Legge elettorale, braccio di ferro sul premio di maggioranza.
E Bersani pensa alla lista unica
analisi di Emilia Patta
8 novembre 2012
L'ultima possibilità di fare una riforma elettorale a breve evitando il messaggio alle Camere ventilato dal Capo dello Stato si chiama lodo D'Alimonte, ossia la proposta che il politologo ha lanciato dalla colonne del Sole 24 Ore domenica scorsa: soglia minima per far scattare il premio di maggioranza al 40% - e su questo punto tutti e tre i partiti che appoggiano il governo Monti sembrano essere d'accordo, anche se martedì il blitz Pdl-Lega–Udc in commissione Affari costituzionali del Senato ha imposto una soglia più alta (42,5%) - e premietto di aggregabilità al primo partito nel caso in cui nessuna coalizione raggiunga quella soglia.
Il nodo da sciogliere resta l'entità di questo premietto, che il Pd con il favore dell'Udc vuole al 10% (come indicato nella sua proposta dallo stesso D'Alimonte) mentre il Pdl lo vorrebbe al massimo al 6-7 per cento. «Lo schema è stato trovato, si tratta ora di stabilire le soglie - conferma lo sherpa azzurro Gaetano Quagliariello, che si dice ottimista sulla possibilità di licenziare il testo per l'Aula già martedì prossimo, quando è prevista la prossima riunione della commissione –. Ragioniamo insieme, ma nessuno ha diritto di veto, nessuno può dire o così o pomì».
Il nodo del premietto: 6% o 10%?
Il premietto al 6% o al 10% non è tuttavia dettaglio di poco conto. Significa fare la differenze tra un centro-sinistra potenzialmente autonomo e il Monti bis obbligato. Che è proprio quello che Pier Luigi Bersani non vuole. Il segretario del Pd vede l'accerchiamento di chi, anche dentro il suo partito, lavora a una riedizione della grande coalizione sbarrandogli la strada per Palazzo Chigi, E annuncia barricate: «Sulla governabilità non cederemo mai, così si va dritti alla palude, altro che Monti bis», continua a ripetere ai suoi. Non nascondendo l'irritazione nei confronti di Pier Ferdinando Casini, che votando insieme a Lega e Pdl su un tema così delicato ha prodotto una frattura con il Pd – possibile futuro alleato di governo - che non sarà facile sanare. Il 10% è l'ultima trincea di Bersani per provare a raggiungere Palazzo Chigi. Ma off record Quagliariello fa capire qual è l'aria dentro il Pdl: «Il 10% se lo scordano». Sono in molti a pensare che alla fine l'asticella si fermerà all'8%, e nel Pd ex popolari veltroniani e montiani doc premono affinché il segretario non faccia saltare il tavolo. L'alternativa è il ritorno al voto col vituperato Porcellum o una legge approvata senza e conto il Pd. Le prossime ore saranno dunque decisive, e i contatti tra le segreterie dei partiti e gli "sherpa" sono continui. Entro martedì va trovata la quadra.
La lista unica Pd-Sel-Psi
Intanto a Largo del Nazareno si studia lo schema delle alleanze in base alla legge che sta venendo fuori: per raggiungere il 40% di coalizione, matematica alla mano, è necessario coinvolgere anche l'Udc nell'alleanza con Sel e socialisti. Una soluzione che al momento sembra fantapolitica, ma che a ridosso delle urne potrebbe alla fine rendersi necessaria anche per scongiurare lo spettro di Grillo. Contemporaneamente gli uomini di Bersani ragionano sull'ipotesi di listone unico con Sel e i socialisti (e magari i transfughi dell'Idv di Di Pietro, a partire da Massimo Donadi). Un'unica lista avrebbe il vantaggio di neutralizzare il "pericolo" Vendola agli occhi dell'Udc, spingendo più facilmente Casini verso l'accordo elettorale. E avrebbe poi l'indubbio vantaggio ai fini dell'assegnazione del premiettto nel caso in cui l'alleanza elettorale con l'Udc non dovesse andare in porto: un Pd "rafforzato" dai voti vendoliani e socialisti (e quindi probabilmente oltre il 30%) avrebbe la sicurezza di aggiudicarselo, conquistando almeno la chiave per costruire dopo il voto quell'alleanza di governo con i centristi a lungo ricercata prima. La lista unica dei progressisti avrebbe anche il vantaggio di allontare lo spetto Grillo. Già, perché potrebbe finire come in Sicilia, con il Movimento 5 stelle primo partito. E in questo caso il premietto andrebbe all'ex comico. Consegnando davvero, e senza ironia, il Paese all'ingovernabilità.
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