STORIA
Il male consapevole
Di Giulio Busi
12 agosto 2017
Karl Adolf Eichmann, responsabile del dipartimento del Reich preposto alla deportazione e liquidazione degli ebrei, la “soluzione finale”
Il filo è color del buio, nero su nero. L’ago entra a fatica, la stoffa è pesante, spessa, livida. Immaginatevi un enorme arazzo, fatto di infinite bugie, tenuto assieme da altrettante menzogne, che copre tutta una vita. Come un metodico, lugubre sarto, Adolf Eichmann ha passato la propria esistenza a cucire falsità. Ipocrisie da quattro soldi, o fandonie enormi, spudorate.
Bettina Stangneth, che su Eichmann ha scritto un vasto, doloroso libro, ha pazienza da vendere. Solo con molta forza, diremmo con rabbia, si riesce a strapparlo, questo ricamo-menzogna. Alla fine di 600 pagine, quando si ripone il volume, non si può certo essere sereni. Ma si ha la sensazione di aver condiviso qualcosa di vero. “La verità del male”, appunto, come afferma il titolo della traduzione italiana. Il rovesciamento della fin troppo celebre “Banalità del male” di Hannah Arendt è eloquente, così come è chiaro che il dossier Eichmann, già ricchissimo di libri e articoli, spesso di ineguale valore, andava riaperto ancora una volta.
L’uomo che emerge dalla requisitoria della Stangneth, scritta con il piglio dell’indagine giudiziaria, non è certo un grigio esecutore di ordini. La passività non è che l’ultima, sapiente finzione durante il processo. Davanti ai giudici israeliani di Gerusalemme, Eichmann è falsamente banale. Che sia una recita, lungamente preparata, e condotta con uno stupefacente talento di attore, lo dimostra tutta la sua storia precedente, e in particolare quella degli anni in Argentina, che viene ricostruita nel volume con un’incrollabile fede nel dettaglio. Una fiducia largamente ripagata dai risultati, e indispensabile, vista la cura maniacale di Eichmann per ogni minimo particolare.
Dalla sua ascesa nei ranghi delle SS, all’organizzazione dello sterminio di massa degli ebrei, fino alla fuga in Sud America e agli anni di occultamento, Eichmann non lascia nulla al caso. Registra, valuta, tiene appunti, studia, riassume. È uno scrittore compulsivo, capace di riempire un’infinità di carte con la sua scrittura trasandata e quasi illeggibile. Soprattutto, gli piace parlare. E su questa passione di Eichmann per lo sfogo si basa in buona parte il lavoro di Stangneth.
Il fulcro della ricerca è costituito dalle cosiddette “Carte argentine”. Il dossier, sparso in tre raccolte d’archivio, contiene le trascrizioni delle registrazioni eseguite durante una serie di incontri presso l’abitazione del giornalista Willem Sassen, oltre ad annotazioni di Eichmann e a una prima bozza di un suo libro dal titolo programmatico: «Gli altri hanno parlato, ora voglio parlare io».
Solo le trascrizioni occupano un migliaio di pagine, e costituiscono una straordinaria testimonianza sulla Shoah. Peraltro, si sono conservati anche alcuni nastri dei colloqui, con circa 29 ore di registrazione, che permettono di farsi un’idea del metodo e dell’affidabilità della versione scritta rispetto al parlato.
A partire dall’aprile 1957, un gruppo di uomini di mezza età s’incontra, il sabato e la domenica, in un’elegante casa di Buenos Aires. È un ambiente signorile, «pieno di libri, dischi in vinile, arte, quadri e mobili europei». E anche gli invitati sono persone distinte. Ad accomunarli è la nostalgia del passato, e una fede tenace, che non ammette dubbi. Tutti quei signori perbene sono nazisti, hanno ricoperto ruoli importanti nel Terzo Reich e non si considerano affatto ex. Se si riuniscono, è per parlare di storia, e discutere delle prime pubblicazioni accademiche sull’annientamento degli ebrei. Lo fanno con la serietà di un affiatato club di lettura. Tengono a turno brevi relazioni, dopo essersi documentati diligentemente. Eichmann è ospite di riguardo, poiché è l’unico che conosce a fondo i meccanismi della “soluzione finale”. Lì, fra camerati, il responsabile del dipartimento del Reich preposto alla deportazione e liquidazione degli ebrei può finalmente dare la propria versione dei fatti. Questa massa imponente di discorsi, tenuti in un ambiente amichevole e non di fronte a un tribunale, documenta l’abilità di Eichmann nel controllare le situazioni, con una cinica mescolanza di descrizioni brutali, che scendono nei dettagli dello sterminio, e coscienti falsificazioni, volte a ingannare e disorientare gli interlocutori. È un Eichmann sicuro di sé, preciso e tagliente nelle argomentazioni, che non perde occasione per sottolineare l’importanza del proprio ruolo e l’efficienza con cui lo ha ricoperto. Quello che gli preme maggiormente, è dimostrare che, nella guerra totale contro il nemico, il suo contributo non è stato inferiore a quello dei comandanti al fronte. Gli ebrei inermi non sono infatti, ai suoi occhi, nemici meno pericolosi degli eserciti avversari, e vanno “vinti”, nel modo più veloce e radicale possibile. In una conversazione, arriva a sostenere che l’Ungheria, vale a dire le deportazioni di massa di oltre quattrocentomila persone nel giro di poche settimane, è stato il suo capolavoro: «È stata davvero una grande impresa, mai registrata né prima, né dopo». In simili affermazioni, che tornano con insistenza, non c’è traccia del passivo burocrate che andrà in scena al processo di Gerusalemme. E anche quando parla di ordini superiori, lo fa rivendicando la propria partecipazione consapevole: «solo un nemico del Reich morto era un buon nemico. In particolare devo aggiungere che quando ho ricevuto un ordine l’ho sempre eseguito a fianco del carnefice e di questo sono orgoglioso ancora oggi».
Questo è l’uomo. Lucido, coerente con sé stesso, incapace di prendere le distanze dai propri comportamenti, di provare il pur minimo pentimento. «Per me era del tutto indifferente» - fa notare in un altro punto, con disinvoltura - «dove andassero a finire gli ebrei, per me avrebbero potuto anche marciare fino al Madagascar, per me sarebbero potuti andare da Globocnik per essere gassificati, per me sarebbero potuti andare ad Auschwitz, o anche a Riga...».
Siamo abituati a pensare al male come assenza e privazione. Mancanza di bene, morte della pietà. Eichmann prima di Gerusalemme, che riaffiora dal libro di Bettina Stangneth con la sua voce, nei giudizi, negli scatti d’insofferenza, nei melliflui distinguo, non è una pura negazione. Pensa di poter tornare presto in Germania, magari di venir processato, ma è sicuro di potersela cavare con una condanna lieve. Tra le Carte argentine c’è addirittura la bozza di una sua lettera al cancelliere Adenauer, firmata col proprio nome. Il male è tenace, sfrontato, vero.
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