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Autore Discussione: ANTONELLA RAMPINO -  (Letto 7220 volte)
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« inserito:: Dicembre 27, 2007, 10:55:14 am »

27/12/2007 (8:13)

"Berlusconi corretto, Prodi da sfiduciare"
 
Intervista a Lamberto Dini

ANTONELLA RAMPINO
ROMA


Lo scriva, lo scriva: il governo Prodi è uno specchietto per le allodole, è Prodi e non Berlusconi a fare del male al Paese». Sostiene ancora una volta Lamberto Dini che così non va.

Senatore, lei dice che non è soltanto Prodi a poter fare il presidente del Consiglio. Che cosa intende dire?
«Il presidente del Consiglio ha voluto accusare il presidente Berlusconi di destabilizzare il Paese. Io noto che Berlusconi fa il mestiere del capo dell’opposizione, e può legittimamente aspirare a guidare l’Italia».

Così lei si espone all’accusa di difendere Berlusconi...
«Non difendo Berlusconi, ma non è lui a destabilizzare l’Italia. Tra l’altro l’opposizione in Parlamento sulla Finanziaria si è comportata assai correttamente. E’ Prodi a destabilizzare l’Italia, perché è al 25 per cento dei consensi».

E dunque se ne deve andare?
«Ho detto a più riprese che il degrado, il declino, la mancanza di fiducia nelle istituzioni, l’antipolitica, il populismo sono segnali del tessuto sociale che si allenta pericolosamente. Per ricostruire la fiducia occorre un governo di larghe intese, che raccolga tutte le forze vive della nazione, politiche, imprenditoriali e intellettuali. Un governo che tra l’altro si sarebbe dovuto fare all’indomani delle elezioni, e che non si fece perché non sarebbe stato Prodi ad averne la guida».

E oggi da chi potrebbe essere guidato? Casini ha fatto esplicitamente il nome di Mario Draghi, e la Banca d’Italia ha fatto spesso da «riserva della Repubblica»...
«Non faccio nomi, le personalità sono tante. E’ prematuro parlarne, e l’indicazione è del Capo dello Stato, ascoltate tutte le forze politiche. Ma non è solo l’opposizione che desidera che questo governo se ne vada: sono gli italiani a chiederlo».

Questi però sono gli stessi argomenti di Berlusconi. E in molti dal centrosinistra le chiedono di dimettersi, per queste sue prese di posizione.
«E’ il governo che ha perso il consenso dei cittadini a doversi dimettere. Sono i governi che si dimettono, non i parlamentari». Ma un governo può dimettersi se viene meno la fiducia in Parlamento, o se viene meno una forza politica della maggioranza. Lei, senatore Dini, è nelle condizioni di far cadere Prodi a Palazzo Madama. Lo farà? E su quale provvedimento? «Sinora non si è verificata né l’una né l’altra delle condizioni che lei diceva, per senso di responsabilità sulla Finanziaria e sul Welfare. In quell’occasione, alla vigilia di Natale, abbiamo anche detto che quella fase della vita politica è finita».

Dunque lei farà cadere il governo Prodi?
«Io non voglio far cadere Prodi, voglio bonificare la sua azione politica, voglio misure intese a rilanciare la crescita. Perché l’Italia è il fanalino di coda in Europa, a rischio declino? Le politiche fatte sin qui sono sbagliate».

Lei parteciperà alla verifica dell’azione di governo il 10 gennaio?
«Non so se parteciperemo. Nel caso, diremo che la nostra ricetta per il Paese non è quel che Prodi va annunciando. E’ assolutamente irritante che per sopravvivere dica che ridurrà l’Irpef: quando lo fa questo? A partire dal 2009, quando ha già per legge l’obbligo di ridurre la spesa corrente di 10 miliardi di euro? E dove troverebbe le risorse per il taglio delle tasse? E’ un velleitario, un disperato, fa specchietti per le allodole. E le allodole sono i cittadini, i contribuenti, i lavoratori. Tant’è che il ministro dell’Economia ha annunciato che non ha allo studio alcuna misura di questo tipo».

Il 22 gennaio voterà la fiducia a Tommaso Padoa-Schioppa?
«La voterò, ma solo perché a dover essere sfiduciato è Prodi, non il ministro dell’Economia. Si votasse una fiducia al governo, Prodi rischierebbe molto».

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 19, 2010, 06:43:27 pm »

19/3/2010 (7:Fico  - GIUSTIZIA E POLITICA

Vendola: rispetto la magistratura «Il voto non verrà influenzato»

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Solidarietà, e anche dolore personale per Frisullo e gli altri, privati della libertà personale. Ma, dice il governatore della Puglia Nichi Vendola, «chi abbia commesso reati nell’esercizio dei pubblici poteri e uffici deve assumersi le proprie responsabilità».

L’arresto di Frisullo influenzerà il voto in Puglia?
«No, non penso possa modificare l’orientamento degli elettori. Perché io non ho inseguito i miei assessori proteggendoli dalle inchieste. Non ho fatto come il presidente della Lombardia Formigoni, che ha solidarizzato col suo assessore Prosperini sin sulla soglia del patteggiamento di pena. Al primo stormire di fronda, ho chiesto alla coalizione di centrosinistra un’assunzione di responsabilità, e abbiamo agito con grande rigore».

Ma c’è interferenza, a suo avviso da parte dei magistrati?
«La macchina della giustizia riguarda responsabilità e reati di singoli. La politica deve invece autonomamente monitorare la legalità e l’etica pubbliche. E’ questa la sfida, nella nuova questione morale».

Il centrodestra parla di inchieste a orologeria.
«La magistratura ha chiesto l’arresto di Raffaele Fitto e arrestato Sandro Frisullo, e va rispettata nei giorni pari e nei giorni dispari, quando le inchieste sembrano un vantaggio politico e quando portano la scoperta scabrosa di cosa c’è nei dintorni del proprio schieramento politico».

Lei parla di etica pubblica. Al di là dei reati, c’è un profilo che riguarda Frisullo non dissimile dallo scandalo sui festini nelle residenze private di Berlusconi.
«E’ quello che mi ha colpito la scorsa estate. Mi sono trovato come uno spettatore di fronte a una performance imprevista: il mio vicepresidente sospettato sui mass media di rapporti amicali con un imprenditore privato, Tarantini, che offriva escort come moneta di scambio. L’autodifesa di Frisullo fu immediata, con un’intervista dal titolo eloquente, “A me piacciono le donne”. Quando in questione c’era l’etica pubblica, non un orientamento sessuale. Per me il sipario su Frisullo calò in quel momento, in maniera irreversibile, anche sul piano politico. Non sono un carabiniere o un pm, non voglio le prove dei reati. Sono un politico, e la politica deve ritenere inaccettabile anche solo l’insorgenza di una filosofia del malcostume».

Infatti, lei ha dimesso con grande scalpore tutta la giunta. E’ vero che ricevette pressioni dal Pd per mantenere Frisullo al suo posto?
«No. Non ebbi alcun contatto col resto del mondo in quei giorni. Ero all’estero, tornai e convocai la giunta, comunicando subito la revoca per fatti di fronte ai quali dovevamo offrire una reazione etico-politica, e non limitarci alla parabola del Vangelo, e considerare pagliuzze le nostre, di fronte alle travi del centrodestra. Anche se a quel momento c’era solo un ex assessore alla Sanità ufficialmente indagato, dovevamo lanciare un messaggio forte: non minimizzare, non evocare complotti, ma affrontare la questione morale, opacità e corruttela che cingono d’assedio sistemi di potere come quello sanitario».

Lei ha ammesso che la bonifica è lunga e complessa.
«La sanità è una flotta di sommergibili stabili nei fondali oceanici dell’amministrazione pubblica. Abbiamo cominciato a portarli in superficie. Ora abbiamo il data base dei privati che operano nel settore, e sono possibili verifiche. Abbiamo regole nuove per gli appalti e formazione. E sono in rete tutte le delibere della giunta. Abbiamo cominciato dalla trasparenza».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 10, 2011, 11:46:47 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 21, 2010, 11:43:07 am »

21/11/2010 - VENTI DI CRISI - INTERVISTA

Veltroni: "La Lega è cambiata, vuole Tremonti premier"

Walter Veltroni, ex leader Pd, propone per Palazzo Chigi «una persona non al centro delle polemiche di questi mesi»

«Anche loro hanno capito l'inadeguatezza di Berlusconi»

ANTONELLA RAMPINO

Berlusconi non sarà più il candidato del centrodestra. E' la Lega che lo dice, Roberto Maroni ha indicato come “ideale” un governo guidato da Tremonti, precisando che occorre però passare per le elezioni. Siamo dunque di fronte a quella che è di gran lunga la più importante novità politica degli ultimi mesi, perché le parole di Maroni significano che il Pdl si prepara ad andare alle elezioni con Tremonti, invece che con Berlusconi, come presidente del Consiglio. Il ciclo berlusconiano è davvero finito». Da qualche tempo, da quando la stella di Berlusconi si è fatta calante senza che questo comportasse per il Pd un simmetrico risorgimento, Walter Veltroni è tornato.

Sicuro che la Lega cambi cavallo? Non teme che la crisi di governo sia già finita, che la somma dei tatticismi di Fini non produca una strategia, che tre settimane in attesa del voto di sfiducia servano a radicare Berlusconi a Palazzo Chigi?
«Il governo giace in una situazione di morte non accertata, nell'incapacità di affrontare anche uno solo dei problemi dell'Italia. Berlusconi è intento piuttosto nei suoi propri problemi, come impegnato a mantenere il suo governo in coma vegetativo. Lei mi telefona da Lisbona, giusto? Ebbene, l'intollerabile ritardo del presidente del Consiglio allo storico vertice in cui la Nato muta i propri obiettivi e chiude la fase della Guerra Fredda è proprio la simbolica e concreta dimostrazione di quello che le dicevo. Il governo Berlusconi è imploso nei suoi problemi ».

Eppure, Veltroni, sembra che i leader del mondo siano assuefatti almeno quanto la pubblica opinione italiana.
«Non credo affatto che gli italiani siano assuefatti. Berlusconi sa che la sua credibilità è in caduta libera. L'Italia non è in un limbo, è in un passaggio cruciale. Che il presidente del Consiglio sia arrivato con un ritardo di un'ora e un quarto a un vertice internazionale di quella portata, e per sedare le ire anche giuste di un suo ministro, è il segno di uno sfarinamento che non riguarda più solo il governo, ma direttamente l'inner circle berlusconiano, al quale appartiene Mara Carfagna. E quelle parole di Maroni pronunciate in contemporanea dimostrano che anche la Lega è in un passaggio di fase, che neanche la Lega è più in grado di reggere la totale inadeguatezza di Berlusconi e di un governo che va avanti solo per l'ostinazione dello stesso Berlusconi. Nei prossimi giorni, come sempre accade con la Lega, assisteremo a frasi di circostanza, ad apparenti correzioni di tiro. Ma la tendenza è chiara, la Lega conosce l'insofferenza del proprio elettorato per la situazione nella quale siamo».

Sta dicendo che il Pd dovrebbe dare il suo assenso a un eventuale governo tecnico a guida Tremonti?
«Ci vuole un governo che chiuda l'esperienza fallimentare del centrodestra e ne apra un'altra. Da mesi sostengo che non possiamo andare ad elezioni anticipate. Non ce lo permette la crisi internazionale, la speculazione finanziaria, il fatto che prossimamente dovremo varare una manovra da 25-30 miliardi. Occorre non un ribaltone ma un governo di responsabilità nazionale, come fu quello di Ciampi nel ‘93. E certo, un governo di questo tipo è tanto più forte quanto più è indipendente dagli schieramenti il nome della personalità che lo guida. Sarebbe giusto scegliere una persona che non sia stata al centro delle polemiche di questi mesi. E ce ne sono. Il nome di chi lo guiderà è comunque nelle esclusive prerogative del presidente della Repubblica. Alla sua saggezza ci si può certo affidare, da parte di tutti i partiti».

Con o senza un governo di transizione, si dovrà arrivare comunque ad elezioni anticipate, e nascerà un Terzo polo. Lo dice anche l'Economist, con la fine del berlusconismo finisce anche il bipolarismo italiano, finisce quel «sogno di due grandi forze politiche» che proprio lei, Veltroni, aveva coltivato fondando nel 2008 il Partito democratico.
«Il bipolarismo non è bipartitismo, ma la prevalenza di due partiti o coalizioni. E' così anche in Inghilterra, dove accanto alle due forze prevalenti ne esistono altre, che oggi partecipano anche al governo. L'evoluzione del sistema politico italiano dovrà tendere comunque a due grandi coalizioni che nascano su un nuovo patto per la scuola, per il lavoro, per l'impresa, e non sul Lodo Alfano e le leggi tagliate su misura di uno solo».

E' pentito di aver chiuso nel 2008 con la sinistra, e di aver stretto invece un'alleanza con Di Pietro? Oggi il Pd soffre la concorrenza di Vendola, lo addita come se, portando l'orecchino, non potesse ambire a cariche nazionali, e lui per tutta risposta si accredita a Washington con John Kerry...
«L'esperimento dell'Unione e del governo Prodi, con i ministri della sinistra che manifestavano contro il loro stesso esecutivo, e con Bertinotti che lanciava bordate contro Prodi, si è chiusa nel 2008. Oggi, se Vendola cresce e raccoglie consensi, non possiamo che esserne felici. Non ho nessun problema se a sinistra del Pd c'è una forza politica creativa e disponibile ad un governo riformista che raccoglie consensi del 6, anche dell'8 per cento. Ma questo è utile solo a condizione che il Pd riesca a coprire l'intera area di centrosinistra, ritrovando la propria identità, recuperando il proprio elettorato deluso per la mancata modernizzazione, e quel 34 per cento di gradimenti che aveva. La vocazione maggioritaria del Pd è la vera condizione per un riformismo che possa vincere le elezioni e dar vita a quel sogno realistico di cui ha giustamente parlato sul vostro giornale Luigi La Spina. Ciò che l'Italia non ha mai conosciuto: un ciclo di profonda e radicale innovazione riformista».

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/375890/
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 13, 2011, 11:31:06 am »

Esteri

13/04/2011 - OGGI A DOHA I NEGOZIATI

Libia, la sfida diplomatica

Pressing sull'Italia: ora bombardi

Il capo del Pentagono chiede maggior impegno. La Russa: "Riluttanti non per motivi etici"

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Un maggior impegno militare dell’Italia nelle operazioni in Libia, a cominciare dalla possibilità che i nostri aerei bombardino obiettivi durante le missioni della Nato, come sin ora pare non abbiano mai fatto, è stato chiesto a Silvio Berlusconi, in due diverse telefonate che il premier ha ricevuto da David Cameron e da Nicolas Sarkozy sei giorni fa. Ma come, ha risposto il presidente del Consiglio italiano, «col nostro passato in Libia dobbiamo bombardare?». Un’analoga richiesta era stata avanzata anche da Hillary Clinton a Franco Frattini, nella sua ultima visita a Washington. E da Robert Gates ieri al telefono col ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Siamo riluttanti, e non per motivi etici», ha risposto la Russa all’americano, che vedrà poi lunedì prossimo negli Usa. Ma intanto, la Difesa ha annullato la cena con Gèrard Longuet e Liam Fox, omologhi di Francia e Inghilterra, ed è l’unica pausa del vertiginoso pressing politico-diplomatico che ha avuto Roma come oggetto.

Ma quando La Russa arriverà al Pentagono, la Nato che sino a ieri non aveva ancora inoltrato richiesta agli americani di tornare in prima linea nelle operazioni in Libia, avrà già preso le proprie decisioni. Per ridefinire la strategia, date anche le pressanti richieste del governo provvisorio della Cirenaica, c’è oggi la riunione a Doha della guida «politica» delle operazioni, e da domani fino a venerdì un vertice straordinario dell’Alleanza transatlantica a Berlino. Non a caso Frattini, alle parole di La Russa, precisa che «sulle operazioni in Libia deciderà il governo», ma aggiunge, significativamente, «e anche la Nato». Perché poi, per quanto Berlusconi possa aver preso tempo con Sarkozy e Cameron, e per quanto La Russa ne rifletta simmetricamente le titubanze, se la Nato dovesse decidere un maggior coinvolgimento dei Paesi di «Unified Protector», impegnati a far applicare la risoluzione 1973 dell’Onu, noi di certo non potremmo sottrarci: si tratta del rispetto di un Trattato internazionale - e di che Trattato - cui l’Italia è legata sin dalla sua fondazione. E al Quirinale, nel Consiglio Supremo di Difesa sulla Libia, Napolitano vincolò il governo al rispetto operativo di ogni decisione multilaterale. Frattini, dal proprio canto, tende ad escludere che l’Italia possa partecipare alle operazioni di terra fosse pure solo per difendere Ong e corridoi umanitari, se la Nato dovesse mettere in campo anche la «ground option», e lo fa usando lo stesso argomento che il collega La Russa mette in campo per dribblare i bombardamenti: «Non possiamo, dato il nostro passato coloniale in Libia». Argomenti che il ministro degli Esteri ha usato anche con William Hague a Londra, trovando comprensione, secondo fonti diplomatiche: di fatto, l’Italia ha compiuto negli ultimi giorni un vero e proprio road show nel tentativo di evitare un maggior impegno militare. Che ieri però chiedevano anche due esponenti di primo piano del Consiglio di Bengasi, il premier Jabril e il capo delle forze armate Younnis, e che venerdì il presidente Jalil ripeterà a tutti gli interlocutori italiani: Napolitano e Berlusconi, oltre allo stesso Frattini. E prima ancora il Cnt avrà fatto sentire la propria voce a Doha: via dalla scena Gheddafi, un punto sul quale il governo di Bengasi ha polemizzato ieri con l’Unione africana rea di non aver trattato questo punto nella recente visita al Colonnello, e poi una Costituente con l’Italia impegnata proprio sull’«institution building». L’Italia, dice Frattini, «darà al Cnt tutto l’appoggio per ottenere nuovi riconoscimenti politici», e punta a mettere in contatto gli uomini di Bengasi direttamente con la Nato. Sperando così di riuscire ad evitare un maggior impegno militare.

da - lastampa.it/esteri/
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 03, 2011, 10:36:36 am »

Politica

03/07/2011 - INTERVISTA

Scajola: "Garantisti, ma non si può coprire ogni nefandezza"

«Ci vuola una Costituente del partito, Alfano ha ripreso la mia proposta» l'onorevole Claudio Scajola

L'ex ministro: nessuno pensi di profittare delle vicende di Berlusconi

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Onorevole Scajola, dove è andato a cena, la sera dell’investitura di Alfano a segretario del Pdl?
«A Imperia, nel giardino di casa mia, con mia moglie. Perché me lo chiede?».

Per capire se con l’invenzione di un segretario si placheranno le lotte di potere tra le correnti del Pdl. Ufficialmente vietate ma, come disse lo stesso Berlusconi, riconvertite in cene e incontri. E’ così, o Alfano darà via libera alle aggregazioni, secondo una buona vecchia regola democristiana?
«Leggende. Il partito era oggettivamente in difficoltà, dopo la fase transitoria del predellino che non ha portato a una vera organizzazione, e non c’era possibilità di discutere se non in cene o in qualche fondazione».

Come la sua, intitolata a Cristoforo Colombo.
«Sì, buon’ultima... Il partito ha bisogno di discutere di politica. La verità è questa, e il Consiglio nazionale lo dimostra: c’erano tutti, nonostante il caldo, e con un chiaro spirito unitario...».

Lei però non ha applaudito.
«Io ero tra Cicchitto e la Polverini, e ho applaudito tutti i passaggi di rilievo del discorso di Angelino, ritrovavo nelle sue parole i passaggi salienti della lettera che gli avevo mandato. Anche quella sui miei applausi è una leggenda metropolitana. La verità è che in tantissimi sentivamo l’esigenza di costruire un partito vero».

Con o senza correnti?
«Le correnti non sono un fatto positivo. Lo sono solo in un partito incapace di affrontare il dibattito politico interno. Quello che ieri ha disegnato Angelino, e che appartiene anche a me, è un Pdl con regole interne, luoghi di incontro e discussione, elezione dei dirigenti dal basso, e fine dei raccomandati... Guai a un partito in cui il dissenso fosse proibito: la grandezza della Dc era proprio la garanzia di rappresentanza per le minoranze interne».

Però l’altro giorno, di fronte all’unico astenuto, la reazione non proprio democratica di Denis Verdini è stata: identifichiamolo.
«Secondo me, quel voto contrario era stato chiesto proprio da Angelino!».

Non eluda il nodo.
«Il nodo è il partito. Io sono molto soddisfatto, e sono quello che fu accusato di voler fare un partito pesante. Adesso, il partito c’è».

Non è presto per dirlo?
«Alle parole devono seguire i fatti, certo. Ma non è un caso che Berlusconi abbia indicato Angelino, e che Angelino abbia fatto quel discorso impegnandosi davanti a tutti. Adesso il percorso deve essere includente».

E i coordinatori? Berlusconi aveva detto che sarebbero stati cancellati, e invece restano lì, base di un vertice con Alfano in cima.
«Diamo il tempo ad Alfano di esprimere il proprio progetto: scriverà un manifesto e lo presenterà sul territorio. Ponderando il rapporto tra iscritti ed eletti in modo che non ci sia il partito delle tessere. I coordinatori avranno comunque un ruolo, non si caccia nessuno. Hanno lavorato bene in un momento difficile».

Sembra abbia vinto Liberamente, gruppo guidato da Frattini. Al quale Alfano è vicino, e al quale si è da poco avvicinato anche lei.
«Alfano non ha mai aderito ad alcun gruppo, e non credo che abbia trionfato nessuno».

Tremonti sconfitto, però.
«Una leggenda anche questa».

Berlusconi ha fatto un mezzo passo indietro?
«Ha fatto un atto di coraggio, invece dell’ après moi le déluge ha indicato una via di crescita. Non è andato in pensione, e ci mancherebbe dato il consenso che ha, ma ha aperto una strada. Per la prima volta si può parlare di prospettiva dei moderati. Una mossa importante quasi quanto la scesa in campo del ’94».

Lei sa che la modifica apportata allo statuto fa sì che Alfano non sia un vero segretario politico, dato che sarà sempre Berlusconi a decidere, e non gli organismi del Pdl? La nomina a segretario, in democrazia, è elettiva e contendibile.
«Sono d’accordo con lei. L’altro giorno abbiamo solo modificato lo statuto in modo da poter avere un segretario politico. Un primo passo, una ripresa di iniziativa. Ma concordo con lei che lo statuto va rifatto, con nuove regole per una vera elezione del segretario. Ci vuole una Costituente del partito, Alfano nel suo discorso ha ripreso questa mia proposta».

Poi c’è il programma. Alfano ha detto che il Pdl deve essere il partito degli onesti. E accanto aveva mezza P3 e P4. Lei stesso è stato indagato, e si è dimesso da ministro.
«Dobbiamo essere garantisti. Ma il garantismo non è impunità, il garantismo non può essere inteso come copertura di ogni nefandezza. Specie in un momento difficile nei rapporti tra politica e magistratura come questo, con i processi che finiscono per il 50% con assoluzioni, e ricordando la caduta per via giudiziaria della Prima Repubblica, garantismo vuol dire tre gradi di giudizio. Ma nessuno può pensare che di fronte ai processi di Berlusconi ognuno possa fare come vuole e che tutto venga giustificato. Non dobbiamo e non possiamo delegare ad altri la valutazione sulla fedina penale dei nostri candidati».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/409769/
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 10, 2011, 11:44:44 am »

Politica

10/08/2011 - INTERVISTA

Ciampi: "A rischio il modello economico dell'Occidente"

L’ex presidente della Repubblica e padre fondatore dell’euro: "C’è un difetto di capacità governativa.

Occorre un ministro europeo dell’Economia"

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Ho visto che ancora oggi il buon Trichet ha fatto un intervento, molto duro, contro i governi che non fanno quel che devono». La voce del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi è dolce e colloquiale, ma suona nitida la preoccupazione. Che si allenta solo quando, al telefono dalla consueta vacanza nelle Alpi attorno a Siusi, dice «anche Juncker è nelle montagne italiane, lo scrivono adesso le agenzie di stampa». Non sfugge nulla, al Presidente emerito della Repubblica italiana, della tempesta finanziaria senza precedenti che scuote le due sponde dell’Atlantico. E che rischia di mettere a repentaglio l’euro di cui, con Helmut Kohl, Ciampi è il padre.

Presidente, lei è stato il primo a parlare, anni fa, della «zoppia grave e preoccupante» dell’Europa, ad avvertire che era pericolosa quella mancanza di coordinamento nella politica economica e di sviluppo. Adesso quella zoppia è diventata epocale, e zoppicano anche gli Stati Uniti, il motore dell’economia occidentale...
«E’ vero, sono tutte mancanze emerse ormai da anni. Dalla creazione dell’euro, si può ormai dire. Io dissi della zoppìa come di una cosa ovvia, e lo dissi anche in Parlamento. I responsabili politici che decisero l’istituzione dell’euro erano consapevoli che il sistema avrebbe avuto stabilità solo se accompagnato dalla costituzione di un centro di governo di politica economica. Invece, alla creazione di una moneta unica europea impostata come moneta di uno Stato federale si è risposto addirittura con la mancanza di collaborazione sul piano economico da parte degli Stati».

E’ a rischio il modello economico dell’Occidente, il capitalismo?
«E’ un pericolo che esiste».

E’ troppo tardi per rimediare?
«Troppo tardi è solo il titolo di un vecchio romanzo. Ma certo la crisi viene da lontano. All’inizio, nel 2008, sembrava interessare solo gli Stati Uniti. E invece si è progressivamente estesa all’intero sistema finanziario internazionale e alle economie della maggior parte dei Paesi industrializzati. E nonostante i numerosi interventi, né gli Stati Uniti né l’Eurozona riescono a superare quella che è la più grave fase di recessione dalla fine della Seconda guerra mondiale. La più grave per intensità, per durata, per gli effetti sulle politiche economiche e sociali, e per la tenuta dei governi di fronte alla difficoltà di definire strategie operative in grado di invertire l’andamento ciclico negativo».

Eppure, per quel che riguarda l’Italia, la Bce ha indicato all’Italia misure immediate. Ma Roma deve meritarsi quell’intervento di Francoforte a sostegno del debito pubblico?
«Mi pare che prima di ottenere gli aiuti dagli altri occorra anzitutto aiutarsi da sé».

Ma non è inusuale, pur se consona alla gravità della situazione, la lettera di «consigli» che Trichet e Draghi hanno inviato al governo italiano?
«Francamente, non so. Non si parla di ciò che non si conosce, e io la lettera non l’ho letta, ho solo visto lanci d’agenzia di stampa e articoli di giornale. Ma Trichet ha anche invitato gli Stati a creare un fondo di stabilizzazione, l’ha fatto duramente, e ha fatto bene».

E i governi d’Europa recalcitrano...
«Il punto è che davanti a una situazione di crisi epocale, strutturale, mancano provvedimenti strutturali. C’è un evidente scompenso tra diagnosi e terapia. E bisognava muoversi prima, rimediare a quella zoppìa. Ero convinto che una nuova generazione di governanti considerasse l’Europa come riferimento naturale, e che conseguentemente venissero adottate politiche istituzionali, economiche, sociali dirette a rafforzare l’Unione, nella consapevolezza che solo un’Europa più coesa e prospera può salvaguardare se stessa e le nazioni che la compongono. E invece alcuni Paesi hanno creduto che la soluzione di problemi antichi potesse essere realizzata trasferendone, sia pure in parte, il costo sugli altri Paesi. Hanno temuto di dover condividere con altri il benessere ottenuto grazie all’operosità e all’ingegnosità dei propri cittadini».

Ce l’ha anche lei con Angela Merkel, recalcitrante ad aiutare Grecia e Italia e che, secondo alcune indiscrezioni della stampa tedesca, ha provocato così la delusione di Helmut Kohl?
«C’è un difetto di capacità governativa. Chi più chi meno, magari un po’ meno il governante tedesco e di più l’italiano o lo spagnolo, ma hanno tutti mancato. E continuano a mancare. Lo si vede bene nell’emergenza, ma è un atteggiamento che viene da lontano. Governanti non lungimiranti che hanno assecondato timori, egoismi e populismi, spegnendo la spinta ideale di Adenauer, Monnet, De Gasperi, e poi di Schmidt, Mitterrand, Delors e Kohl. Helmut Kohl aveva le idee chiare, e modi di intervento adeguati e decisi. Fummo noi, insieme, a permettere il decollo della moneta unica e dell’Europa quando si trattò di fare l’euro».

Lo decideste in una storica conversazione del 1993, e senza pensare al consenso immediato, guardando con lungimiranza al futuro dell’Europa. Lo sa che c’è chi sostiene che se in questa crisi l’euro saltasse in fondo l’Italia starebbe meglio?
«Di stupidi ce n’è tanti. Stupidi, intendo, perché non competenti. Torniamo agli Stati nazionali? Benissimo, vediamo se si vive meglio o peggio, vediamo tra le singole nazioni quali ce la fanno e quali no... Ma è la zoppìa dell’Eurozona, la mancata realizzazione di un centro di governo della politica economica di tutta l’area dell’euro ad aver provocato la crisi di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. E’ quello il punto da affrontare. E subito».

Serve un ministro dell’Economia europeo?
«Lo si chiami come si vuole, ma occorre un coordinamento della politica economica dell’Eurozona. Dobbiamo ricordarci sempre che se abbiamo un’Europa di pace è perché abbiamo un’Europa unita. L’Europa divisa, l’Europa della mia generazione, è un continente di guerre. Sono nato alla fine della Prima guerra mondiale e avevo vent’anni quando è scoppiata la Seconda. Non lo posso, e non lo voglio dimenticare. Le guerre non si combattono solo con le armi. Abbiamo fatto l’euro perché abbiamo vissuto la tragedia della guerra, ma anche la contrapposizione ideologica e militare che seguì, e che divideva gli Stati e i popoli».

Oggi tuttavia l’euro è a rischio. Quali sono i suoi consigli?
«A 91 anni, vivo ormai da lungo tempo lontano dalle decisioni operative. I governi e l’Europa decideranno. Ma di certo, in Europa come negli Stati Uniti, occorrerà ragionare con mente fredda e operare. Mai pensando al consenso politico immediato».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415221/
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:26:15 pm »

Politica

11/08/2011 - INTERVISTA

"Le elezioni anticipate? Un pericolo per il Paese"

Per Walter Veltroni occorre andare con decisione verso gli Stati Uniti d'Europa

Veltroni: l’Europa si svegli, altrimenti rischiamo di perdere tutto

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

L’ Europa è fragile. Carlo Azeglio Ciampi ha indicato con nitidezza questo drammatico passaggio». Che Walter Veltroni apprezzi Ciampi non è una novità: fu lui, da segretario dei Ds, a costruirne la candidatura al Quirinale. Ma condivide, e rilancia, analisi e preoccupazioni.
«L’Occidente e l’Europa sono in una crisi allarmante per assenza di crescita, per il fortissimo indebitamento degli Stati Uniti e di alcuni Paesi come l’Italia, e per la disoccupazione ormai a due cifre, una vera bomba sociale. Per giunta il Welfare non regge, in tempi di invecchiamento demografico, scavando le crepe della democrazia. Siamo immersi in una crisi che richiede risposte coraggiose e innovative. L’Europa non può rimanere sospesa, senza una compiuta unità politica. Occorre muoversi subito. E non stupirsi, se il presidente della Bce invia una lettera a Berlusconi e ad altri governi».

Ma Berlusconi non farebbe bene a renderla nota? Trichet ha detto di considerarla pubblica...
«Io continuo a sperare che Tremonti, in Parlamento, ce ne renda noti almeno i contenuti. E spero anche di ascoltare da lui un discorso di verità, che smetta come ha fatto per questi lunghi anni di sottovalutare la crisi, di sostenere che l’Italia è al riparo, che tutto va bene. Ora si è vista qual è la realtà, la durissima realtà. E serve da parte di maggioranza e opposizione un’assunzione di responsabilità. Non dobbiamo avere paura del futuro, o continuando a guardarci indietro resteremo di sale».

Ma voi del Pd siete divisi. Lei chiede un governo istituzionale, «alla Ciampi», e Bersani le dimissioni di Berlusconi e le elezioni.
«Mi pare che tutto il Pd oggi chieda un governo istituzionale, con passo indietro di Berlusconi. Precipitare nelle elezioni, e per giunta con il rischio di attacchi speculativi, sarebbe pericoloso per il Paese».

E l’Italia deve stare ben ancorata all’Europa...
«Anche all’Europa serve uno scatto di reni, o verranno giù le architravi, a cominciare da quella monetaria. L’Italia dovrebbe essere in prima linea nel chiedere una politica economica e sociale comune, e anche l’elezione diretta del capo del governo europeo: che quella di Van Rompuy non sia una carica a suffragio diretto ne indebolisce l’autorevolezza e il peso. Dobbiamo andare con decisione verso gli Stati Uniti d’Europa. E invece, sembra che cerchiamo scorciatoie per l’inferno: all’attacco all’euro, reagiamo alzando le spalle».

Con un rischio in più, se salta l’euro: sono possibili anche in Italia rivolte come quella di Londra?
«Devo citare nuovamente La Stampa per l’intervista a Zigmut Baumann, così significativa. Spiegava che le rivolte di Londra fanno aumentare il Pil, mentre la solidarietà tra i cittadini lo fa diminuire. Dobbiamo rovesciare le nostre categorie di pensiero, le gerarchie sociali, le priorità. Come scriveva Emilio Sereni, il ’68 fu il frutto della rivoluzione scientifica e tecnologica, dell’urbanizzazione e del diffondersi della tv. Di lì nacque una potente domanda di innovazione. Oggi invece abbiamo de-industrializzazione, precarizzazione della vita, l’incubo delle banlieus, e il social network. Non l’assalto al cielo, ma al televisore al plasma. Il qui e subito dei bisogni materiali, senza ambizioni di cambiamento. E la lentezza della democrazia è pericolosa, a fronte della velocità con cui si muove la società. Basti pensare alla farraginosità della soluzione per la Grecia, allo scontro per evitare il default degli Stati Uniti. Tanto che, davanti alla fatica della democrazia, c’è chi ammira l’autoritarismo vestito di immediatezza decisionale dei vari Putin. E invece, il principale agitatore di antipolitica è la politica stessa, con la sua corruzione, macchinosità, privilegi... La semplificazione e la trasparenza della vita pubblica è un bisogno primario della democrazia, e la politica dovrebbe afferrare questo tema. Per questo, ribadisco la mia proposta: si abbini al pareggio di bilancio il dimezzamento dei parlamentari. In 91 giorni si può approvare. E occorre abolire le provincie e nuove norme sull’incompatibilità e contro la corruzione. Solo partiti più leggeri e aperti salveranno la politica».

C’è stato l’incontro con le parti sociali, andato per ora a vuoto, ed è alle viste la manovra-Bce. Quale linea deve tenere il Pd, secondo lei?
«Equità e giustizia sociale sono l’identità del Partito democratico. In una crisi, chi ha di più deve dare di più. Il Pd deve essere determinato in questa direzione, ed essere al tempo stesso la forza del rigore.

C’è un nuovo Ciampi, in Italia?
«Eccome. Ce n’è più di uno. E sceglierlo spetta, se riterrà, al Presidente della Repubblica».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415330/
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 12, 2011, 09:05:17 am »

Politica

12/08/2011 - IL CASO

I paletti di Napolitano "Non rompere la coesione sociale"

Oggi l'incontro con il presidente della Camera Fini

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Agire con efficacia, rapidità e giustizia sociale. Giorgio Napolitano imprime una svolta alla tentennante gestione della crisi, e prende l’iniziativa. Anticipa il rientro dalle brevi vacanze a Stromboli e convoca al Quirinale Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. E poi, a ruota, Pierluigi Bersani e Pier Ferdinando Casini. Stamattina, vedrà Gianfranco Fini. Con Renato Schifani c’è invece una telefonata, dopo la quale il presidente del Senato fa sapere che a Palazzo Madama si è pronti a discutere un decreto del governo subito dopo ferragosto. Con gli interlocutori di ieri, e soprattutto col governo, la sostanza del ragionamento è stata: «Abbiate il coraggio di agire».

Napolitano imposta una serie di consultazioni la cui geometria ricorda inevitabilmente quella che precede un mandato esplorativo.
La Terza carica dello Stato viene ricevuta separatamente dagli altri due leader dell’opposizione. Ma non si tratta di una crisi di governo. Si tratta di qualcosa di peggio, di una crisi dell’Italia. E bisogna fare in fretta, «agire rapidamente», non solo per il bene sostanziale del Paese, poiché dal punto di vista del fronteggiare i mercati il tempo si è fatto già breve, e da un pezzo. Ma anche per l’orgoglio patrio: per evitare che siano ancora Merkel&Sarkozy, il duo trainante di Eurolandia, a prendere decisioni al posto dell’Italia.

Agire rapidamente, evitando che siano Francia e Germania ad obbligarci a rimettere a posto i nostri conti pubblici. E dunque varare il decreto prima di quel fatidico 16 agosto in cui il presidente francese e la Cancelliera si incontreranno a Parigi, avendo proprio in agenda quel problema.

Agire infine con efficacia, e dunque Napolitano si è fatto carico di incontrare le opposizioni. Casini ha già mostrato senso di responsabilità, che il capo dello Stato assai apprezza.Ma quanto è disposto a fare in nome della coesione nazionale il Pd? Mossemeditate durante la brevissima feria eoliana, trascorsa per sua stessa ammissione per la buona metà al telefono con Roma, seguendo passo passo
l’evoluzione della crisi. E il filo diretto, continuo e ormai consueto è conMario Draghi. La roadmap della giornata comincia infatti proprio con Mario Draghi che incontra Silvio Berlusconi. Il governatore della Banca d’Italia aspetta a Palazzo Chigi che il presidente del Consiglio lasci Palazzo Grazioli, dove abitualmente risiede e opera.

Draghi perora la necessità, l’inevitabilità di un’azione rapida ed efficace del governo italiano. Sono trascorsi troppi giorni, dalla lettera che Banca centrale europea e Banca d’Italia, Trichet e Draghi, hanno inviato al Berlusconi e a Tremonti, senza che fosse presa la benchéminima decisione.Mezz’ora, e il colloquio termina.MaDraghi, riferiscono fonti politiche, continua a tessere al telefono con l’opposizione, a cominciare da Bersani e Casini.Un lavoro di concerto, quello del Presidente e del Governatore, perché quei «consigli » della Bce non restassero solo sulla carta. E spingendo a non rompere l’unità delle parti sociali.

Il paletto del Quirinale è proprio questo: il governo deve impegnarsi «a non rompere l’unità delle parti sociali ». Come dire: niente riforma dello Statuto dei Lavoratori, e niente cancellazione dell’articolo 18. Niente mano libera sui licenziamenti, tema spinoso che rischia di far saltare il tavolo concertativo, e che al solo riapparire nella discussione ha già fatto infuriare la Cgil come la Confindustria. E poi, «è un tema nemmeno citato nella famosa lettera della Bce», riferisce un banchiere centrale.

Quella lettera, piuttosto, spingeva il governo italiano a tutelare giovani e precari. Consigliando semmai maggiore flessibilità del lavoro, ma alla Spagna di Zapatero. Non all’Italia di Berlusconi.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/415477/
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 04, 2011, 05:16:23 pm »

Economia

04/09/2011 - IL CASO

Quelle parole a Trichet per rassicurare l’Europa

Dietro il monito, il timore di nuovi contraccolpi finanziari

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Nel caos della manovra l’Italia rischia, e mette anche a repentaglio l’intera costruzione continentale, dotata di un’unica moneta ma non di un’adeguata governance, né politica né economica. C’è questo in cima alle preoccupazioni del Presidente della Repubblica, e quale sia l’intensità con la quale Napolitano segue il dossier personalmente da ormai un mese e mezzo, lo rivela un dettaglio: stavolta al Workshop dello Studio Ambrosetti non va in onda un videomessaggio, ma un vero e proprio collegamento. Che a un certo punto si apre ad un prezioso scambio di battute con Jean-Claude Trichet e con Sergio Romano.

Prezioso perché il Presidente della Repubblica può rassicurare personalmente il presidente della Banca Centrale Europea, essendo Napolitano l’unico garante della nazione in un momento in cui la politica è sfaldata, e Trichet a capo dell’unica istituzione europea con poteri certi, e che ha steso sin qui in favore dell’Italia la propria rete di sicurezza. Napolitano rassicura la Bce ieri esplicitamente accusata dai giornali tedeschi di simpatie per l’Italia, visto che dilapida miliardi per sostenere il nostro debito pubblico: «Nessuno, nemmeno l’opposizione mette in dubbio il pareggio di bilancio, la divergenza forte c’è sulle misure per raggiungerlo».

Ma la coesione dell’Italia sull’obiettivo chiesto da Bruxelles e Francoforte ci sarà, «del resto si è già verificata, varando in poche ore a luglio la prima manovra». E Trichet, di suo, nota che le misure annunciate dal governo il 5 agosto, «sono estremamente importanti per la stabilità dell’Italia e per la sua credibilità creditizia», e del resto «il sistema europeo, la Bce e la Banca d’Italia sono tutt’uno». Se ci fosse un sismografo in grado di misurare la preoccupazione del Quirinale segnerebbe un’escalation fino al massimo grado, e lungo un arco di tempo che data, ormai, dal 15 luglio, dall’invito alla «coesione» lanciato da Zagabria nelle ore in cui passò la manovra nella sua prima, ridotta, versione: «Un miracolo!», fu il commento.

Un climax inarrestabile, passando per l’arrivo a Roma ai primi di agosto della lettera con le richieste al governo della Banca Centrale Europea, e la ritrosia del governo a prenderle in seria considerazione. Una serie di moniti e richiami quirinalizi, poi il via libera del governo, la soddisfazione della Bce. Un nuovo allarme quirinalizio, poi altri ancora, fino al rientro anticipato a Roma, dopo pochi giorni di vacanza a Stromboli, del Presidente: di corsa, e in elicottero, per firmare al più presto possibile il decreto. Il filo tessuto con maggioranza e opposizione, Berlusconi, Tremonti, Letta, Bersani, Casini convocati tutti a Palazzo, come pure i presidenti di Camera e Senato, in una liturgia che ricordava le fasi delle consultazioni in una vera e propria crisi di governo.

Il contatto costante, quotidiano con Mario Draghi, la sintonia stretta e recente con Renato Schifani, poiché martedì prossimo, infine, il provvedimento sarà all’impatto col Parlamento, e proprio in Senato. Quando Napolitano parla a Cernobbio, il saldo della manovra e l’obiettivo del pareggio di bilancio fluttuano ancora come l’orizzonte visto da una barchetta nella tempesta. Solo la rete di sicurezza della Bce ha sin qui salvato l’Italia. Il tempo si è fatto breve, occorre che la politica affronti le proprie responsabilità. Non ci sono scorciatoie. «Le maggioranze governano sinché hanno i numeri», dice Napolitano all’ambasciatore Sergio Romano che gli chiede cosa pensi di un governo tecnico, seguendo quanto fece Oscar Luigi Scalfaro con Carlo Azeglio Ciampi. Il Presidente ricorda quali sono i suoi poteri, scegliere in caso di crisi di governo a chi dare l’incarico. Tutto a termine di Costituzione. Ma è la prima volta in assoluto che Napolitano nomina una crisi di governo.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/418516/
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 22, 2011, 04:52:55 pm »

Politica

22/09/2011 - GOVERNO- GIORNO DECISIVO

"Presidente, tutto sotto controllo" Il premier sconcerta il Colle

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto ieri il premier Silvio Berlusconi
Visita al Quirinale: batteremo la speculazione internazionale, non temo i pm

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Non è dato sapere se l’incontro lungo oltre un’ora con Silvio Berlusconi al Quirinale abbia almeno circoscritto la portata delle preoccupazioni, dei rischi che Giorgio Napolitano ha nitidamente indicato nella situazione del Paese, e aggravati da un’ulteriore giornata di fuoco. Ma pare che il Presidente abbia avuto un sussulto di sconcerto nel sentire la lettura della realtà che gli ha offerto il presidente del Consiglio.

Di fronte alla dettagliata illustrazione presidenziale del deterioramento del quadro internazionale, ultime notizie dal fronte di guerra lo spread con i titoli di stato tedeschi che vola oltre quota 400, e Standard and Poor’s che abbassa il rating a sette banche italiane, tra le quali Banca Intesa e Mediobanca, il premier ha fornito una risposta al limite del paradossale. Va tutto bene, il mio governo è saldo, «vedrà Presidente, presenteremo presto un piano che darà una scossa al Paese», e, ciliegina sull’incredibile torta, «bisogna battere la speculazione internazionale». Quanto alla tenuta della maggioranza, al centro dei recenti colloqui al Quirinale con esponenti parlamentari e politici, Berlusconi non ha mostrato il minimo dubbio: vado avanti benissimo, il mio governo è saldo, nessun problema, di nessun tipo.

Giorgio Napolitano aveva chiesto scelte politiche appropriate e il più possibile condivise, spronando il governo a provvedimenti per la crescita, «senza la quale il debito pubblico è destinato ad avvitarsi su se stesso». La risposta di Berlusconi, che secondo fonti parlamentari aveva chiesto l’incontro, è stata per l’appunto paradossale. Galvanizzato dall’accordo trovato con la Lega sul voto segreto di stamattina a Montecitorio, e capace a suo giudizio di mandare in soffitta - al momento - qualunque ipotesi di una sua uscita anticipata da Palazzo Chigi. E il tutto nonostante resti comunque aperto l’esito sulla richiesta di arresto del braccio destro del ministro dell’Economia, il deputato Marco Milanese, Berlusconi ha poi anche comunicato con vivacità al Presidente che «più i magistrati mi attaccano, più mi rinvigorisco». Suscitando ulteriore, inevitabile sconcerto.

Ma proprio il voto di stamane ha fatto sì che Napolitano accogliesse la richiesta berlusconiana di salire al Colle, iscrivendola formalmente in agenda alla voce «nomina del governatore della Banca d’Italia». Il pensiero era proprio mettere quella delicatissima designazione, che il governo deve ancora ufficialmente compiere, al riparo da qualunque speculazione, da qualunque legame, anche solo ipotetico e dietrologico, con la vicenda Milanese-Tremonti. Evitare, in buona sostanza, che si potesse anche solo immaginare che il candidato più adatto e indicato dalla stessa Banca d’Italia, e da Draghi nei suoi colloqui con Berlusconi, venisse scelto solo perché Tremonti è indebolito. Il premier ha riferito delle sue ricognizioni nella maggioranza, dell’incontro avuto con lo stesso Fabrizio Saccomanni pochi giorni fa a Palazzo Chigi, ma non ha ancora messo nero su bianco quel nome nella missiva al Consiglio Superiore della Banca d’Italia, che dovrà fornire il proprio parere, prima che il governo nomini ufficialmente il candidato, e sottoponga quella decisione al Presidente della Repubblica. Sicché, Napolitano si riserva di esaminare quel provvedimento del governo, quando gli verrà sottoposto. Per il resto, di Lega non si è parlato.

La giornata di ieri era iniziata con l’attacco al Capo dello Stato del capogruppo alla Camera Reguzzoni, il sodale di Bossi che vorrebbe sorgere la Padania sulle ceneri dell’Italia, e per il quale «il popolo conta più di Napolitano». E finita con un Umberto Bossi ai limiti del cattivo gusto, «Napolitano mi è simpatico anche quando mi attacca, lo andrò a trovare». Per non dire dello stesso Berlusconi, che uscito dal Quirinale ha telefonato al ministro Galan e gli ha commentato così l’incontro: «La notizia è che il presidente della Repubblica non si dimette». Come Galan ha riferito, in diretta televisiva, ridendo: «E’ solo una battuta, solo un modo per dire che Berlusconi, a dimettersi, non ci pensa proprio».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/421398/
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 01, 2011, 03:30:43 pm »

Politica

01/10/2011 - RETROSCENA

Un messaggio a Bossi l’Italia vuole credibilità

Dopo i confronti con i leader al Quirinale, i timori su Bankitalia

ANTONELLA RAMPINO
ROMA

Giorgio Napolitano ha legato tutto il proprio mandato presidenziale alla democrazia dell’alternanza, sin dal discorso del suo insediamento, davanti al Parlamento. Ed è bene tenere a mente questo, quando nei Corridoi dei Passi perduti si tenterà magari di interpretare, stiracchiando il senso del messaggio presidenziale. Che legava, anche ieri, l’Unità della moderna Italia alle modularità della rappresentanza: «Non c’è un popolo padano, ma una certa parte del corpo elettorale».

E che in materia occorresse una nuova legge, come Napolitano ha detto proprio nel giorno in cui si sono materializzate le firme di un milione e 200 mila cittadini per l'abolizione del «porcellum», letteralmente fulminato ieri come un sistema che ha lo svantaggio di «far contare non tanto se lavori bene in Parlamento, quanto il rapporto che hai con chi ti nomina», è anch'esso un tema di lungo corso. Che fu presentato, per dire, anche al governo Prodi nel marzo del 2007. Che fu richiamato, in seguito, anche offrendo l'argomento che il termine di quest’ultima legislatura «coinciderà con la fine del mio mandato», e dunque sarebbe ora di mettersi all'opera. Il punto, sul quale Napolitano è andato ragionando a lungo nelle ultime due settimane almeno, è che il tema della nuova legge è pienamente sulla scena, per il referendum, per la rilevanzanel dibattito politico e anche in quello accademico.

Facendo inevitabilmente capolino anchenei numerosi incontri con leader politici e rappresentanti istituzionali saliti al Colle in questi lunghi mesi di crisi. E nessuno mai che difendesse il porcellum. Dunque, le condizioni perché il Presidente ponesse il problema c’erano tutte, e spendendovi tutta la propria autorevolezza. Prima, è il ragionamento presidenziale, col proporzionale puro grazie al quale egli stesso è stato più volte eletto, e che certo non era privo di effetti collaterali, ogni parlamentare rispondeva a un paio di milioni di elettori, poi sono venuti i collegi uninominali, adesso è indispensabile tornare a una legge che ripristini il contatto tra eletto ed elettore. Solo ai primi di settembre, a Palermo, il tema era stato già affrontato, col «Mattarellum, ci fu un recupero del collegio uninominale, visto come quintessenza del trasformismo, mentre fu invece un recupero importante anche se quel 25% di proporzionale lasciò incerto il senso della legge».

Quando gli venne chiesto quale sistema possa invece propiziare l'alternanza, il Presidente ha citato il sistema inglese, quello tedesco entrato in crisi al momento dell'apparizione della sinistra. Concludendo che «oggi la politica è in affanno e molti modelli sono in discussione». E quanto debba sembrare sgangherata certa politica italiana al Presidente della Repubblica lo dicono quegli aggettivi e quei taglienti giudizi, quel «grottesco che un LombardoVeneto possa competere sui mercati globali con Cina e Stati Uniti», quel «non esiste un popolo padano», e nemmeno «alcuna via democratica alla secessione», la quale è del resto solo «grida da un prato», e quando in Italia non lo è stato, come con la secessione militaresca di Finocchiaro Aprile, si è proceduto con gli arresti.

Un messaggio che cala durissimo, e poco importa a chi sia volta la reprimenda, se più a Bossi o più al Reguzzoni, poiché la sua forza sta nel centrare il tempo, nell'essere espresso al momento giusto. E non è casuale cheil monito - rispondendo a degli studenti in legge, e rimarcando che ben altra cosa è il federalismo - cali come una mannaia nel momento in cui Bossi mette a repentaglio la credibilità del Paese facendo manfrina e melina politica sulla nomina che dalla politica deve stare massimamente alla larga, quella del governatore della Banca d'Italia. Quando invece bisognerebbe lasciarsi alle spalle le diatribe «da prato» e preparare quella «matura democrazia dell'alternanza» di cui il Presidente parlò già al momento del suo insediamento, nel lontano 2006.
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