Cultura
06/09/2011 -
Le città e non le province hanno fatto l'Italia
La storia dell'ente oggi più discusso: inventate dai Romani per indicare i territori di conquista, furono poi imposte dai Savoia
WALTER BARBERIS
Quando Roma cominciò a dominare territori estesi, in Italia o fuori d’Italia, vi inviò ad amministrarli un propretore o un proconsole: vale a dire un magistrato che avesse l’autorità di far valere su quei luoghi più o meno lontani la legge dell’Urbe. Erano regioni estese, praticamente delle nazioni, che ricadevano sotto l’ imperium romano e spesso erano controllate da legioni che avevano la funzione di presidio militare. Erano chiamate province. Sicilia, Sardegna, Spagna citeriore e ulteriore, Macedonia, Acaia, Africa, Bitinia e Cirenaica, e poi Gallia, Siria e Cilicia, l’area del Danubio, l’Egitto; quindi Britannia, Dacia e Cappadocia, Mauretania e Tracia: erano tutte province, cioè le terre diverse per geografia e costumi su cui dominava Roma. Grandi e piccole, sotto Diocleziano arrivarono al numero di 87, sparse fra tutto il mondo conosciuto. Di esse, con la dissoluzione del sistema imperiale romano, si perse traccia; e la frammentazione territoriale successiva mise in evidenza, soprattutto in Italia, il ruolo centrale della città. Luogo di più coese comunità, centro dei traffici e delle industrie, di arte e architettura, sede di cenacoli intellettuali e di scuole, crogiolo della ricerca tecnica e scientifica, terreno di sperimentazione giuridica e politica, retta da famiglie signorili o da regimi oligarchici repubblicani, la città divenne il perno attorno a cui ruotò tutta la storia italiana.
Furono città come Firenze, Genova, Milano e Venezia a far fiorire economia e cultura e a rendere celebre l’Italia in Europa; città come Roma a infiggersi nella storia mondiale come capoluogo della cristianità; città minori, come Ferrara, Mantova o Urbino, che magnificarono con le proprie corti uno stile di vita tutto italiano; e ancora città come Palermo e Catania, che a lungo si contesero relazioni mediterranee e col mondo arabo. L’Europa, e l’Italia in particolare, vissero per secoli la separazione e la differenza fra territori infeudati, più o meno periferici, sottoposti al dominio di duchi, marchesi, conti e baroni, espressione di un mondo conservatore e aristocratico, legato alla rendita fondiaria e ai valori antichi di una società rurale; e le città, sedi di corporazioni e di istituti di rappresentanza politica e sociale, animate da borghesie intraprendenti e portatrici di un’idea di ricchezza mobile svincolata dalla proprietà terriera. Erano campagne e non provincie quelle che stavano attorno alle città. La Campania, per l’appunto, costituiva l’entroterra della grande città, Napoli.
Fiorente e poi decadente, la città rappresentò, per dirla con Carlo Cattaneo, il principio di ogni storia italiana. Certo, già nel Trecento la città rappresentava insieme il punto alto della civiltà italiana, ma anche l’elemento di fragilità, di debolezza di fronte all’affermazione delle nuove entità statali europee. E’ noto che l’Italia fu molto ammirata, molto ambita e molto dominata dagli stranieri. E fu per secoli terra di razzie. Dire provincia era allora come ricordare un mitico passato in cui l’Italia, cioè Roma, dominava il mondo. Diceva Dante nel VI canto del Purgatorio: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!». L’Italia era diventata a sua volta una provincia di altri imperi.
Fu soltanto con l’unificazione politica e istituzionale che lo Stato si pose il problema dei distretti amministrativi periferici, cioè un sistema di mediazione fra governo centrale e governo locale. E, ovviamente, mutuò dall’esperienza piemontese, unico Stato italiano ad avere un solido impianto amministrativo, le sue prime leggi in materia, che esordirono nel 1865. Le leggi comunali e provinciali si succedettero numerose fino agli Anni Trenta del Novecento. Quindi, la Costituzione, con il titolo V, articolo 114, dichiarò che «La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni»: era chiara la preoccupazione che fossero salvaguardate le autonomie locali anche nel quadro di un tessuto istituzionale unitario. Ma l’eco delle parole di Dante non avrebbe cessato di risuonare. E proprio nel ciclo di una nuova globalizzazione e nel processo di integrazione delle istituzioni nazionali in una inedita quanto auspicata compagine europea, in anni cioè assai recenti, piccole patrie avrebbero ancora rivendicato spazi amministrativi autonomi, moltiplicando pletoricamente proprio le circoscrizioni provinciali. Esaltando la particolarità di esigui territori ed enfatizzandone tradizioni vere o anche semplicemente presunte. Con ciò ridando significato a quell’aggettivo, «provinciale», che ha connotato da secoli sagre paesane e mentalità campanilistiche, atteggiamenti attardati culturalmente e civilmente, tipici di abitudini periferiche lontane dalla modernità.
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http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/418934/