Le ragioni per non dire no ai Palestinesi
di Lapo Pistelli
L’Italia è un grande Paese ma il Premier è oramai un paria della comunità internazionale. Capi di Stato e di governo fuggono gli incontri bilaterali, le conferenze stampa congiunte e le foto ricordo poiché è sempre in agguato il colpo di scena, il commento impronunciabile confidato magari al telefono con un sodale di vita notturna. Silvio Berlusconi è, più che un leader in scadenza, un leader scaduto. Ed è finita anche la favola del premier che da del tu al mondo alle Nazioni Unite: non più discorsi letti in inglese fonetico (cioè secondo pronuncia senza capirne il significato), non più servizi taroccati nei tg Rai che montano immagini di platee gremite e consenzienti accanto a quelle del Berlusconi sul podio. Il Primo Ministro italiano non sarà a New York, nonostante il Mediterraneo sia al centro di alcune decisioni.
Noi democratici diciamo la nostra sulla più rilevante di queste.
Il 20 settembre, salvo colpi di scena, il Presidente dell’ANP depositerà una risoluzione richiedente il riconoscimento dello Stato di Palestina e pronuncerà un discorso due giorni dopo. Se la risoluzione venisse depositata al Consiglio di Sicurezza per tentare il riconoscimento pieno, essa avrebbe bisogno di almeno nove voti favorevoli e nessun voto contrario da parte dei membri con diritto di veto, uno scenario reso già oggi impossibile dall’annunciato veto Usa. Se invece la risoluzione verrà depositata all’Assemblea, essa richiederà il sì di 129 Paesi, corrispondenti ai due terzi dei componenti. In tal caso, l’OLP passerebbe da “osservatore permanente” a “Stato non membro” (come è oggi il Vaticano), un riconoscimento che impegnerebbe solamente i Paesi che si sono pronunciati a favore ma non gli altri. Questo nuovo rango conferirebbe ai palestinesi una maggiore forza negoziale e permetterebbe loro di riconoscere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale, potendo così sollevare davanti ad essa singoli casi del contenzioso con Israele.
Durante l’estate tutte le parti hanno tessuto iniziative frenetiche, i palestinesi per guadagnarsi consensi, gli israeliani per sottrarli, gli americani e gli europei per proporre soluzioni alternative, una risoluzione dal contenuto articolato che fissi una nuova base negoziale o un impegno al negoziato diretto immediato che eviti il voto o una proposta di “upgrade” che elevi lo status a qualcosa di meno di “Stato non membro”.
Da anni, il negoziato è in completo stallo. Che si sia scelto il metodo del confidence building per seguire le tappe della “road map”, che si sia dato alle parti un tempo e dei compiti per casa per raggiungere l’obiettivo come avvenuto ad Annapolis, fatto è che la politica degli insediamenti è proseguita, nessun punto sensibile (ruolo di Gerusalemme, diritto al ritorno, fonti d’acqua, confini) è stato affrontato. I Paesi occidentali portano tutti una responsabilità e se oggi si levano le preoccupazioni, in entrambi gli scenari, su cosa potrebbe accadere “il giorno dopo”, è giusto ricordare che queste sono figlie delle inerzie del “giorno prima”.
Abu Mazen gioca il tutto per tutto: settembre 2011 era la data limite per la fine dei negoziati secondo il Quartetto, ma da due anni non esiste alcun negoziato; la Cisgiordania governata da Fayyad è un biglietto da visita che vuole dimostrare sul campo la capacità di governo di un’autorità rispetto ad un popolo che abita un territorio, cioè i tre elementi costitutivi tipici di uno Stato; la primavera araba ha dato slancio alle richieste palestinesi; la scelta definitiva della diplomazia come luogo del confronto ha allargato le simpatie internazionali consentendo probabilmente di avere già i voti necessari in Assemblea.
Israele vive il tempo del suo maggior isolamento politico e diplomatico. Da sempre abbastanza indifferente alle risoluzioni Onu che ha spesso non rispettato, Tel Aviv non ha previsto i mutamenti regionali che sono accaduti nell’ultimo anno, ha visto allontanarsi i due amici di sempre - Egitto e Turchia - fino alla quasi rottura delle relazioni, registra un crescente criticismo contro il proprio Premier Netanyahu ad opera della sinistra laburista ma anche di Khadima (“l’inerzia è stata un disastro diplomatico senza precedenti” nelle parole della Livni).
Israele fronteggia oggi il dilemma storico, non componibile se non con la pace. Esso rivendica il ruolo di unica democrazia dell’area e non nasconde il proprio scetticismo sulla possibilità che i vicini evolvano verso quel traguardo; dall’altro esso si sente casa naturale, “focolare” del popolo ebraico. Nel momento della nascita, all’Onu, la proposta di nome giunta sul tavolo di Truman recava la dizione “Jewish National State”, ma essa fu corretta a mano dal Presidente americano in “State of Israel”: il carattere territoriale e democratico del nuovo Stato doveva prevalere sulla natura religiosa, nonostante la tragedia della Shoah. La realtà dei fatti ci dice oggi che è impossibile conciliare a lungo le due aspirazioni: le tendenze demografiche, a seguito dell’occupazione israeliana, portano un costante aumento della popolazione palestinese e un rattrappimento di quella ebraica, non compensata dall’immigrazione di ebrei russi. Al di là dei giochi di parole di Netanyahu sullo “Stato ebraico di Israele”, l’unica condizione per mantenere le due caratteristiche è una pace fondata sui confini del 1967, con gli scambi necessari. Fuori da questo c’è solo la negazione del tempo che passa, l’aspettativa di una leadership americana più “amica”, la speranza di una involuzione del contesto regionale che costringa il mondo ad occuparsi di nuovo della eccezionalità di Israele e dunque della sua sicurezza.
Perciò Stati Uniti ed Europa sono oggi nel gruppo dei sicuri perdenti di un negoziato che non riparte.
La Casa Bianca, costretta dall’antico rapporto di amicizia con Israele, ha annunciato il suo veto a denti stretti: si indebolisce così la simpatia guadagnata da Obama nelle piazze arabe e si dimostra insufficiente la pressione diplomatica esercitata finora.
Un’Europa già debole si accinge a dividersi dagli Stati Uniti, dividendosi ancor più con l’opzione della “tripla”, Paesi favorevoli, astenuti e contrari. L’Italia è davanti ad un clamoroso passo falso se non torna indietro in tempo dall’annunciato voto contrario promesso da Berlusconi a Netanyahu.
Noi siamo da sempre “equivicini”: una forte amicizia con Israele e altrettali forti motivazioni per sostenere l'aspirazione palestinese al compimento del principio “due popoli due Stati”. L’Italia ha una posizione-Paese, consolidata nel corso dei decenni, che non può essere schiacciata da una posizione-Governo in una scelta che non ha carattere contingente. L’Italia ha un interesse nazionale che le viene dalla collocazione geo-politica nel Mediterraneo e che non le consente di giocare con i sentimenti profondi di opinioni pubbliche che si sono rimesse in movimento e che guardano a noi per vedere se siamo davvero in grado di capire e di aiutare un nuovo corso.
Ci sono dunque, per noi democratici, tutte le ragioni per sostenere un voto favorevole, condiviso con alcuni partner europei, consapevoli certo che solo il ritorno al negoziato diretto potrà poi risolvere le questioni aperte, comunque vada il voto.
Ma sarà il governo e non il Partito Democratico ad alzare la mano all’Assemblea. E allora chiediamo a chi lo rappresenterà di avere almeno un atteggiamento equilibrato e lungimirante, corrispondente all’intero Paese. Un voto di astensione non accontenterà le due opzioni più marcate ma permetterà all’Italia di rientrare nel solco dell’Unione Europea e di non graffiare gratuitamente il ruolo che il nostro Paese deve giocare nel Mediterraneo.
La situazione è già grave. Non facciamoci del male inutilmente.
Lapo Pistelli
Responsabile Esteri PD
19 settembre 2011
da -
http://www.unita.it/mondo/le-ragioni-per-non-dire-no-ai-palestinesi-1.333624