IL REPORTAGE
Torino e la guerra tra i poveri "Ma non saremo mai schiavi"
Il timore è che il bilancio non sarà positivo per nessuno: sindacato, imprenditori, sinistra, governo e Fiat.
E la città diventa l'emblema della nazione che arretra
di ALBERTO STATERA
TORINO - Non si chiama Fortunato Santospirito l'anziano operaio, ha i capelli grigi, non parla con cadenza avellinese, dialoga fitto con Nichi Vendola in pugliese stretto, ma ad ascoltarlo davanti al cancello 2 della Fiat sembra di rituffarsi in Fiat-Nam.
Regia di Ettore Scola, sceneggiatura di Diego Novelli, il film sul Vietnam sociale sabaudo girato nel 1973 in 16 millimetri era un racconto di miserie, quella del sud di malaria e pellagra e quella della fabbrica del nord dura, che s'incrociavano a Mirafiori, riassunte nell'esistenza del giovane meridionale approdato operaio a Torino. Oggi, nel fulgore della globalizzazione marchionnesca, che rianima a Milano la più depressa borsa d'Europa, è tutto un rincorrersi di nuove storie di povertà narrate dal popolo del no al referendum, ma anche della maggioritaria fazione del sì coatto, che sarà dato per non perdere il lavoro e gli 800 euro al mese di cassa integrazione o i 1.200 di salario pieno. "Dolore sociale" lo chiama nel suo immaginifico stile sociologese, che suona come una sorta di contrappasso rispetto alla rozzezza lessicale berlusconiana, il governatore pugliese, qui oggi a raccogliere ciò che resta della sinistra devastata e quel che sopravvive dell'antica classe operaia, la working class che si era fatta ceto medio. E quando il dolore sociale non incontra più la politica gli effetti possono essere pericolosi, forse devastanti.
Un'onda più strabiliata che indignata percorre il popolo assiepato tra le bandiere e gli striscioni con slogan d'antàn quando giungono, riferite di bocca in bocca, le parole di Berlusconi sulla legittimità dell'abbandono dell'Italia da parte della Fiat se dovesse vincere il no. "Ridicolo pagliaccio" è l'epiteto più gentile per il turboliberista confuso che gettò qualche miliardo per preservare l'italianità a termine dell'Alitalia. Epiteto comunque più educato di tutti quelli urlati all'indirizzo di Fassino, volto nuovamente in "Fessino" come quando era giovane, che deputato da decenni e aspirante candidato sindaco di Torino, dice senza vergogna che "se fosse nei panni di un operaio" voterebbe sì a Marchionne. Si evoca con termini ingiuriosi D'Alema. E persino Chiamparino, l'ex mito della sinistra istituzionale, il sindaco della rinascita, cui l'operaio Marco Ferrante, consigliere comunale, augura di farsi un po' di primo turno alla catena di montaggio invece che appassionarsi alle partite serali a scopone scientifico nell'appartamento supertecnologico del canado-svizzero-chietino che solo di stipendio guadagna come 435 operai e, con le stock option, eguaglia o forse supera i salari complessivi dell'intera forza lavoro di Mirafiori. Compenso legittimo, ma alquanto ardito per chi vuol parlare agli operai di etica, sia pure del capitalismo globale.
Voterebbe sì anche il governatore leghista Roberto Cota che tra la difesa d'ufficio sempre più tiepida delle mattane del premier, non più perdonate come parole dal sen fuggite, e i mille voti che la Lega sostiene di avere dentro Mirafiori tra i favorevoli coatti al marchionnismo, sceglie ancora Berlusconi. Ma per quanto ancora?
A fianco del cancello 2 di Mirafiori, presidiata dai guardiani in divisa, c'è una palazzina a un piano dipinta di rosso. E' chiamata altezzosamente, con insegna in corsivo, Mirafiori Club, come se fosse uno sporting in collina o un campo di golf nei pressi delle magioni della Famiglia sabauda con la F maiuscola, oggi dimentica di fronte al "giustificazionismo" berlusconiano della secca frase che l'Avvocato Agnelli pronunciò quando qualcuno gli chiese perché non aveva voluto vendere alla Gm, che offriva un pacco di miliardi: "Fiat: Fabbrica Italiana Automobili Torino". E basta. E' sbarrata la palazzina rosa, come è chiuso all'interno il supermercato "Gigante". Forse riaprirà il giorno 17, a referendum concluso, quando in settimane intere di cassa integrazione i vasetti di yogurt non rischieranno più di andare a male per mancanza di clienti.
"Dello yogurt posso fare a meno, non della casa. Ma stanno per portarmela via perché, dopo mesi a 800 euro di salario, non pago più il mutuo", racconta uno di mezza età a don Vendola confessore, sotto uno striscione che grida "Ci hanno tolto troppo, riprendiamoci tutto!" A fianco un Marchionne-squalo di cartapesta con le fauci spalancate piene di teschi, ossa scarnificate e tra i denti dollari e dollari che pendono a illustrare la finanziarizzazione del mondo globalizzato, dove il lavoro è ormai tra gli ultimi valori. "Schiavi mai", giura il cartellone dei Cobas, mentre il turno del mattino sciama fuori. Facce cupe, sguardo basso, barbe lunghe, donne con i capelli scarmigliati dopo la catena di montaggio dell'alba nebbiosa. Scoppia qualche tafferuglio quando gli attivisti Fiom urlano nelle orecchie dei reduci dalla catena: "Non buttate a mare le conquiste dei nostri padri", "Non fate come Pomigliano, noi siamo diversi". Fino alla cantilena più ingenerosa: "Venduti, venduti!" a chi, con il sì, pensa di difendere il posto, il mutuo, l'affitto, la rata della macchina, i libri di scuola dei bambini.
Se ha un senso l'espressione "guerra tra poveri", è qui oggi nella capitale sabauda, ai piedi delle Alpi, che quella guerra si consuma ai cancelli della fabbrica più antica d'Europa ancora in funzione, che i radicali della Fiom preconizzano come una caserma marchionnesca sotto la Mole e gli altri come l'ultima spiaggia prima dell'espulsione dalla vetta che sembrava a portata di mano della middle class.
L'ex capo, socialdemocratico dal volto umano, eroe dei due mondi, pochi anni dopo lo sbarco a Torino chiamato da Umberto Agnelli, è vissuto adesso come un caporale di giornata dagli operai del no e anche da quelli del sì. Osannato quando ristrutturava le mense, gli asili e i cessi di Mirafiori, cacciando i dirigenti di un'azienda overmanaged e underled, con troppi dirigenti eppure sottodiretta, maledetto ora, quando con lo stile spiccio dell'epoca lancia la new manifacturing, tardo epigono del guru della Toyota Tadashi Yamashina. Ma il problema autentico, più che la catena di montaggio e il presunto schiavismo marchionnesco, è il paese che arretra e, nell'assenza di ogni prospettiva futura, rigetta nella semipovertà migliaia di Fortunato Santospirito, come quello descritto quarant'anni fa da Scola e Novelli.
Il viaggio Fiat-Nam riprende a sera in piazza Statuto, proprio dove - quasi mezzo secolo è passato - fu presa d'assalto la sede dei metalmeccanici della Uil, colpevole già allora di aver firmato nottetempo un accordo separato con la Fiat. La fiaccolata dei no illumina via Garibaldi tra i saldi al 70%, fino a un lieve sbandamento della colonna all'angolo di via della Misericordia. Nomen omen: il negozio all'angolo annuncia su un cartello a grandi lettere "Oro usato". Si propone una "rottamazione" del vecchio oro, come quella delle macchine che per un po' ha tenuto in piedi la Fiat. Si rottama un vecchio gioiello d'oro per uno nuovo. Ma in fondo al cartello, pudicamente, si spiega il senso vero dell'operazione commerciale: 25 euro al grammo per l'oro "usato" in caso di " ritiro in contante". Gli affari, naturalmente, non sono su chi ristruttura vecchi gioielli, ma su chi chiede in cambio denaro contante. Le operaie e le mogli di operai Fiat fanno la fila.
Narrano nel corteo che dentro Mirafiori l'azienda si è assai attivata per sostenere l'organizzazione del referendum, che Uilm e Fim avevano pensato addirittura di rinviare per asserite "ragioni tecniche". La macchina sindacale è ora supportata fattivamente, fornendo il destro al fronte del no per sostenere che è il tempo del ritorno al Sida, il sindacato giallo che prosperò quando nel 1957, regnante Vittorio Valletta, la Fiom scese dal 64 al 37 per cento, per poi precipitare al 21.
Si chiude mesta la sera dell'antivigilia. Comunque finisca venerdì, il timore è che il bilancio, a conti fatti, non sarà propizio per nessuno. In un paese senza più politica, tra mille balbettii politicanti e incongrui, a far politica si è rilasciata una delega in bianco a Sergio Marchionne, in una presunta logica pseudo liberista. Forse alla fine ne uscirà del bene, ma intanto si cumuleranno tante macerie. Quelle del sindacato, della Confindustria, della sinistra, della destra, del governo, di Torino. E forse anche della Fiat.
a.statera@repubblica.it(13 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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