12/4/2012
La "fiesta" è finita adesso abbiamo paura
ENRIC JULIANA*
Gli spagnoli stanno vivendo un brutto risveglio. La «fiesta» è finita in modo brusco e antipatico. La Spagna è l’unico Paese europeo che ha vissuto 15 anni consecutivi - tra il 1993 e il 2008 - di crescita economica come conseguenza di un’accumulazione quasi miracolosa di fattori favorevoli: l’espansione finanziaria internazionale; la possibilità di costruire molti alloggi in un territorio con bassa densità demografica (specialmente nel centro della Penisola); l’attrattività turistica; l’incremento del consumo interno, moltiplicato da un ingresso di massa degli immigrati; un sistema politico decentralizzato che ha facilitato i piani di espansione urbanistica; i generosi aiuti dell’Unione Europea (grazie all’appoggio di Felipe Gonzalez nel 1991 alla riunificazione della Germania); sicurezza giuridica; assenza di cellule importanti di crimine organizzato; un sistema politico stabile e una corruzione di bassa intensità nelle amministrazioni locali. E il credito. Tutto questo ingranaggio «virtuoso» si muoveva infatti grazie al credito estero. La Spagna ha preso molti soldi dall’estero. Le banche tedesche e francesi hanno alimentato generosamente la «fiesta». In questo momento la Spagna ha un debito di 2.900 miliardi di euro, sommando i debiti delle imprese, delle famiglie e dello Stato.
Ci sono tre differenze sostanziali con l’Italia. La prima: la parte principale del debito corrisponde alle imprese e alle famiglie e in misura minore allo Stato (il debito pubblico spagnolo, pari all’80% del Pil, è inferiore a quello italiano). La seconda: il debito pubblico è contratto con l’estero, mentre in Italia sono le famiglie che possiedono una parte significativa dei titoli di Stato. La terza: alla Spagna manca un distretto industriale forte come quello del Nord Italia. Cosa è successo? Potremmo descriverlo con l’immagine seguente: una Ferrari a tutta velocità in autostrada che si ferma perché ha finito la benzina. Improvvisamente, il Paese si è fermato. Gli italiani hanno rallentato poco a poco, gli spagnoli stanno cadendo dal sesto piano. E ora stanno per sbattere al suolo. Se cadono in piedi, si faranno molto male alle gambe, ma sicuramente sopravviveranno. Se cadono di testa, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Per la Spagna e per tutta l’Unione Europea. Ancora non si sa come cadranno.
Nei suoi primi cento giorni di governo, il Partito popolare ha confidato nella sua forza di «Partito Alfa» della democrazia spagnola: il più forte, il più votato dopo il temendo deterioramento di Zapatero, e il più connesso con la classe media. Dopo aver vinto le elezioni legislative, il Partito popolare voleva conquistare l’Andalusia, la regione più popolosa del Paese e vera roccaforte del Partito Socialista, per disporre di un’egemonia quasi assoluta (messa in discussione soltanto dai catalani e dai baschi). La gente del Sud, timorosa di perdere i sussidi e il suo modesto benessere, ha inclinato l’ago della bilancia in favore dei socialisti e dei comunisti. La foto della «Andalusia ribelle» ha debilitato l’immagine di Mariano Rajoy davanti ai mercati finanziari. Il Partito popolare non è così forte come si pensava. Gli spagnoli sono sulla difensiva. Per la prima volta, dopo molto tempo, hanno paura. Temono l’impoverimento e i fantasmi della storia. La Spagna, tuttavia, è un Paese forte che è migliorato molto. Sia materialmente che culturalmente. Pertanto, due linee si incrociano: la paura di una vertiginosa decadenza e la forza accumulata. Non sappiamo a che punto queste due linee finiranno per incontrarsi. Nessuno lo sa. E questo è un problema per l’Europa. Anche per l’Italia.
(*) vicedirettore de La Vanguardia
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