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Autore Discussione: ALBERTO MINGARDI. Cambiare il modello Italia per non ripetere gli errori  (Letto 2114 volte)
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« inserito:: Aprile 11, 2012, 07:06:54 pm »

11/4/2012

Cambiare il modello Italia per non ripetere gli errori

ALBERTO MINGARDI

Caro direttore,
per il ministro Giarda («La Stampa», 10 aprile 2012) è possibile tagliare la spesa pubblica senza scardinare la «way of life italiana al settore pubblico»: evitando cioè di ridefinire l’ambito d’azione e d’intervento dello Stato.

Questa è stata sostanzialmente la strategia di «risanamento» di tutti i governi degli ultimi vent’anni. Davvero possiamo proseguire su questa strada? E’ difficile rispondere positivamente, se si tiene presente un fatto: non si può «pensare» la spesa pubblica indipendentemente da quelle dinamiche che ne hanno determinato la crescita. La spesa pubblica è allocata in virtù di decisioni politiche. Queste decisioni sono prese sulla base delle necessità di consenso della classe politica. Gli «sprechi» sono storicamente funzionali alle esigenze dei partiti, o di singoli uomini politici, per garantirsi il supporto di determinati gruppi d’interesse.

È la natura dello «scambio politico»: da una parte si mette sul piatto un sostegno concreto, dall’altra la promessa del proprio supporto elettorale. Com’è noto, il debito pubblico italiano sfiora i 2000 miliardi e vale il 120% del Pil. Il patto fiscale europeo, che l’Italia ha sottoscritto, non solo prescrive il pareggio di bilancio ma impone ai Paesi con debito elevato di ridurlo di un ventesimo l’anno, fino a quando esso non avrà raggiunto il 60% del Pil. Lo sforzo richiesto è imponente, soprattutto per il nostro Paese, così come imponente è la grandezza da intaccare: la spesa pubblica primaria è di circa 700 miliardi e, quel che è più grave, pesa circa la metà del Pil.

Pensare di tenere fede ai nostri impegni europei senza ridurre spesa e pressione fiscale significa accettare di continuare a crescere come negli ultimi vent’anni: poco o niente. Per anni la risposta alla domanda «che cosa deve fare lo Stato?» nel nostro Paese è stata «tutto quello che può». Ora che può sempre meno, per forza dobbiamo immaginare soluzioni diverse. Ci sono cose che lo Stato fa e non ha senso che faccia.
Ha senso che esistano ancora cinema e farmacie di proprietà pubblica? Ha senso che alcuni Comuni vendano acqua frizzante alla spina, facendo concorrenza sleale alle bottigliette? Ha senso che lo Stato mantenga 14 fondazioni lirico-sinfoniche, contro i cinque teatri d’opera francesi, anziché far sì che esse dipendano dalla loro capacità di attrarre spettatori? Ha senso che Stato e regioni si dividano una compagnia di navigazione in via di eterna privatizzazione, il cui unico asset pare essere la promessa di sussidi futuri? Ha senso che sia lo Stato a provvedere all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, con l’obiettivo dichiarato di slegare l’entità del premio dal rischio effettivo?

Ci sono altre cose che lo Stato fa e che non necessariamente deve fare da solo. Il fatto che la società voglia sobbarcarsi gli oneri di un determinato servizio, perché tutti ne possano godere, non coincide necessariamente con la necessità di offrirlo in regime di monopolio.
I monopoli legali non sono noti per ridurre i prezzi al consumatore, o per innovare migliorando la qualità dei servizi. E’ proprio chi sostiene che esistono benefici che vanno garantiti a tutti (le cure mediche, l’istruzione), che dovrebbe rifiutare la logica del monopolio. Se questi servizi sono talmente importanti che non possiamo lasciare che nessuno ne resti privo, allora nemmeno possiamo tollerare che essi divengano oggetto di uno scambio politico. Né possiamo accettare che, venendo sottratti alla logica della concorrenza, vedano assieme costi crescenti e qualità declinante. La Lombardia è la Regione la cui sanità attrae più pazienti da altre Regioni, e ha una spesa sanitaria che conta per il 5% del Pil regionale, sotto la media nazionale. E’ anche una Regione nella quale c’è un «quasi-mercato», per cui ospedali pubblici e privati sono in competizione gli uni con gli altri. Questa, per quanto imperfetta, concorrenza (basata sul principio del pagamento a prestazione, identico per strutture statali e di diritto privato) ha contribuito assieme ad elevare la qualità del servizio e a contenere i costi. L’intervento pubblico si dilata sulla base delle esigenze di consenso della classe politica. Il monopolio induce ulteriore inefficienza, per assenza di pressioni competitive. Se sono questi i due fattori che hanno portato alla crescita smisurata della spesa (e, di conseguenza, del debito), non è possibile invertire senso di marcia se non abbandonando la «way of life» italiana. Ciò significa sottrarre i servizi pubblici alla decisione politica e all’arbitrio dei partiti: accettando di introdurre elementi di concorrenza, trasferendo al mercato funzioni che, finché restano statali, verranno sempre usate per distribuire «posti», benefici, favori. L’alternativa è quella proposta da Giarda. Procedere di aggiustamento in aggiustamento, con periodici ritocchi della pressione fiscale verso l’alto. Abbiamo fatto esattamente così, dal ‘92 in avanti. Siamo sicuri di essere contenti del risultato?

L’autore è direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it)

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9980
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