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Autore Discussione: CAMUS e il futuro dell’Europa  (Letto 2656 volte)
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« inserito:: Novembre 27, 2012, 05:42:47 pm »

Camus e il futuro dell’Europa
   

Nel 1955 Albert Camus intervenne ad Atene parlando di Europa, tra antiche ferite e nuove speranze. Il testo completo del suo discorso è ora pubblicato nel volume “Il futuro della civiltà europea”, in uscita da Castelvecchi. Ne proponiamo due estratti.

di Albert Camus, da Repubblica, 11 novembre 2012

Se riteniamo che la civiltà occidentale consista soprattutto nell’umanizzazione della natura, cioè nelle tecniche e nella scienza, l’Europa non solo ha trionfato, ma le forze che oggi la minacciano hanno mutuato dall’Europa occidentale le sue tecniche o le sue ambizioni tecniche e, in ogni caso, il suo metodo scientifico o di ragionamento. Vista così, in effetti, la civiltà europea non è minacciata, se non da un suicidio generale e da se stessa, in qualche modo.

Se, viceversa, riteniamo che la nostra civiltà si sia sviluppata sul concetto di persona umana, questo punto di vista, che può essere altrettanto valido come lei ha ragione di sottolineare, porta a una risposta del tutto diversa. Vale a dire che probabilmente, dico probabilmente, è difficile trovare un’epoca in cui la quantità di persone umiliate sia così grande. Tuttavia non direi che quest’epoca disprezzi l’essere umano in modo particolare. Infatti contemporaneamente a queste forze, che definirei del male per semplificare le cose, non c’è dubbio che nel corso dei secoli si è progressivamente diffusa una reazione della coscienza collettiva e in particolare della coscienza dei diritti individuali.
Due guerre mondiali l’hanno soltanto un po’ logorata e credo sia ragionevole rispondere che la nostra civiltà viene minacciata nella misura esatta in cui oggi un po’ ovunque l’essere umano, viene umiliato.

A quest’utile distinzione posso aggiungere che potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà. Per dirla diversamente se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo nella ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, in un processo evidentemente troppo lungo da spiegare, portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale.

L’universo tecnico in se stesso non è una brutta cosa, e sono assolutamente contrario a tutte quelle teorie che vorrebbero un ritorno alla carrucola o all’aratro trainato da buoi. Ma la ragione tecnica, posta al centro dell’universo, considerata come l’agente meccanico più importante di una civiltà, finisce per provocare una specie di perversione, al contempo nell’intelligenza e nei costumi, che rischia di portare al fallimento di cui abbiamo parlato. Sarebbe interessante cercare di capire in che modo.

(...) Quali sono, innanzitutto, gli elementi che costituiscono la civiltà europea? Rispondo di non saperlo. Ognuno di noi però ha una prospettiva privilegiata, sentimentale in qualche modo, che d’altronde può essere ragionata e fondata su osservazioni, la quale ci fa preferire uno di questi elementi agli altri. Secondo me, e per una volta potrò rispondere in modo netto, la civiltà europea è in primo luogo una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità delle opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva a una sintesi. In Europa la dialettica vivente è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria ed ortodossa. Il contributo più importante della nostra civiltà mi sembra sia quel pluralismo che è sempre stato il fondamento della nozione di libertà europea. Oggi per l’appunto è questo ad essere in pericolo ed è ciò che bisogna cercare di preservare.

L’espressione di Voltaire che credo dicesse: «Non la penso come voi, ma mi farò ammazzare per lasciarvi il diritto di esprimere la vostra opinione», è evidentemente un principio del pensiero europeo. Non c’è dubbio che oggi sul piano della libertà intellettuale, ma anche sugli altri piani, questo principio viene messo in discussione, viene attaccato e mi sembra che vada difeso. Rispetto alla questione di sapere se alla fine si salverà e se il futuro sarà nostro, come si dice, ebbene a questo tipo di domande rispondo allo stesso modo in cui rispondo ad altre, che pongo a me stesso in situazioni simili. In alcune circostanze, mi sembra che un uomo possa rispondere: «Questa cosa è vera, secondo me, o probabilmente vera. Questa cosa dunque deve vivere. Non è sicuro che io possa farla vivere, non è sicuro che la morte non attenda ciò che mi sembra essenziale. Comunque, l’unica cosa che posso fare, è lottare perché viva».

Penso, che in questa fase l’Europa sia chiusa in un quadro rigido all’interno del quale non riesce a respirare. Dal momento che Atene dista sei ore da Parigi, che in tre ore da Roma si va a Parigi, e che le frontiere esistono solo per i doganieri e i passeggeri sottomessi alla loro giurisdizione, viviamo in uno stato feudale. L’Europa, che ha concepito di sana pianta le ideologie che oggi dominano il mondo, che oggi le vede voltarsi contro di essa, essendosi incarnate in paesi più grandi e più potenti industrialmente, quest’Europa, che ha avuto il potere e la forza di teorizzare tali ideologie, allo stesso modo può trovare la forza di concepire i concetti che permetteranno di controllare o equilibrare queste ideologie. Semplicemente ha bisogno di respiro, di grazia, di modi di pensare che non siano provinciali, mentre al momento tutti i nostri modi di pensare lo sono. Le idee parigine sono provinciali; quelle ateniesi anche, nel senso che abbiamo estrema difficoltà ad avere abbastanza contatti e conoscenze, a contaminare quanto basta le nostre idee affinché si fecondino mutualmente i valori erranti, che sono isolati nei nostri rispettivi paesi.

Ebbene, credo che quest’ideale verso il quale noi tutti tendiamo, che dobbiamo difendere e per il quale dobbiamo fare tutto ciò che è possibile, non si realizzerà subito. La «sovranità» per molto tempo ha messo bastoni in tutte le ruote della storia internazionale. Continuerà a farlo. Le ferite della guerra così recente sono ancora troppo aperte, troppo dolorose perché si possa sperare che le collettività nazionali facciano quello sforzo di cui solo gli individui superiori sono capaci, che consiste nel dominare i propri risentimenti. Ci troviamo dunque, psicologicamente, davanti a ostacoli che rendono difficile la realizzazione di questo ideale. Detto questo, (...) bisogna lottare per riuscire a superare gli ostacoli e fare l’Europa, l’Europa finalmente, dove Parigi, Atene, Roma, Berlino saranno i centri nevralgici di un impero di mezzo, oserei dire, che in un certo qual modo potrà svolgere il suo ruolo nella storia di domani.

La piccola riserva che introdurrò è la seguente. Ha detto che non si può affrontare dal punto di vista intellettuale il problema del futuro europeo, che non ci si può riflettere finché non avremo quella struttura a cui potremo fare riferimento. La mia riserva sta dunque nel dire: dobbiamo comunque affrontare il problema, dare un contenuto ai valori europei, anche se l’Europa non si farà domani. Mi ha colpito l’esempio che ha fatto poco fa. Lei ha sostenuto: «La Germania quando non era unita, non era una potenza». È verissimo. Nondimeno possiamo sostenere che la maggior parte delle ideologie contemporanee si è formata sull’ideologia tedesca del Diciannovesimo secolo, e che tutti i filosofi tedeschi che hanno fatto nascere quella nuova forma di pensiero precedono l’unificazione tedesca, naturalmente se consideriamo che l’unità tedesca si realizza nel 1871. Perciò è possibile influire su una civiltà, anche dallo stato di abbandono e povertà in cui siamo.
Il ruolo degli intellettuali e degli scrittori è in un certo senso quello di continuare a lavorare nel loro ambito, cercando di spingere la ruota della storia se possono farlo e se ne hanno il tempo, affinché al momento dovuto i valori necessari, non dico siano pronti, ma possano già servire come fermenti.

(...) La libertà senza limiti è il contrario della libertà. Solo i tiranni possono esercitare la libertà senza limiti; e, per esempio, Hitler era relativamente un uomo libero, l’unico d’altronde di tutto il suo impero. Ma se si vuole esercitare una vera libertà, non può essere esercitata unicamente nell’interesse dell’individuo che la esercita. La libertà ha sempre avuto come limite, è una vecchia storia, la libertà degli altri. Aggiungerò a questo luogo comune che essa esiste e ha un senso e un contenuto solo nella misura in cui viene limitata dalla libertà degli altri. Una libertà che comportasse solo dei diritti non sarebbe una libertà, ma una tirannia. Se invece comporta dei diritti e dei doveri, è una libertà che ha un contenuto e che può essere vissuta. Il resto, la libertà senza limiti, non viene vissuta e ha come prezzo la morte degli altri. La libertà con dei limiti è l’unica cosa che faccia vivere allo stesso tempo colui che la esercita e coloro a favore dei quali viene esercitata.



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CAMUS E L'IMPEGNO PER IL FEDERALISMO EUROPEO

Pubblichiamo l'introduzione di Alessandro Bresolin al volume di Albert Camus "Il futuro della civiltà europea" (Castelvecchi).

di Alessandro Bresolin, da carmillaonline.com

«L'anno della guerra, dovevo imbarcarmi per rifare il periplo di Ulisse. A quell'epoca, anche un ragazzo povero poteva concepire il sontuoso progetto di attraversare il mare andando incontro alla luce. Ma, allora, ho fatto come tutti. Non mi sono imbarcato. Mi sono messo in fila tra coloro che scalpitavano davanti alla porta aperta dell'inferno». Così nel 1946 Albert Camus ricordava, in Prométhée aux enfers, quell'estate del 1939 in cui voleva avventurarsi in Grecia con degli amici e in cui, invece, il mondo precipitò nel secondo conflitto mondiale.

Da molti anni, quindi, sognava d'intraprendere un viaggio nella culla della cultura mediterranea che quel paese rappresentava. Decise di andarci nel 1955, dopo un lungo periodo per lui estremamente delicato e angoscioso dal punto di vista personale, artistico e politico: il suo disamore per quella Parigi frivola e piovosa dove ormai non voleva più abitare, le aspre polemiche intellettuali sull'Uomo in rivolta, la rottura definitiva con Sartre e il suo progressivo isolamento rispetto al mainstream politico-intellettuale francese, la divisione dell'Europa in blocchi contrapposti e la logica della guerra fredda, la comparsa del Fronte di Liberazione Nazionale in Algeria con l'inizio di un conflitto che per lui rappresentava la realizzazione dell'incubo di tutta una vita. Lacerato dai dubbi, così si esprimeva con l'amico poeta René Char in una lettera del 7 agosto 1954: «le mando un testo, brutto, perché non so più scrivere [...]».

Nel febbraio del 1955 Camus si recò in Algeria, un viaggio che aumentò le sue preoccupazioni, con la politica che cominciava a dividere le amicizie in frontisti e antifrontisti e il dramma del terremoto che qualche mese prima aveva colpito il paese nordafricano. Di ritorno in Francia, riprese a lavorare alla riduzione teatrale del racconto di Dino Buzzati Un caso clinico, che andò in scena il 12 marzo. Quattro giorni dopo, il 16, fu un tragico evento a turbarlo, il suicidio del pittore Nicolas de Staël, presentatogli da René Char. Camus era al limite della depressione e proprio in quell'occasione scrisse una lettera a Char, il 18 marzo 1955, confidando all'amico: «Caro René, non ho dato segni di vita perché, interiormente, sono al limite delle mie forze, e vivo giorno per giorno». Ancora il 26 aprile, giorno in cui doveva partire per Atene, Camus annotò nei suoi Taccuini: «Partenza da Parigi. Afflitto e svuotato d'ogni gioia da X».

Il viaggio in Grecia, dal 26 aprile al 16 maggio, sortì l'effetto catartico desiderato, da subito. Lo si può constatare leggendo i Taccuini, in cui le sue annotazioni passano dalle poche righe laconiche dei mesi precedenti a intere pagine di osservazioni su Atene, Delfi, Sparta, Micene, Salonicco, il Peloponneso, le isole. Rimase estasiato dalla luce, dai colori, dagli odori, dalla natura, dalla socievolezza e dalla mentalità dei greci, così simile a quella che aveva conosciuto in Algeria. Oltre a viaggiare per mare attraverso le isole e a visitare le rovine della Grecia classica, Camus cominciò la sua collaborazione con L'Express, scrivendo un articolo da una Volos distrutta dal terremoto. Si interessò alle deportazioni nell'isola di Makronissos, dando seguito al suo impegno, che nel 1949 l'aveva spinto a sostenere un appello per la liberazione di dieci prigionieri politici greci; non è un caso quindi se negli archivi di Camus è stata trovata una poderosa documentazione su Makronissos e sulle deportazioni.

Progressivamente riprende le forze e a metà viaggio, il 6 maggio, scrive a Jean Grenier, suo ex professore di filosofia: «Avevo bisogno anche della Grecia e di questo senso dello spazio così forte che mi dà. Come un prigioniero, che si ritrova all'improvviso su una nuda montagna che si staglia in cielo aperto. Sì, respiro».

In giro per il paese Camus tenne una serie di conferenze tra cui una dal tema «L'artista e il suo tempo», una intitolata «La tragedia oggi è possibile?» e altre ancora, ma non ne rimangono tracce. L'unico incontro registrato in questo viaggio è quello tenuto il 28 aprile 1955 ad Atene, «Il futuro della civiltà europea», che per noi metaforicamente rappresenta un viaggio nel pensiero di Camus. L'incontro, organizzato dall’Union culturelle gréco-française e presieduto dal professor Catacouzinos, venne pubblicato integralmente nel 1956 dalla Biblioteca dell'Istituto Francese di Atene. Ma ben presto questa pubblicazione cadde nell'oblio. Finché, dimenticati per decenni in uno scatolone all'ambasciata di Francia ad Atene, alcuni esemplari vennero recapitati alla figlia Catherine, che nel 2008 si decise a far inserire il testo nella nuova edizione della Bibliothèque de la Pléiade. Nella Pléiade però è stato pubblicato solo il testo di Camus, mentre sono state tagliate alcune sue risposte brevi, e le domande sono state riassunte in poche righe, rendendo difficoltosa l'analisi del testo.

I quattro partecipanti al colloquio erano nomi di spicco nel panorama culturale greco dell'epoca: Euangelos Papanoutsos, filosofo; Georgios Theotokas, scrittore e saggista, rappresentante della generazione dei giovani arrabbiati degli anni '30 che nel dopoguerra divenne direttore del Teatro Nazionale greco; Phedon Veleris, costituzionalista; Konstantinos Tsatsos, partigiano durante la guerra, che divenne uomo politico “liberale non conservatore” e poi diplomatico. In questa nuova edizione è stata riprodotta l'integralità delle domande e delle risposte, traducendo fedelmente il testo del '56.

La discussione mostra un Camus interessato al presente, alla sopravvivenza della civiltà europea, prima ancora che al suo futuro. Infatti, dopo due guerre mondiali, constata innanzitutto «la strana sconfitta morale di questa civiltà». Bisogna capire da dove viene questa sconfitta, curare le ferite ancora aperte, prima di guardare oltre. Socialista libertario qual era, Camus credeva nel federalismo europeo e mondiale. Per vincere la pace, era convinto che l'Europa dovesse unirsi da subito in un forte modello federale e non in una tiepida confederazione di Stati che lasciava inalterato quell'anacronismo rappresentato dalle sovranità nazionali, soprattutto in un contesto mondiale segnato dall'internazionalizzazione dell'economia. Perciò, distinguendo tra totalità e unità, indica in un'unione fondata sulla misura e sul rispetto delle diversità l'unica speranza per l'Europa.

Camus usava la nozione di misura in modo sistematico e in politica la considerava essenziale per equilibrare e limitare l'un l'altro i due princìpi che tendono fatalmente a cadere in contraddizione, quello di libertà e quello di giustizia. Inoltre, come sostiene in questa conferenza, bisogna tener conto del fatto che «la civiltà europea è innanzitutto una civiltà pluralista. Voglio dire che essa è il luogo della diversità degli ideali, degli opposti, dei valori contrastati e della dialettica senza sintesi. La dialettica vivente in Europa è quella che non porta a una sorta di ideologia al contempo totalitaria e ortodossa».
Perché una civiltà viva, deve rispettare l'individuo. Di conseguenza la difesa del pluralismo sta alla base di un'unità europea rispettosa delle diversità, ma anche di uno sviluppo tecnico e scientifico che non deve atrofizzare lo sviluppo umano e morale.

L'impegno di Camus per il federalismo europeo risale alla guerra e alla Resistenza. Non che prima non si fosse posto questo problema ma, vivendo ad Algeri, l'Europa gli appariva lontana e solo negli anni '40 assunse la consapevolezza di essere europeo. Mentre la Francia subiva l'occupazione tedesca, aderì al gruppo Combat, politicamente molto vicino al Partito d'Azione italiano, e in clandestinità ne diresse il giornale. Il movimento Combat, fondato da Henry Frenay, una delle principali figure del federalismo proveniente dalla Resistenza, affermava fin dai suoi atti fondativi la necessità di creare una federazione europea, unita sul piano giuridico e politico, per garantire la pace e il progresso economico attraverso una democratizzazione delle istituzioni.

Camus concepiva l'Europa come un'unità geografica e culturale, per questo continuava ad esprimere tutta la sua contrarietà alla divisione del continente in aree di influenza, pur consapevole che la storia stava andando in direzione opposta. Come sosteneva nel '47, anziché militarizzarsi l'Europa doveva diventare piuttosto «... una società dei popoli libera dai miti della sovranità, una forza rivoluzionaria che non si appoggia sulla polizia e una libertà umana che non sia di fatto asservita al denaro».

L'unificazione europea era vista come una riforma che andava fatta subito, approfittando della debolezza degli Stati nazionali. Invece nei lunghi anni che trascorsero dalla liberazione, nel 1945, al 1957, anno del trattato di Roma, gli Stati si erano riorganizzati e ristrutturati, arrivando ad accordarsi solo per una blanda unione economica europea. Forse anche per questo, dopo gli entusiasmi federalisti del '44/'48, Camus si allontanò dalla politica europea non commentando nemmeno la notizia del trattato di Roma. La montagna aveva partorito il topolino.

Dal trattato di Roma ad oggi molti passi sono stati fatti, ma di fatto l'Europa è rimasta quella confederazione di Stati sovrani in cui ognuno fa cinicamente la sua politica e porta avanti il proprio sterile patriottismo. Viviamo ancora nell'epoca feudale delle sovranità nazionali. Il processo di unificazione europeo è rimasto un processo monco, non popolare, riservato agli addetti ai lavori e ai banchieri, anziché trasformarsi in quella sinergia creatrice capace di comprendere tutte le sue identità e le sue tradizioni riassunte nella fede nei diritti dell’uomo, nell’incontro solidale e aperto con le altre culture del pianeta. Quindi è ancora attuale quanto dice Camus in questa conferenza, «l'Europa è costretta da una ventina di lacci in un quadro rigido all'interno del quale non riesce a respirare».

(11 novembre 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/camus-e-il-futuro-delleuropa/
« Ultima modifica: Novembre 27, 2012, 05:57:38 pm da Admin » Registrato
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