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Autore Discussione: Da Mani pulite a Mani sbiadite. L’onestà è ancora un protocollo  (Letto 4343 volte)
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« inserito:: Febbraio 21, 2012, 04:25:04 pm »

Il bilancio

Da Mani pulite a Mani sbiadite

L’onestà è ancora un protocollo

I corsi e i ricorsi storici dopo il nuovo arresto di Mario Chiesa

DI LUIGI FERRARELLA

Come bilancio delle 20 candeline di Mani pulite non fa una grinza: il riarresto nel 2012, per una tangente nell’urbanistica brianzola, di uno dei primi arrestati e condannati nel 1992 proprio per una mazzetta edilizia. Del resto la cavalcata della Mani pulite 1992-1994 non ha scongiurato che nei due successivi decenni tangenti e finanziamenti illeciti abbiano continuato a essere declinati nella più fantasiosa casistica: contanti imbottigliati in «magnum» di champagne per gli assessori, valigette di denaro direttamente in caserma, incarichi pubblici barattati con donne offerte come tangenti in carne e ossa, consulenze fittizie, case «a insaputa», e persino – beffa nella beffa per i tribunali – finte cause giudiziarie inscenate solo per poter vestire da transazioni le mazzette.

Dagli avvisi di garanzia che bastavano a far dimettere un ministro si è così via via scivolati alla «normalità» del fatto che chi patteggiò una pena in Mani pulite amministri oggi il più grande gruppo industriale pubblico, chi subì condanna definitiva per finanziamento illecito sia il leader di un partito, e pregiudicati che nemmeno potrebbero essere ammessi al concorso per guidare un tram siedano invece in Parlamento.

Da Mani pulite a Mani sbiadite: ma quand’è cominciato ad accadere? Molto prima delle dimissioni nel 1994 e del controverso passaggio in politica di Di Pietro. Prima anche dell’informazione di garanzia a Berlusconi, delle diatribe sulle tangenti rosse, dei suicidi e delle polemiche sulla custodia cautelare. Persino prima che l’acritica santificazione dei pm, troppo identificati con la loro attività giudiziaria, prestasse il fianco alle manovre per squalificare l’una screditando gli altri a colpi di denunce calunniose, inchieste ministeriali, procedimenti disciplinari e leggi taglia-unghie.

È invece appena 5 mesi dopo l’arresto, il 17 febbraio 1992, di Mario Chiesa che Mani pulite inizia già a soffocare: succede in luglio, quando cade nel vuoto e viene liquidata come visionaria la premonizione di un collega di Di Pietro entrato da poco nel pool ad affiancarlo. Troppo estesa la corruzione fatta intuire già dalle prime indagini, lo strumento giudiziario – prevede l’allora pm Gherardo Colombo – non riuscirà mai ad affrontarla, e la società, sovraccarica di aspettative enfatizzate ma senza sbocchi di rigenerazione, ne uscirà sfibrata: a meno che tutto il marcio venga portato a galla da chi, in cambio della certezza di non andare in carcere, si presenti a svelare gli illeciti, ammetta le proprie responsabilità, restituisca il bottino e abbandoni per un certo periodo la vita pubblica. E invece no. Come non detto. Proprio come quando l’idea nel settembre 1994 viene invano riproposta prima da Di Pietro al seminario di Cernobbio e poi da un gruppo di docenti universitari.

Quella del luglio 1992 è un’occasione perduta. Anche perché il meccanismo d’indagine del pool – e cioè la catena di montaggio tra arresti, confessioni, scarcerazioni e nuovi arresti –, sebbene massimizzi i vantaggi di un ritmo incalzante d’indagine, nel medio termine e sui grandi numeri finisce per scontare l’impossibilità di approfondimenti meno superficiali; e facilita le strategie difensive (specie nelle grandi imprese e nelle alte burocrazie) di avvocati che accompagnano i clienti a saziare i pm con golose ma minime porzioni di confessioni, quelle strettamente necessarie a proteggere tutto il resto. È paradossalmente così che dalle ceneri di arresti e sentenze rinasce il futuro potere di figure alla Bisignani, è così che Mani pulite non bonifica quelle intercapedini di segreto nelle quali i ricatti non disinnescati vaccineranno e rafforzeranno chi ha saputo tacere o semplicemente è stato fortunato a non essere estratto alla ruota delle confessioni.

La riprova sta negli esiti processuali dell’inchiesta milanese Mani pulite, per i quali non esiste alcuna statistica giudiziaria ufficiale ma si prova ad aggiornare, per quanto possibile, la ricerca «amanuense» qui compiuta nel 2000 a partire dai 3.200 indagati per i quali la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio. In 1.281, circa il 40%, hanno patteggiato la pena o sono stati condannati nei processi; i 498 assolti corrispondono al 15% degli imputati; le prescrizioni, conteggiate fino al 2003, sono state 730, intorno al 23%. Il fatto che ancora nel 2003 (dunque a già 9 anni dalle indagini) si fossero perse le tracce statistiche di altre 700 posizioni, trasmesse negli anni per competenza territoriale da Milano ad altre città, fa ormai legittimamente supporre che a maggior ragione nelle successive stagioni siano andate a ingrossare le statistiche della prescrizione, facendola lievitare al 43%.

Tradotto in sommaria sintesi: su 10 giudicati, 4 condannati, poco più di 4 prescritti e poco meno di 2 assolti. Ma la risposta giudiziaria inferiore alle aspettative – tacciata di indebite supplenze e invasioni di campo, e alla quale in mezza Italia spesso non hanno giovato le iniziative emulative di «dipietrini» con i difetti del pool originale senza i suoi pregi – forse è stata tale proprio perché è rimasta l’unica forma di reale contrasto al fenomeno della corruzione nella vita pubblica e nel tessuto economico.

La politica, invece di apprestare leggi incisive, ha preferito rappresentare strumentalmente la giurisdizione come luogo di contrapposizione ideologica, nel quale affibbiare appartenenze politiche ai magistrati che di volta in volta esercitano il controllo di legalità in direzioni sgradite e politicamente sensibili. Il mondo delle imprese, ciarliero nei convegni, nella pratica ha però poi balbettato solo «protocolli di legalità» all’acqua di rose, negli appalti pubblici limitandosi a contabilizzare la tangente in uno dei tanti costi d’impresa ribaltati poi sul consumatore-contribuente, e nei rapporti tra aziende continuando a tollerare abissi di collusione tuttora celati solo dalla permanente assenza della figura di reato di corruzione privata. E anche la cosiddetta «società civile» si è ben guardata dal praticare l’unica reale sanzione – cioè la perdita di reputazione – che in altri Paesi basta a emarginare comportamenti nemmeno ancora sanzionati dai tribunali.

Anzi, a «tradire» Mani pulite non è mancato pure «il popolo» di Mani pulite: quello che plaudiva alle manette finché scattavano solo ai polsi dei «potenti» distanti dai cittadini comuni, ma presto ritirò la delega ai magistrati, sino a farli di colpo sentire «lavoratori socialmente inutili», non appena cominciarono a bussare ai commercialisti dietro cui stavano gli evasori fiscali, ai medici truffatori della sanità pubblica, ai giudici venduti, ai colonnelli pagati dalle famiglie per esonerare i figli dal militare, ai vigili urbani prezzolati nei mercati, agli ispettori dell’Inps per le pensioni d’invalidità. Al punto da far davvero somigliare Mani pulite alla protagonista, mezzo secolo prima, di un racconto di Joseph Roth: «Nessuno aveva desiderato che restasse in vita e perciò era morta».

Luigi Ferrarella

15 febbraio 2012 (modifica il 16 febbraio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_febbraio_15/manipulite-da-mani-pulite-a-mani-sbiadite-onesta-ancora-un-protocollo-luigi-ferrarella_cac9b4f4-5809-11e1-8cd8-b2fbc2e45f9f.shtml
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