno 2012, ha in agenda o un party nelle ville di Casa De Campo, l’enclave per milionari a Santo Domingo o una cena cotillon e conti da infarto - al Grand Hotel Palace di Saint Moritz.

Il forse successore del Cavaliere a Palazzo Chigi e neosenatore a vita professor Mario Monti, è tutt’altro tipo da cappotto su misura in cachemire. Varesotto di nascita, studi a Milano seguendo il percorso tipico dei giovanotti dell’alta borghesia (Berlusconi, nato nel popolare quartiere Isola, ha dovuto faticare ben più) tra il liceo Leone XIII dei gesuiti e l’università privata Bocconi, l’esimio prof Monti, è il tipico milanese che, nonostante la super carriera da Milano a Bruxelles, non ha mai smesso il rigido, eterno, affidabile e persino un po’ noioso loden di color blu (sola variante accettabile del classico verde).

Il cappotto in loden è, del resto, la vera divisa per i maschi appartenenti alla borghesia milanese di stampo e tradizione calvinista; quella da ottimi studi anche all’estero, solidi matrimoni, volontariato e parche vacanze in montagna o nelle belle case sui tanto piovosi laghi. Una borghesia solida e colta (spariti gli imprenditori oggi è soprattutto composta da professionisti: medici, avvocati, professori universitari) che già aveva annaspato negli anni del boom di fronte all’impetuosa dei ricchi «cummenda» in paletot di cammello (dai Bonomi ai Rizzoli, dai Mondadori ai Moratti) e che nei lunghi e invadenti anni del berlusconismo, sembrava essere stata spazzata via. Milano 2011, incredibile svolta morigerata!

Attenzione, nulla a che vedere con la svolta a sinistra da radical-chic da salotto; per altro, luoghi scomparsi da tempo a Milano. Dopo l’indigestione di Papi girls con borsette Prada e Hermes, delle sciure leopardate alla Santanché, delle domeniche con il Cavaliere in tribuna d’onore del Milan attorniato da scudieri di vario tipo e genere a fine primavera ecco la vittoria grazie anche al voto moderato - su Letizia Moratti (da ragazza studiava al Collegio delle Fanciulle ma in campagna elettorale è stata tutt’altro che sobria) dell’avvocato Giuliano Pisapia.

Con l’eschimo in gioventù oggi in loden verde Pisapia, è un tipico esponente della Milano calvinista, quella che ritiene che oggi il vero lusso sia poter girare in bicicletta la città superinquinata e soffocata dal traffico e trova assai volgare quelli con l’auto blu e tanto d’autista in estenuante attesa fuori dal ristorante «Il Bolognese» o dall’hotel Four Season, in via del Gesù. E ora da Berlusconi a Monti. L’uno ha preso il testimone politico da Craxi, l’altro da Spadolini alla guida della Bocconi; l’uno ha, tra Segrate e Cologno, il suo impero tv l’altro è editorialista del «Corriere» in via Solferino; l’uno è stato fotografato in minishort bianchi che passeggiava, mano mano con una giovan fanciulla, tra i catcus della sua megavilla a Porto Rotondo, l’altro ama camminare nelle verdi e solinghe valli dell’Engadina (purtroppo il suo compagno preferito, l’amato golden retriever, non c'è più!).

E ancora. L’uno abita nella villona in Brianza acquistata con i primi milioni da nobile casato, l’altro vive in un elegante appartamento, zona Magenta-piazza Piemonte; l’uno ama gli eccessi e le barzellette, l’altro è iperpacato e ipercontrollato (anche se gli amici giurano che ha più sense of humour di quanto lasci intravedere). Anche per stile di vita, senza attardarsi in assai sgradevoli confronti, Berlusconi e Monti rappresentano davvero due facce diverse della borghesia milanese. La messa di Natale a Santa Maria delle Grazie; l’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, le cene a casa di amici.

Compare sempre con sua moglie Elsa (tailleur e taglio di capelli simile a quello di tante altre solide signore di zona Magenta) il prof Monti nelle sue rare sortite mondane: ai ricevimenti in Prefettura, ai concerti di beneficenza organizzati da lady Monti, valente capo-ispettore della Croce Rossa, e alla Prima della Scala. Ovviamente, in quell’occasione, sotto il suo loden, l’impeccabile Mario Monti indossa, come vuole la tradizione, lo smoking.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429481/
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 01, 2012, 06:46:32 pm »

31/12/2011

La nonna del signore delle feste

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

La finestra da cui mi sono sempre affacciato per osservare il mondo è quella di un palazzo signorile». A leggere questa frase mi è venuto in mente Alberto Sordi in una delle sue indimenticabili interpretazioni: un signorino azzimato che, affacciato a quel palazzo, si becca dalla strada una sonora pernacchia. Premesso che, in tempi così angoscianti, finora ci è ancora concesso sorridere, l’autore di quella frase, il principe (tiene assai al suo titolo!) Carlo Giovanelli, nel suo nobil genere è un personaggio tanto cortesemente ingenuo quanto singolare.

Dieci anni prima che le piazze si riempissero di quei giovani che s’illudevano di portare l’immaginazione al potere, il 6 dicembre 1958 (data per lui «Memorabile») Giovanelli, a soli 16 anni, indossava per la prima volta il frac per danzare (la quadriglia!) al ballo offerto nel suo megapalazzo accanto al Quirinale dalla principessa Pallavicini, inflessibile dama dell’aristocrazia papalina, per il debutto della figlia Maria Camilla.

Da quel lontano giorno, di decennio in decennio, Carlo Giovanelli, più folletto che dandy, ex marito di Elettra, la figlia di Guglielmo Marconi, non si è mai risparmiato un solo evento aristo-benefico-mondano («E’ la nostra duchessa d’Alba», copyright della scrittrice Isabella Bossi Fedrigotti) fino a diventare uno di quei surreali esperti in etichetta&dinastie invitati nei talk show per commentare real matrimoni che tanto piacciono in una Repubblica che ha incoronato via televoto un Savoia, Emanuele Filiberto, miglior ballerino. Viste le premesse, il libro scritto da Carlo Giovanelli usando i diari di sua nonna Marianna («Il Debuttante», editore Marietti) non era in cima ai miei pensieri; eppure, a parte certe sue nostalgie monarchiche, è una interessante testimonianza sul tramonto di una casta.

«Il primo nemico di una grande casata», dice il principe, «sono proprio i discendenti quando permettono che il loro caotico presente si divori l’ordinato passato». Ovviamente al giorno d’oggi le casate sono quelle dei danée che spesso, notava lo storico Giorgio Rumi, non durano neanche una generazione. Dal XIII secolo la storia dei Giovanelli - originari di Gandino nella bergamasca, ora contea leghista - è quella di una stirpe potente (secondo una leggenda il bisnonno Giuseppe viaggiando da Bergamo a Venezia attraversava solo suoi possedimenti) e assai munifica. Il nonno Alberto, sposo di Marianna Serego Alighieri (discendente di Dante) possedeva una delle quadrerie private più importanti d’Europa (tra tante eccelse opere anche «La Tempesta» del Giorgione); e nel 1897, a Venezia, fondò la Galleria Internazionale d’Arte Moderna. Belle Époque: i principi Giovanelli fanno una gran vita.

Eletto parlamentare in Veneto, Alberto, per assecondare l’amatissima e capricciosa Marianna, si trasferisce a Roma dove affitta Palazzo del Drago (a una loro festa si conosceranno Edda Mussolini e Galeazzo Ciano). Eleganti toilettes, supergioielli, Marianna, assai vicina al principe di Piemonte e stimata dalla regina Elena, diventa dama di Palazzo. La Grande Crisi del 1929 travolge i Giovanelli. «Investimenti sbagliati, crolli azionari, crisi del tessile. Una fortuna immensa andò in fumo», ricorda Carlo.

«A squali di ogni genere bastò poco per fagocitare tutto quanto e quando non fecero loro ci pensò lo Stato con le sue tasse e soprattasse per mora». Svaniti terre e palazzi i Giovanelli cercano di vendere al meglio all’estero «La Tempesta»; Mussolini si oppone e la fa comprare dallo Stato per 5 milioni. «Servirono a coprire le spese per un accettabile tenore di vita di nonna Marianna che, senza un minimo di lusso, non avrebbe mai potuto sopravvivere».

Fine di quel mondo; tempo di altre caste, corti e cortigiani. Dopo il tracollo, Alberto si trasferisce in un appartamento «borghese» ai Parioli. Marianna, attorniata da bauli e ricordi («Non ero forse la prima dama dell’aristocrazia italiana?»), vivrà in una stanza dell’hotel Plaza. Sola distrazione: un film, al cinema Quirinetta. Morirà nel 1953, quando i Savoia erano già da anni in esilio.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9601
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 04, 2012, 11:16:00 am »

4/3/2012

Non di soli bestseller vive la libreria

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

L’ultimo a complimentarsi è stato Carlo Feltrinelli che, pochi giorni fa, passando in via San Calocero, via per nulla lussuosa della vecchia Milano, incuriosito è entrato in una piccola ma accogliente libreria di quartiere e ha scoperto in bella mostra sul tavolo delle novità «Farsi italiani. La costruzione dell’idea nazione nell’Italia Repubblicana», il libro a cura di Annalisa Bini, Chiara Daniele e Silvio Pons, appena uscito negli Annali della sua casa editrice. Racconta Roberto Testa: «All’inizio non l’avevo riconosciuto; credo che tenga molto a quel libro. Abbiamo riso quando mi ha detto che si è quasi commosso perché nelle librerie Feltrinelli non l’espongono mai e lui ogni volta s’inc...!».

Quelli come Roberto Testa e sua moglie Chiara De Bartolomeis si meritano complimenti vista l’aria che tira a Milano, un tempo capitale dell’editoria con tante botteghe di bravi e amati librai ora diventate boutique di borse e scarpe. Nell’autunno 2009 nuotando controcorrente (del resto, lui si è pagato l’università facendo l’istruttore di nuoto) Roberto e Chiara - fidanzati dai tempi del liceo scientifico, laureati in filosofia alla Statale; lei antiquaria-restauratrice lui, che da giovane era militante dell’Autonomia operaia, educatore al Giambellino in una coop sociale ad aiutare nello studio ragazzi in situazione di disagio - hanno deciso alla soglia dei 50 anni di cambiare vita e impiegare i loro risparmi per aprire al posto del negozio di Chiara - 60 mq più cantina - la libreria «Linea d’Ombra», dichiarato omaggio a Conrad. Un’impresa («Per carità, non chiamatela start up!», ride Roberto) quasi impossibile. Crisi, megacosti per l’affitto dei locali e concorrenza delle grandi catene di distribuzione, delle vendite on-line e dei supermercati del libro più la politica dei grandi sconti hanno infatti costretto alla resa molte librerie di quartiere e indipendenti (Ultimo caso: è a rischio chiusura quella di Luca Santini, in Largo Mahler, vicino all’Auditorium).

«A naso sembrava un salto mortale; sono stati in molti a sconsigliarci», ammette Testa. «Per fortuna, noi non dobbiamo pagare né affitto né dipendenti». Pavimenti in cotto, luci soffuse, vetrinette e vecchi mobili recuperati; 7,8 mila volumi ben suddivisi nelle librerie marca Ikea («Le sole che potevamo permetterci!»); un raccoglitore per i «Racconti nel sacchetto» (brani fotocopiati di vari autori: un omaggio ai clienti); una stanza dedicata ai libri per bambini (il regno di Chiara) e, su un tavolo chiamato «Percorsi di lettura», una dozzina di titoli scelti attorno a una parola chiave - acqua, guerra, etc - o a un autore poco conosciuto (questo mese Danilo Kis pubblicato in Italia da Adelphi). Sarà anche perché nella metropoli in affanno si sta riscoprendo la dimensione del quartiere («C’è una grande fame di relazioni e, dunque, di luoghi dove incontrarsi, socializzare») sta di fatto che, in meno di 2 anni e mezzo, la piacevole bottega dei neolibrai è già diventata un indirizzo cult per chi non si rassegna alle facili seduzioni dei bestseller («Grisham lo compri al supermercato») e al gelido impero degli eBook. «Nel mio microcosmo funziona così», spiega Testa.

«Lo zoccolo duro di grandi lettori (un centinaio; quelli meno fedeli sono assai di più) è composto in maggioranza da donne. Abbiamo anche tanti bambini: la prima volta li portano i genitori; poi, sono loro a voler tornare. La fascia più critica? Gli under 18. Per creare nuovi lettori i libri dovrebbero costare meno. Ora che Dalai ha pubblicato "Winesburg, Ohio", di Anderson nei tascabili a 7,90 euro posso finalmente darlo allo studente che mi chiede un consiglio su cosa leggere! Provo un immenso piacere ad avvicinare i giovani ai grandi libri». Poche e mirate presentazioni (molto successo ha avuto Maurizio Maggiani); sere fa la libreria ha ospitato una riunione degli insegnanti di «Philosophy for children» che fanno lezioni di filosofia ai bambini delle scuole elementari. A marzo, in calendario, anche letture animate per piccoli di 4-7 anni. Da Chiara e Roberto si coltiva la speranza di un’altra Milano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9842
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 27, 2012, 02:30:57 pm »

22/9/2012

Da sessantottina a Mamma Moleskine

CHIARA BERIA DI ARGENTINE

Per scrivere la storia di Maria Sebregondi, già sessantottina tendenza Mao, sociologa e traduttrice di Marguerite Duras e Raymond Queneau che, nella sua ennesima vita, si è reinventata manager di successo - il prestigioso «Suddeutsche Zeitung» le ha da poco dedicato un lungo articolo con megafoto - non basterebbe uno dei suoi amati, neri taccuini.

Altro che quote rosa e morte della carta! «Mamma Moleskine», come l’ha ribattezzata il quotidiano di Monaco di Baviera, parlando di una delle rare società italiane in continua crescita e con una redditività da favola (nel 2011 Moleskine con i suoi 400 diversi modelli di taccuini distribuiti in 70 Paesi ha fatturato 66,6 milioni di euro contro i 20,8 del 2006 e guadagnato 15,8 milioni netti) è arrivata a sfondare il mitico “tetto di cristallo” solo grazie a una intuizione in apparenza astrusa nell’era digitale. Non solo. La bionda e sempre bella signora ha avuto l’idea di questo fortunato business a un’età destinata - a pensarla come certi misogini - alla rottamazione. «Era l’estate del 1994. Una notte d’estate sotto le stelle in Tunisia», racconta Maria. «In barca a vela si discorreva di viaggi. Ricordi avventurosi e mitiche mete; letteratura di viaggi e Bruce Chatwin, naturalmente. All’epoca si iniziava ad avvertire la nascente onda di “nomadismo contemporaneo”: biglietti low-cost e sete di cultura, amore per la parola scritta e le nuove tecnologie. La mia fortuna è stata cogliere quel debole segnale».

Per anni a Parigi, Maria Sebregondi, comprava per i suoi appunti i taccuini preferiti da grandi artisti e scrittori (Van Gogh, Picasso, Hemingway, Sartre etc) nella cartoleria, rue de l’Ancienne Comédie, che riforniva Chatwin (fu lui a chiamarli Moleskine perché il materiale della copertina gli ricordava la pelle di talpa; a loro dedicò un intero capitolo de «Le Vie dei Canti»). Da tempo però non trovava più una sola Moleskine (lei pronuncia il nome alla francese, al femminile): dopo 2 secoli nel 1986 anche l’ultimo piccolo produttore a Tours aveva chiuso i battenti. E, quando Francesco Franceschi, l’imprenditore che aveva lanciato le «Parole di cotone”, t-shirt letterarie da libreria, le chiese un’idea per viaggiatori colti Sebregondi pensò a quei perduti quadernetti. «Scoprimmo che il nome Moleskine era libero da copyright. Per vincere la scommessa si trattava di creare piccoli oggetti non solo funzionali ma esteticamente belli e “storytelling”, con una loro storia. Oggetti destinati certo a una nicchia ma che però sapevamo essere globale di professionisti creativi e ipertecnologizzati.

«Altro fattore importante: bisognava distribuirli non in cartoleria ma in libreria, quasi fossero libri ancora da scrivere». Il resto, a cominciare dalla cura estrema della qualità fino al più piccolo dettaglio (dalla legatura a mano all’elastico) è l’incredibile storia del lancio senza nessuna pubblicità tradizionale di un marchio diventato ormai una vera icona dello stile italiano, l’oggetto cult di un’incredibilmente vasta e influente tribù. Hillary Clinton aveva una Moleskine la notte dell’attacco ad Osama Bin Laden; la usa Brad Pitt come un’infinità di celebri architetti e designer (a Venezia il 5 novembre sarà presentato «Detour book», un libro con le immagini dall’archivio di oltre 250 Moleskine d’autore da Ron Arad a Italo Rota a Patricia Urquiola). Passata nel frattempo sotto il controllo del fondo Syntegra Capital, amministratore delegato Arrigo Berni, Moleskine ora sta per quotarsi in Borsa; a Milano nel quartier generale i dipendenti da 20 sono diventati 100; e, grazie a un accordo con l’americana Evernote, sta per essere lanciata una Moleskine analogica-digitale (appunti e schizzi tracciati su una pagina puntinata sono catturati da iPhone e iPad e archiviati nella nuvola Evernote). Maria oggi è direttore brand e azionista ma, soprattutto, ha vinto la sua vera scommessa: «Carta e tecnologia sono complementari. Non a caso i nostri primi fan sono stati gli studenti del Mit, i giovani più tecnologici al mondo!».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10555
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 30, 2012, 02:14:02 am »

Editoriali

29/09/2012

Lady urbanistica a Milano e paladina della sua Ciociaria

Chiara Beria Di argentine

Disgustata dalle gesta di Franco Fiorito, l’ex sindaco di Agnani detto “er Batman”, e dei suoi compari Ada Lucia De Cesaris via Facebook ha avvertito i suoi amici: «Guai a voi se pensate che la Ciociaria sia quest’orrore! La Ciociaria è fatta di persone oneste. E’ una zona meravigliosa di grandi tradizioni». 

Perché mai l’avvocato De Cesaris alla quale nel giugno 2011 il sindaco di Milano Giuliano Pisapia ha affidato la responsabilità del superdelicato e strategico assessorato all’urbanistica ed edilizia privata ha così a cuore l’onorabilità della Ciociaria? «Sono molto legata a quei luoghi», spiega. «Per 20 anni mio padre è stato sindaco di Guarcino (paese, in provincia di Frosinone, ndr).Fin da piccola nei viaggi in auto da Roma in Ciociaria mi raccontava la storia del sindacato e dei partiti. Gli ero molto legata, lui era un “democristianone” cattolicissimo e molto rigoroso. Non avrebbe mai immaginato un simile degrado della politica». 

Non solo Ciociaria. Benedetto De Cesaris (scomparso nel 2003), dc d’area Dossetti-Fanfani, tra i fondatori della Cisl, fu un manager pubblico assai potente, dall’Eni di Mattei alla guida della Gepi e delle Ferrovie dello Stato ma non era certo il tipo da festini in maschera. Tanto padre - per sua ammissione- ha avuto un ruolo chiave nella formazione della tosta ma assai preparata Ada Lucia; al suo insediamento da assessore temuta come fosse una talebana da lor signori del mattone. Ragazza secchiona («Ho sempre pensato che lo studio garantisce una retta via»), laureata in legge (ovviamente con lode), allieva dell’insigne giurista Sabino Cassese; a Milano dove vive da anni (è sposata 2 volte ha 3 figli) De Cesaris è stata l’avvocato di molti comitati di quartiere. «Ma anche di molte imprese», puntualizza lei. Il fatto è che lady urbanistica, una tecnica senza tessere di partito, alla sua prima esperienza in politica sta macinando risultati restando, a differenza di certi suoi colleghi di giunta, ben lontana dai riflettori tanto che a palazzo Marino c’è chi ha già fondato il «De Cesaris fan club». Tre le operazioni più significative firmate Ada Lucia: il nuovo Pgt, Piano del governo del territorio, approvato lo scorso maggio che blocca l’overdose di cemento che ha consumato tanto territorio; la bonifica di Santa Giulia il megaquartiere sotto sequestro (era stato progettato su terreni inquinati); la difesa della vocazione agricola del Parco sud (tanto per iniziare a giugno è stato demolito un albergo di 7 piani mai ultimato. 

Risultato: al posto di un vero ecomostro 260 mila mq recuperati all’agricoltura e al verde). «Talebana? Figuriamoci. E’ solo mio dovere chiedere rispetto delle regole e più attenzione al territorio. Sono diventata assessore in una Milano dove la recessione ha colpito un mercato affetto da gigantismo e dove tanti operatori sono in difficoltà. In questo scenario il sindaco Pisapia ha avuto il coraggio di volere soluzioni equilibrate per non aggravare la situazione. Anzi. Spero che alla crisi si risponda con più attenzione ai reali bisogni dei cittadini». Tradotto: più ristrutturazioni meno grattacieli di archistar; meno profitti più case per i giovani e il ceto medio. Ha avuto molte pressioni? «I mesi del Pgt sono stati faticosi», ammette. «Sono aperta al confronto con tutti, da Porta Nuova e City Life (i più grandi cantieri aperti a Milano, ndr) ai piccoli operatori. Non ho interesse che gli interventi in corso rimangano abbandonati ma non esistono corsie preferenziali, le relazioni devono essere su un piano istituzionale non basate su amicizie personali o politiche». 

Nominate 2 donne, Giuseppina Sordi e Paola Viganò, ai vertici del suo assessorato De Cesaris ora ha deciso di espropriare una cascina al Parco sud di Salvatore Ligresti gestita da anni da un gruppo di agricoltori con tanto di mucche. Un gesto impensabile nei lunghi anni del potere di don Salvatore. «Quella cascina è un patrimonio di Milano», dice l’assessore. «Ligresti ha avuto molto da questa città senza cedere mai all’amministrazione nulla, neanche un’area. Adesso Ligresti deve ridare a Milano». 

da - http://lastampa.it/2012/09/29/cultura/opinioni/editoriali/lady-urbanistica-a-milano-e-paladina-della-sua-ciociaria-A24AYPX61TqqZ80gJh9CUO/index.html
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 01, 2012, 06:44:09 pm »

Editoriali
01/12/2012

Innocenti, l’illustratore che mette tutto in favola

Chiara Beria Di Argentine

Nelle sue tavole - magnifiche per cura del dettaglio, colori e senso della composizione - la tenera ragazzina dal cappotto rosso e lo zainetto in spalla attratta dalle rutilanti promesse del «Bosco», un megacentro commerciale, smarrisce la giusta via. Passo dopo passo, tra strade invase da auto e da una folla distratta, la piccola si perde nella desolante periferia e cade nelle grinfie di un serial killer dai modi gentili, il lupo capobranco. Yara e le altre. Maestro Innnocenti, per raccontare ai ragazzi d’oggi l’antica favola di «Cappuccetto Rosso» si è ispirato all’ondata di terribili casi di cronaca nera? «Vicende terribili! Ma, in realtà, l’idea è maturata poco a poco. La prima tavola era da 10 anni nel mio cassetto. Per finire il lavoro ho impiegato quasi 2 anni», spiega Roberto Innocenti, 72 anni, uno dei più grandi illustratori al mondo, l’unico italiano dopo Gianni Rodari ad aver vinto (nel 2008) il premio Andersen, il Nobel della letteratura per ragazzi. Il bosco è una periferia come tante, il lupo s’aggira su una potente moto nera, la nonna vive in una baracca ma ha la parabolica per vedere le fiction. Con questa moderna versione di «Cappuccetto Rosso» (32 pagine, La Margherita edizioni; «The girl in red», nell’edizione dell’editore americano, Creative Education, dopo l’ironica «Cenerentola» con un principe poco azzurro e «Rosa Bianca», storia di una bambina durante il fascismo, nonno Roberto Innocenti (ha 3 nipotini) ancora una volta ha usato il suo talento per far riflettere i suoi giovani lettori. «Tv e videogiochi li rendono passivi; devono aprire gli occhi. Ma, non siamo più ai tempi di Perrault o dei fratelli Grimm, non ha senso raccontare un mondo in cui non si riconoscono. I pochi boschi rimasti non devono far paura. Anzi, niente è più bello che andare a camminare tra gli alberi, beati al sole. Oggi il pericolo è nei sobborghi delle città, dove vive la gente costretta a lasciare il centro. Luoghi dove tutto luccica ma tutto è plumbeo, a Detroit come a Rio o a Scampia. Invece delle piazze ci sono centri commerciali affollati anche d’estate perché c’è l’aria condizionata. 

 

Luoghi brutali dove la realtà è totalmente deformata. Spero che i ragazzi capiscano che questa distorta idea di modernità è violenza, è barbarie». Cresciuto durante la guerra a Firenze in una famiglia povera, Roberto Innocenti, a 11 anni, lavorando come commesso in un negozio in piazza Duomo, scoprì sulle tavole degli Alinari la sua passione per l’arte. Un sogno conquistato con grande fatica, da autodidatta. Studente alle commerciali serali, operaio metalmeccanico in fabbrica, senza una lira né giuste conoscenze, si mise a disegnare manifesti e cartoni animati per la pubblicità. «Ma nessuno pagava», ricorda. Una vita dura che non ha tolto un solo briciolo di poesia all’artista che narra le sue storie con un occhio da regista. Un piccolo laboratorio, 2 gatti. Con il suo bagaglio di chine, acquarelli e tempere, dal 2001 Innocenti ha lasciato Firenze («Ormai sembra Disneyland con quelle fiumane di turisti che seguono ombrelli e bandierine») per andare a vivere con la moglie Roberta a Montespertoli, nel Chianti. «Non voglio finire appeso in un salotto, disegno per comunicare. In Italia c’è poco interesse per l’illustrazione, io ho trovato la mia libertà all’estero», spiega. 

 

Al grande editore americano che ha fatto conoscere le sue moderne favole dalla Corea alla Georgia, Innocenti è arrivato grazie all’appoggio di John Alcorn, celebre graphic designer inglese (ha creato dal marchio delle edizioni Bur ai titoli di testa di «Amarcord» di Fellini) e di Etienne Dellessert, uno dei padri dell’illustrazione per ragazzi, che gli commissionò «Cenerentola». Riapro «Cappuccetto Rosso» e, in una tavola, su un cartellone di periferia mi sembra di riconoscere un volto noto. «Sì. E’ Berlusconi», conferma Innocenti. «L’ho disegnato ben prima del bunga bunga! Lui è una figura ambigua, un lupo dominante destinato a comandare in un territorio senza identità». Maestro, chi è il lupo tra gli sfidanti al ballottaggio: Renzi o Bersani? «Nessuno dei due», ride di cuore Innocenti. «Sembrano personaggi di Walt Disney. Non fanno paura, sono aspiranti lupacchiotti».

da - http://www.lastampa.it/2012/12/01/cultura/opinioni/editoriali/innocenti-l-illustratore-che-mette-tutto-in-favola-TuG8WpFR8yZPxAFoWWv5dL/pagina.html
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