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Autore Discussione: Sabra e Shatila, la strage 25 anni fa  (Letto 3290 volte)
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« inserito:: Settembre 16, 2007, 07:29:54 pm »

Sabra e Shatila, la strage 25 anni fa

Rachele Gonnelli



BEIRUT -La dottoressa Ang Swee Chai l'aveva visto alla televisione, il massacro di Sabra e Shatila. Era il 16 settembre 1982 e a Londra ne parlavano come di una rappresaglia contro i «terroristi» dell'Olp. La dottoressa Chai, una religiosa metodista, non aveva ragione di pensare diversamente. Se non fosse che quelle immagini al telegiornale facevano vedere così tanti corpi di donne e bambini. Anche loro erano terroristi dell'Olp? Decise di vederci più chiaro e partì.
Arrivò a Beirut passando per Cipro, con gli aeroporti e lo spazio aereo libanese ancora chiuso. La dottoressa Ang Swee Chai è un chirurgo britannico di origini malesi . A vederla sembra una figurina di cartone con lunghissime, sproporzionate, belle mani. La portarono direttamente al Gaza Hospital, un ospedale-bunker fatto costruire da Yasser Arafat. Operò incessantemente per 72 ore prima di riemergere al sole implacabile del Libano.

Perde un poco della sua levità zen nel racconto di quelle gambe da amputare, pance da ricucire, bambini straziati, cancrene, sangue mancante per le trasfusioni. «Fino a quel momento non vedevo di buon occhio l'Olp - ammette - ma in quei giorni ho avuto modo di constatare che era l'unica forma di Stato esistente, gli unici che si occupassero dell'emergenza, della gente». La signora Chai ora sessantenne è tornata solo in questi giorni a Beirut per la prima volta da allora, venticinque anni fa. Ha ripercorso a ritroso quella sua storia accettando la proposta di un documentario sulla quella esperienza del Medial East Concil of Churchs di un giovane regista italiano. E ha partecipato alla delegazione internazionale -composta da italiani, malesi, americani, canadesi -che nei giorni scorsi ha celebrato l'anniversario di quel terribile massacro rimasto a tutt'oggi senza giustizia.

La dottoressa Chai ha anche testimoniato davanti alla commissione d'inchiesta israeliana presieduta dall'ex magistrato della Corte Suprema Kahan che collocò in congedo alcuni ufficiali israeliani implicati nella strage e dichiarò Ariel Sharon responsabile personalmente di ciò che era successo e perciò non idoneo a ricoprire la carica di ministro della Difesa che allora ricopriva. Ma quella commissione non accettò le testimonianze palestinesi e comunque Ariel Sharon nel 2001 è stato investito addirittura della carica di primo ministro.

Nel frattempo i fatti sono stati accertati ma non ancora il numero dei morti. Oltre alle 3100 vittime finite nelle fosse comuni del campo di Shatila, per i palestinesi c'è anche una lista di altri 1987 nomi di scomparsi, persone che come il figlio del signor Kamal che aveva 19 anni e lavorava all'Unicef non hanno mai più fatto ritorno dalla retata del 16 settembre 1982.

Quel giorno di 25 anni fa - nel pieno dell'invasione israeliana del Libano - le milizie cristiane falangiste entrarono nel campo profughi palestinese di Sabra e Shatila e diedero inizio a una mattanza di tre giorni sotto la supervisione dell'esercito israeliano. Quello che inizialmente - come ha ricostruito nel suo ultimo libro il giornalista irlandese Robert Fisk - ai palestinesi sembrava un controllo di massa delle carte d'identità con relativi interrogatori, fu in realtà un calvario di efferatezze. Il 18 settembre, l'ultimo giorno della mattanza, si calcola che almeno mille uomini prelevati dal campo furono concentrati nell'ex stadio della Cité Sportive per un ulteriore «interrogatorio». La maggior parte non ha più fatto ritorno. Le torture, le uccisioni in massa davanti a buche pronte ad accogliere i corpi, furono opera dei falangisti. Ma la direzione delle «operazioni» fu degli uomini dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano. E come testimonia un dispaccio dell'agenzia Associated Press, fu Ariel Sharon il 15 settembre del 1982 a dichiarare che la responsabilità dell'assassinio del capo della Falange libanese, Bashir Gemayel, era da attribuire ai «terroristi dell'Olp».





Celebrazioni a ShatilaNei 12 campi palestinesi in Libano dove attualmente vivono almeno 147mila persone - il 60 percento delle quali sotto la soglia di povertà, senza servizi sanitari, fognature né acqua potabile - si continua a chiedere un processo internazionale contro i responsabili libanesi e israeliani di questo massacro. Ma le autorità israeliane e libanesi non hanno interesse a aprire il loro «armadio della vergogna». E anzi, dopo i fatti recenti del campo di Nahr el Bared, anche i rapporti tra popolazione libanese e profughi palestinesi che si erano riavvicinati durante la guerra contro Israele dell'estate dell'anno scorso, sono di nuovo tesi. «L'unica consolazione - dice un uomo figlio di un «martire» di Shatila interrompendo la commemorazione ufficiale nella Casa dei Figli della resistenza - è che Sharon è rimasto tra la vita e la morte: Dio lo ha punito». Le sue parole sono pacate, senza grida di lotta. Ma si sa che quando la giustizia degli uomini allarga le sue maglie, nel vuoto dove rimane intrappolata la rabbia le erbe cattive hanno molto spazio per crescere.

Pubblicato il: 16.09.07
Modificato il: 16.09.07 alle ore 17.11   
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 22, 2007, 10:09:40 pm »

Libano, tra i profughi dannati due volte

Rachele Gonnelli


La Siria ha riaperto il confine con il Libano pochi giorni fa, 2 giorni prima dell’attentato al deputato falangista Antoine Ghanem. Frontiera chiusa per «motivi di sicurezza» per 4 mesi, dal 20 settembre, all’inizio della tragica occupazione del campo palestinese di Nahr el Bared da parte dei qaedisti di Fatah al Islam. Oltre quel confine hanno riparato - secondo quanto riporta il quotidiano di Beirut an-Nahar 17 mogli di miliziani jihadisti, tra moglie e figlia di Shaker al Abssi, il capo riconosciuto dei ribelli. Un confine che i libanesi temono sia tornato molto permeabile.

Mentre la presenza jihadista è segnalata in tutti i campi palestinesi sia dai capi di Hamas sia da quelli di Fatah. Tanto che anche il contingente italiano Unifil è stato allertato. Si teme un altro scoppio di violenza.
Il campo di Nahr el Bared è solo un cumulo di macerie e palazzi sventrati dai bombardamenti dell'esercito libanese. Un desolante ammasso di detriti e ordigni inesplosi circondato da filo spinato e sacchi di sabbia, presidiato dai soldati e circondato da supermercati e negozi libanesi - «l'indotto» - ormai frequentati solo da militari. Tristissimo luogo. Non soltanto perché nei tre mesi di conflitto armato vi hanno perso la vita quasi 500 uomini: 222 miliziani jihadisti e 170 soldati libanesi e 70 palestinesi inviati dall'Olp per contrastare gli insorti.

Nahr el Bared era, dei 12 campi profughi presenti in Libano, il più «bello». Affacciato sul mare e contornato di vegetazione, con edifici distinguibili gli uni dagli altri e non ammassati quasi avviluppati su se stessi in reticoli di vicoli maleodoranti come in tutti gli altri affollatissimi campi. Nahr el Bared, proprio in virtù della sua vicinanza con la città libanese di Tripoli e il confine nord con la Siria, poteva fregiarsi di avere il mercato più ricco, frequentato anche dalla popolazione libanese. E in più l'indice di istruzione più alta tra i giovani palestinesi, una «merce rara» oramai come indicano le inquietanti statistiche delle ong di Beirut che lavorano in parallelo all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa delle necessità primarie dei palestinesi della «diaspora», la nakba del ’48 e poi l'esodo successivo alla guerra dei Sei giorni nel ’67.

I 30mila abitanti del campo di Nahr el Bared evacuati all'inizio del conflitto armato tra militanti islamici e forze armate libanesi e ammassati nel campo profughi di Beddawi in condizioni disumane vorrebbero far ritorno nelle loro case distrutte. Preferiscono comunque dormire a terra, quaranta persone compresi donne e bambini per ogni classe delle sette scuole del campo di Beddawi dove hanno trovato rifugio piuttosto che trasferirsi nei «provvisori» container dove l’Unrwa vorrebbe dare loro un asilo relativamente più confortevole. O meglio, preferirebbero - appoggiati in questo anche da Hezbollah- che le case di Nahr el Bared fossero ricostruite con fognature e parcheggi, al pari di quanto sta avvenendo nei quartieri rasi al suolo dalle bombe israeliane a sud di Beirut.

La scorsa settimana si è svolto a Beirut un vertice dei Paesi donatori e l'Onu ha chiesto 55 milioni di dollari per la riedificazione di sana pianta di Nahr el Bared. Ma c'è molto scetticismo e poca speranza che questo impegno venga mantenuto. «Ci avevano promesso che avrebbero ricostruito anche il campo di Tal al Zatar - ricorda Nohad Hamad dell'associazione Najdeh contro la violenza domestica e la discriminazione femminile tra i palestinesi - ma poi nessuno ha messo neppure un mattone a terra». In più la sollevazione dei jihadisti di Fatah al Islam ha spaventato i libanesi che in gran parte sono tornati a nutrire una profonda diffidenza verso questi «ospiti» considerati imbarazzanti e pericolosi, soprattutto se concentrati in grandi agglomerati dove l’esercito, in virtù di una accordo del 1969, finora non ha avuto possibiltà di entrare. Ciò che i palestinesi non vogliono in modo perentorio, come del resto gli Hezbollah libanesi, è di abbandonare le armi. «Le armi sono la bellezza dell'uomo», scandisce Sultan Abu al Ainain, capo politico e militare di Fatah nella zona di Tiro, spiegando che qualsiasi tentativo di disarmo delle milizie o di assimilazione della popolazione palestinese non sarà «mai accettato».

Piuttosto, sia Fatah che Hamas - per altro divisi su tutto, anche su come fronteggiare la crisi di Nahr el Bared- si impegnano a ricoprire loro il ruolo di polizia interna ai campi per evitare altri rigurgiti qaedisti. Rigurgiti che sono tutt'altro che scongiurati. Entrambi i due raggruppamenti principali dei palestinesi - Hamas e Olp - pur cercando di sottolineare l'estraneità dei qaedisti di Fatah al Islam dal corpo della nazione palestinese, non nascondono la diffusione delle idee e dei gruppuscoli jihadisti dentro i campi profughi.

Ribadiscono però che la maggior parte dei guerriglieri arrestati erano sauditi, yemeniti, algerini, iracheni, afghani, egiziani, marocchini. C'erano persino un americano, un europeo e un kuwaitiano mentre gli ultimi tre catturati, solo tre giorni fa, tra cui il portavoce di Fatah al Islam, Abu Salim Taha, provenivano dalla Siria. Da un altro campo profughi palestinese in Siria, il campo di Yarmouk distante pochi chilometri da Nahr el Bared al di là del confine dove sono concentrati altri 130 mila profughi della Palestina. E anche tra i 200 palestinesi catturati dopo che il campo è stato espugnato, ancora sotto interrogatorio nelle carceri libanesi, molti ribadiscono da giorni la loro estraneità alla lotta armata nel nome di Osama bin Laden o di Shaker al Abssi, il capo della rivolta dato inizialmente per morto ma poi risultato tra i fuggiaschi grazie al confronto tra il corpo riconosciuto dalla moglie e il Dna del figlio.

«La verità - è la testimonianza di Habir, 26 anni, madre di tre figli ospitata da parenti a Beddawi dopo l'evacuazione di Nahr el Bared - è che stanno arrestando anche persone che conoscevano solo di vista quelli di Fatah al Islam». Habir se li ricorda bene gli uomini di Saker al Abssi. «Era da tanto che circolavano nel nostro campo, venivano a gruppetti, quasi tutti stranieri, avevano molti soldi, dicevano di voler contribuire alla causa palestinese, alleviare le nostre sofferenze, dicevano di essere uomini molto religiosi».

Habir è tesa quando ne parla, la fronte sotto l'hijab marrone - il velo che le incornicia il volto- s'imperla di sudore e si nasconde in una stradina di Beddawi per continuare a parlare. «Li abbiamo accolti. Poi, qualche mese fa, è arrivato un gruppo più grosso e più aggressivo, si sono riuniti tutti e hanno iniziato a circolare molte armi, a quel punto i palestinesi del campo si sono spaventati, hanno cercato di tirarsi indietro ma era troppo tardi. E ora arrestano anche quelli che li salutavano per strada». Habir ha perso tutte le sue cose nel campo di Nahr el Bared, persino i vestiti.

Per lei la nakba, la catastrofica fuga dei palestinesi dalle loro terre, è cominciata con sessant'anni di ritardo, tre mesi fa. E il «diritto al ritorno», concetto di cui per decenni ha sentito parlare dai vecchi dell'Olp che ancora sono a guida dei campi per lei nata ai tempi della guerra civile libanese ora assumono un senso concreto, anche se distorto. La sua storia è quella di profuga di un campo profughi. Una storia che è appena iniziata.

Pubblicato il: 22.09.07
Modificato il: 22.09.07 alle ore 10.24   
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