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Autore Discussione: Enrico Marro - Inflazione e tasse pesano, busta paga ferma da dieci anni  (Letto 2595 volte)
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« inserito:: Dicembre 22, 2011, 12:29:40 pm »

Approfondimenti - Retribuzioni e potere d'acquisto

Inflazione e tasse pesano, busta paga ferma da dieci anni

Si accentua la distanza tra i redditi. Solo per il fisco persi duemila euro


ROMA - Le retribuzioni dei lavoratori italiani sono basse e tartassate. Negli ultimi 15 anni hanno perso terreno nei confronti internazionali. E la differenza tra i salari più ricchi e quelli più poveri è aumentata. Adesso, poi, con l'inflazione che ha ripreso a correre e con la stangata Monti appena decisa, la perdita di potere d'acquisto rischia di essere pesante. Partiamo dai raffronti con gli altri Paesi, utilizzando i dati 2010 dell'Ocse, l'organizzazione dei Paesi più industrializzati. L'Italia si colloca al 22esimo posto su 34 nella classifica dei salari netti: 25.155 dollari (19.350 euro al cambio di ieri). Mille euro in meno della media Ocse e quasi 4 mila in meno della media dell'Ue a 15. Nel Regno Unito la retribuzione netta è stata di 11 mila euro superiore a quella media italiana. In Germania hanno preso quasi 5 mila euro in più che da noi, in Francia 2 mila e perfino in Spagna ci hanno superato di circa 1.500 euro. L'Italia è comunque ultima per livello di salario netto tra i Paesi del G7.

Volete una spiegazione? Ce ne sono tante, ma una la fornisce la stessa Ocse, mettendo a confronto il livello di imposizione fiscale (tasse e contributi) sugli stipendi. L'Italia si colloca al quinto posto su 34, con un prelievo del 46,9% misurato sulla retribuzione media di un lavoratore single senza figli. Ci battono, nell'ordine, solo Belgio (55,4%), Francia (49,3%), Germania (49,1%) e Austria (47,9%). Invece, Spagna, Olanda e Danimarca stanno intorno al 38-39% e il Regno Unito al 32,7%. Se poi si mettesse a confronto il prelievo su un lavoratore con carichi familiari è probabile che la posizione dell'Italia peggiorerebbe, per esempio rispetto alla Francia che ha il Fisco col quoziente familiare.

Questa la fotografia attuale, ma la cosa che preoccupa di più, osserva Carlo Dell'Aringa, uno dei massimi esperti della materia, è che «negli ultimi 10-15 anni la posizione relativa dell'Italia è peggiorata. È aumentato cioè il divario rispetto a Regno Unito, Germania, Francia e Olanda. Il motivo è che la produttività è rimasta quasi ferma, mentre altrove è aumentata». Dal '96 a oggi le retribuzioni lorde sono rimaste al palo. Scrive la Banca d'Italia nell'ultima relazione annuale: «Nel settore privato tra il 1996 e il 2010 le retribuzioni reali di fatto per unità di lavoro sono aumentate dello 0,7% all'anno, quelle contrattuali dello 0,4%». Ma nell'ultimo anno è venuta meno anche la tenuta rispetto all'inflazione ufficiale. Gli ultimi dati dell'Istat, riferiti al terzo trimestre del 2011 segnalano che nei confronti dello stesso periodo del 2010 le retribuzioni lorde sono aumentate dell'1,4%, cioè meno della metà rispetto ai prezzi (l'inflazione ha raggiunto il 3,3% a novembre). Inoltre, secondo l'Ires-Cgil guidato da Agostino Megale, il fiscal drag , cioè le maggiori imposte che si pagano per effetto dell'aumento nominale dei redditi, ha sottratto ai salari lordi più di 200 euro all'anno dal 2000 al 2010. E nel 2011, secondo l'Ires, uno stipendio medio perderà circa 260 euro di potere d'acquisto rispetto all'inflazione e 306 euro a causa del fiscal drag : in tutto 566 euro.

L'inflazione e il cosiddetto cuneo fiscale, dunque, hanno un peso nel far perdere terreno ai salari, già tradizionalmente bassi in Italia, a causa della struttura produttiva dominata dalle piccole e piccolissime imprese. Sempre l'Istat osserva che «i lavoratori dipendenti delle microimprese (meno di 10 addetti) percepiscono una retribuzione annua pro capite di 18,4 mila euro, il 65,6% di quella percepita in media dai dipendenti delle imprese con 250 addetti e oltre (28,1 mila euro). Il differenziale retributivo medio legato alla dimensione aziendale è riscontrabile in tutti i macrosettori di attività economica». Le imprese con più di 250 dipendenti sono appena 3.502 su un totale di 4,3 milioni. Quelle con meno di 10 addetti 4,1 milioni. La dimensione media delle aziende italiane è di 3,9 addetti. Il valore aggiunto pro capite nelle microaziende è di 24 mila euro, in quelle con più di 250 dipendenti è invece di 60 mila euro. Eccolo il legame tra salari e produttività.

A questa situazione di base, già svantaggiata, si somma una scarsa crescita della produttività, in parte riconducibile proprio al nanismo imprenditoriale, in parte ad altri fattori. Spiega Dell'Aringa: «Il basso andamento dei salari riflette a posteriori la dinamica della produttività. Si tratterebbe invece di legare retribuzioni e produttività ex ante, attraverso una contrattazione più efficiente. In altre parole, se i lavoratori, azienda per azienda, sanno che producendo di più guadagneranno di più, questo può innescare un comportamento virtuoso che farà crescere la produttività e quindi i salari». È un po' quello che è successo in Germania e negli altri Paesi dove la contrattazione aziendale è sviluppata e c'è una maggiore partecipazione dei dipendenti ai risultati dell'impresa. Ci sono poi almeno altri due fattori che svantaggiano l'Italia nei confronti internazionali. 1) I maggiori costi dei servizi pubblici e privati alle imprese: dai trasporti alla giustizia, dall'elettricità alla burocrazia. 2) Un livello di istruzione della manodopera inferiore alla media dei Paesi Ocse e con una formazione spesso non in linea con le richieste delle imprese.

Per rimettere in moto la produttività bisogna quindi agire su più fronti, attraverso riforme strutturali, accompagnate da una contrattazione più moderna e partecipativa. Più produttività significa più salario. A patto però che il prelievo fiscale e contributivo non aumenti e che l'inflazione venga tenuta sotto controllo. Questo per la media dei lavoratori. Ma c'è un'emergenza che riguarda i precari e più in generale i poor workers , quelli con retribuzioni povere e instabili che si allontanano sempre più dai lavoratori più ricchi. Il salario medio del 10% più ricco nel nostro Paese, dice l'Ocse, è oltre 10 volte quello del 10% più povero: 49.300 euro contro 4.877, e il divario è aumentato rispetto agli anni Novanta, quando era di 8 a 1. Secondo il 12° Rapporto sulle retribuzioni in Italia 2011 di OD&M, effettuato elaborando le retribuzioni di un campione di 700 mila lavoratori, i dirigenti guadagno in media 106.886 euro lordi, i quadri 53.585, gli impiegati 27.009, gli operai 21.793. E, «con riferimento ai primi 6 mesi del 2011, solo i dirigenti hanno avuto un aumento del proprio potere d'acquisto».

Il problema dei poor workers, dice Dell'Aringa, va affrontato con decisione, facendo costare di più determinate forme di rapporto di lavoro abusate dalle aziende: «Mi riferisco alle false partite Iva, alle false collaborazioni e ai falsi stage. Bisogna aumentare i contributi sui lavori precari con un unico committente e forse bisogna pensare a un salario minimo. Eppoi, si devono mandare anche i carabinieri». Solo così le aziende non troveranno più conveniente mascherare dietro rapporti di lavoro autonomo o di collaborazione quelli che sono invece lavoratori subordinati a tutti gli effetti. Eliminati gli abusi, bisogna «non toccare forme contrattuali che funzionano, come l'apprendistato, il lavoro interinale e i contratti a termine, che hanno tutte le garanzie del caso e spesso sono un trampolino verso i contratti a tempo indeterminato». Per questi ultimi, conclude Dell'Aringa, bisogna rilanciare la produttività, ridurre la differenza tra lordo e netto, tagliare quindi il cuneo fiscale e gli altri costi. Tra questi ultimi ci sono anche quelli dei licenziamenti. Ma tagliarli non è il toccasana.

Enrico Marro

22 dicembre 2011 | 10:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_dicembre_22/marro-inflazione-tasse-busta-paga_97d727ae-2c6a-11e1-a06d-72efe21acfe6.shtml
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 07, 2012, 10:22:14 pm »

L'INTERVISTA

Mastrapasqua: «Pensioni e giovani, rivedere gli ammortizzatori sociali»

Il presidente dell'ente di previdenza: il SuperInps sarà la casa del welfare, la prima fusione pubblica


ROMA - Da ieri è partita una riforma delle pensioni senza precedenti. Ma non ci avevate spiegato che il sistema era in sicurezza e che stavamo meglio degli altri? Non era vero.
«Nessuno di noi - risponde il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua - immaginava che nel 2011 avremmo fatto 4-5 manovre né quello che si è scatenato sui mercati finanziari internazionali. Non dobbiamo poi dimenticare che da molti anni l'economia italiana non cresce abbastanza e questo, alla lunga, mina i conti della previdenza perché si hanno meno occupati e meno entrate contributive di quanto sarebbe auspicabile».

Da ieri sono sparite le pensioni di anzianità: non bastano più 35 anni di contributi, ma ce ne vogliono 42, che saliranno fino a 45 nel 2050. Imprese, lavoratori, il sistema Italia è pronto a una rivoluzione del genere?
«Intanto la novità si farà sentire nel 2013, perché quest'anno andranno in pensione coloro che hanno maturato i requisiti nel 2011 e dunque con le vecchie regole. Per il resto, come ha detto lo stesso ministro del Lavoro, Elsa Fornero, alla riforma delle pensioni non può che seguire a stretto giro di posta la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Mi pare che il governo sia già al lavoro su questi temi».

Che cosa bisognerebbe fare?
«In un sistema che prevede da un lato l'allungamento dell'età pensionabile e dall'altro il metodo di calcolo contributivo bisogna far sì che i lavoratori abbiano carriere contributive piene, soprattutto per i giovani».

Molti si chiedono se i giovani non avranno meno occasioni di lavoro adesso che si ridurranno i flussi di pensionamento.
«Vari studi, in particolare sui Paesi del Nord-Europa, mostrano che a un aumento dell'età pensionabile non corrisponde una diminuzione del lavoro per i giovani. Anzi si crea un circolo virtuoso, con i lavoratori più anziani che diventano tutor di coloro che entrano in azienda. Sono Paesi con un più alto tasso di occupazione, che sostiene la crescita dell'economia e delle occasioni di lavoro. Dobbiamo andare in questa direzione».

Parliamo di un paio di problemi sorti con la riforma. Il primo riguarda i dipendenti pubblici e i lavoratori autonomi. Perché per loro non vale l'attenuazione dello scalone che è stato deciso per i lavoratori precoci del privato, cioè la possibilità di andare in pensione a 64 anni se si raggiunge quota 96 nel 2012?
«Andrebbe chiesto al Parlamento, perché la norma è nata ed è stata votata lì. Credo che su questo lo stesso Parlamento, se lo riterrà opportuno, potrà intervenire».

Il secondo problema riguarda i lavoratori che si sono dimessi o sono stati licenziati fuori da accordi sindacali e che ora rischiano di restare senza stipendio e senza pensione per anni. I sindacati parlano di decine di migliaia di casi. E' esatto?
«Il numero ancora non lo conosciamo, ma abbiamo avviato un monitoraggio per avere le dimensioni del problema. Il presidente del Consiglio, Mario Monti, ha assicurato che il governo vuole occuparsi di queste persone».

A proposito di persone: veniamo agli ammortizzatori sociali. Da tre anni la cassa integrazione è su livelli record, con circa un miliardo di ore autorizzate all'anno. Come andrà il 2012?
«Nel 2011 c'è stata una flessione del 20% delle ore autorizzate, mentre quelle effettivamente utilizzate sono il 46%. C'è una lenta inversione di tendenza che penso sarà confermata nel 2012».

I sindacati sostengono che in molte aziende scadrà la cassa integrazione e si rischia la disoccupazione di massa.
«Qualsiasi allarme in questo campo va valutato con attenzione. Posso dire che per il 2012 intanto ci sono gli stanziamenti per gli ammortizzatori e che in caso di scadenza della cassa ordinaria e straordinaria può intervenire la cassa in deroga a prorogare i sussidi».

Cambiano le pensioni e cambia l'Inps, nel senso che diventa SuperInps, inglobando Inpdap (l'ente dei dipendenti pubblici) ed Enpals (sport e spettacolo). Perché questa fusione?
«Il percorso era già stato avviato con la manovra estiva del precedente governo. Il decreto Monti la rende operativa. Dal primo gennaio 2012 Inpdap ed Enpals sono soppressi. L'obiettivo principale è razionalizzare e riorganizzare gli enti di previdenza per fornire un servizio migliore agli utenti. Dovremo mettere insieme dai sistemi informatici alle sedi periferiche per arrivare a una "casa del welfare" diffusa sul territorio dove lavoratori, pensionati e aziende possano trovare tutti i servizi».

Ma come farà se i vertici, i dirigenti e dipendenti degli enti soppressi non l'hanno assolutamente presa bene?
«Le leggi sono fatte per essere eseguite. Sono certo che ci sarà la massima collaborazione. Sicuramente la volontà del presidente dell'Inps, che ora è presidente di un ente nuovo figlio della fusione con Inpdap ed Enpals, è di adempiere al mandato ricevuto dal governo e dal Parlamento e di portare a compimento questa che è la più grande operazione di integrazione tra enti pubblici mai fatta in Italia. Terrò conto di tutte le voci, ma nessuno pensi che questa operazione si possa fermare davanti a ostacoli burocratici o freni e paletti vari. Il Paese non si può più permettere di decidere una cosa e poi non farla. Si farà una fusione vera e non un'operazione gattopardesca: il cittadino non ce lo perdonerebbe».

Come fa a procedere alla fusione se la legge dice che i presidenti e i Civ (consigli di indirizzo e vigilanza) di Inpdap ed Enpals restano in carica fino a quando i ministeri non emaneranno i cosiddetti decreti regolamentari?
«Gli organi, dice la legge, avranno competenza sui bilanci 2011 da presentare entro marzo. Gli ultimi separati, perché il bilancio 2012 sarà un bilancio unico. Passato marzo sono sicuro che i ministeri vigilanti faranno i decreti che determineranno la decadenza degli organi dei vecchi enti. Fino al quel momento sono sicuro che ci sarà una leale collaborazione con loro».

Quanto si risparmierà col SuperInps?
«Venti milioni il primo anno, 50 il secondo e 100 dal terzo in poi. Risparmi che si sommano a quelli già raggiunti negli ultimi anni con le sinergie avviate dai tre enti».

Quanti dipendenti avrà e quanti lavoratori in esubero ci saranno in seguito alla fusione?
«L'Inps ha 27.640 dipendenti, l'Inpdap 7.093, l'Enpals 355. In tutto avremo 35 mila dipendenti. I lavoratori iscritti saranno più di 23 milioni, le prestazioni più di 21 milioni, e tra entrate e uscite movimenteremo oltre 700 miliardi di euro all'anno. Non ci sono esuberi, perché gli enti hanno meno dipendenti di quanti previsti dalle piante organiche. Anche i 700 ex portieri dell'Inpdap di cui si è parlato recentemente sono stati ricollocati in altri lavori e non dovrebbero essere considerati esuberi».

Possibile che si mettano insieme tre enti che fanno le stesse cose e non ci siano duplicazioni dei posti di lavoro?
«Consideri che solo dall'Inps escono ogni anno per andare in pensione 1.200-1.300 dipendenti. E già da anni abbiamo una forte carenza di personale. Con la fusione potremo utilizzare al meglio i dipendenti di tutti e tre gli enti. A questo proposito voglio lanciare un messaggio chiaro a tutto il personale: io non immagino il SuperInps, ma un nuovo Inps. Nessuno pensi, anche nel mio istituto, che ci sia qualcuno che ingloba qualcun altro. Non ci sono annessioni. Ci sarà un unico ente, dove tutti i dipendenti saranno considerati alla pari e misurati sul merito, sulle capacità e le risposte che daranno ai cittadini, non sulla base dell'ente di provenienza».

Nel decreto non c'è solo il SuperInps ma anche la proroga del suo mandato per altri due anni e mezzo, fino alla fine del 2014. Sarà a capo di questo megaente mantenendo anche i 24 incarichi che ha in società pubbliche e private? Non crede ci possano essere conflitti d'interesse?
«Non ci sono conflitti d'interesse né dal punto di vista delle norme né dal punto di vista sostanziale».

Enrico Marro

2 gennaio 2012 | 8:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_gennaio_02/pensioni-e-giovani-rivedere-gli-ammortizzatori-sociali-enrico-marro_1a2f6528-3511-11e1-a9e9-f391576f69b4.shtml
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