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Autore Discussione: Massimo Gaggi. Per gli americani la salute è un bene, non un diritto.  (Letto 2557 volte)
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« inserito:: Marzo 23, 2010, 09:00:18 am »

Sanita' Usa

Una riforma lontana dal «modello europeo»

Per gli americani la salute è un bene, non un diritto. E deve restare in mano ai privati


DAL NOSTRO INVIATO

NEW YORK — «Medicina socializzata», «salute usata come cavallo di Troia per far sbarcare, con un secolo di ritardo, Karl Marx negli Stati Uniti». A stare alla propaganda del fronte conservatore, quella votata l'altra notte non è una riforma ma una rivoluzione: l'adozione del vituperato «modello europeo» in un Paese nel quale l'individualismo e la mentalità dei «figli dei pionieri» spinge a considerare ognuno responsabile del proprio destino in campo economico. E per la maggior parte degli americani la salute è un pezzo di questo destino: una materia da governare attraverso il mercato, non un diritto o un bene meritevole di tutela per la sua grande rilevanza sociale. Solo questa ipersensibilità giustifica la vasta opposizione alla riforma che emerge dai sondaggi (60% dei cittadini contrari). A ben vedere, infatti, quella che è stata spregiativamente ribattezzata «Obamacare» non è né l'attentato alla libertà degli americani denunciato dai conservatori né il cambiamento davvero radicale del sistema di cui parla il presidente. Il momento è davvero storico solo perché Obama è riuscito laddove i suoi predecessori avevano fallito per oltre mezzo secolo. Dunque, anche col nuovo sistema niente «medico di base» né liste d'attesa nell'ospedale pubblico.

I servizi resteranno differenziati a seconda del tipo di polizza che si sceglierà (e del suo costo). L'assistito continuerà ad avere più possibilità di scelta, ma continuerà anche a dover svolgere un gran lavoro amministrativo, verificando che ogni singola struttura con la quale entra in contatto — medici, specialisti, cliniche, laboratori di analisi, ecografisti, radiologi, anestesisti e chirurghi, nel caso di interventi operatori — siano convenzionati con la sua compagnia assicurativa. Nonostante tutti i cambiamenti che vengono introdotti, infatti, il modello Usa rimarrà molto lontano da quello europeo, universale e basato sul principio del «pagatore unico»: lo Stato che fornisce direttamente i servizi o paga le cure erogate attraverso strutture private convenzionate. Insomma, cambiamenti limitati e che in molti casi scatteranno solo dopo il 2014, ma che impressionano gli americani, che non avevano mai sperimentato niente di simile e che sono preoccupati per l'alto costo dell'allargamento dei cure ai meno abbienti. Sistema universale ma privato. L'introduzione del principio dell'universalità è l'innovazione maggiore, ma rispetto all'Europa ci sono tre grosse differenze: intanto dei 46 milioni di americani senza mutua, solo 32 milioni otterranno la copertura. Gli altri — essenzialmente gli immigrati non regolarizzati — resteranno fuori perché i contribuenti non vogliono che con le loro tasse venga pagata l'assistenza ai clandestini. In secondo luogo questi 32 milioni otterranno la polizza sanitaria non subito ma a partire dal 2014, quando entreranno in vigore le nuove misure fiscali necessarie per incrementare il gettito e coprire le nuove spese assistenziali.

Infine il sistema assicurativo e di erogazione dei servizi resta totalmente privato. Non era possibile fare altrimenti, vista la storia del capitalismo americano e il peso che le compagnie assicurative hanno nel mercato finanziario Usa. Ma questo elemento rischia di rendere vulnerabile la riforma sul piano giuridico: i ricorsi alla Corte suprema perché dichiari incostituzionali alcuni punti chiave della riforma hanno discrete possibilità di successo perché la legge, introducendo — ad esempio — il principio dell'assistenza obbligatoria in un settore gestito attraverso assicurazioni, di fatto impone ai cittadini di stipulare un contratto con una società privata. Oltretutto col nuovo sistema ad essere punita non sarà l'azione di chi si comporta in modo scorretto, ma l'«inazione» di chi non vuole stipulare una polizza. E' una situazione senza precedenti per la giurisprudenza Usa. Divieto per le compagnie di rifiutarsi di assicurare chi è in precarie condizioni di salute. E' una problematica che nei sistema pubblici universali non si pone nemmeno, ma in America sono molti quelli che, affetti da patologie gravi o solo croniche, si vedono respingere dalle assicurazioni in quanto clienti troppo costosi. Spesso le compagnie cercano addirittura di liberarsi, con vari cavilli, anche di chi è stato loro cliente per anni, se nel frattempo si è ammalato. Col nuovo sistema questo non avverrà più: da subito alle assicurazioni viene proibito di fissare un tetto alle spese che possono essere sostenute per un singolo paziente. Il divieto di negare la polizza sulla base delle condizioni di salute scatterà solo a partire dal 2014. Nel frattempo chi è in condizioni di salute precarie potrà aderire a un programma assicurativo provvisorio per persone ad alto rischio, promosso dal governo. Assistenza per i meno abbienti e i giovani. I figli continueranno a beneficiare della polizza dei genitori fino a 26 anni. La riforma introduce poi, ma solo dal 2014, un sistema di sovvenzioni per le famiglie meno abbienti che non sono abbastanza povere per entrare nel sistema Medicaid (assistenza sanitaria pubblica per i diseredati), ma non sono nemmeno in grado di pagarsi la polizza (più di diecimila dollari per un nucleo di quattro persone). Ci vorrà tempo per mandare a regime anche i contributi a favore delle piccole imprese che acquistano polizze sanitarie per i loro dipendenti. Questo perché i nuovi tributi necessari per finanziare la riforma, vanno introdotti con molta gradualità.

Massimo Gaggi

23 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:40:43 pm »

LE CHIAVI PERDUTE DELL'ECONOMIA

La solitudine degli ex grandi

No all'uso della forza in Libia, allarme per i rischi d'inflazione che vengono soprattutto dall'indebolimento del dollaro. Quanto agli squilibri tra le aree del mondo, più che dell'enorme deficit commerciale Usa, ci si preoccupa dell'arretratezza del Sud del mondo: il problema, insomma, non è la stagnazione dell'Occidente industrializzato, ma l'insufficiente ritmo di crescita dei Paesi emergenti. Firmato Brics (l'acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), l'associazione delle nuove potenze economiche mondiali.

Quando, a Pittsburgh nel 2009, annunciò il «depotenziamento» del G7, la «cabina di regia» euro-nippo-americana, in favore del più ampio G20, Barack Obama, ancora fresco inquilino della Casa Bianca, sperava di responsabilizzare le nuove potenze mondiali. Cercava di spingere la Cina e gli altri a uscire allo scoperto, a giocare un ruolo più rilevante in una gestione coordinata dei mercati, dei cambi, dei rapporti economici e commerciali internazionali. Con l'obiettivo di ridurre gli squilibri finanziari e favorire la costruzione di un consenso multilaterale anche sulle principali questioni politiche.

A un anno e mezzo da quel «nuovo inizio», la Cina e i suoi compagni di strada accolgono l'invito ad alzare il loro profilo, ma non si incamminano nella direzione auspicata dall'America e dagli stessi europei. Mentre a Washington il G7 finanziario non prende decisioni rilevanti e il G20 cerca faticosamente un accordo almeno verbale per non far deragliare il treno della cooperazione economica, dalle spiagge cinesi di Sanya, Brasile, Russia, India e Cina concludono il vertice dei Bric - da quest'anno allargato al Sudafrica - con una dichiarazione zeppa di parole d'ordine nette, politicamente dirompenti. Affermazioni che, più che la voglia di accomodarsi su un ponte di comando comune, denotano la volontà di «certificare» la forza di un'associazione di Paesi che fra tre anni raggiungerà il Pil degli Stati Uniti e che conta di scavalcare in meno di un quarto di secolo l'intero Occidente industriale rappresentato dal G7.

Una situazione nuova che avrà conseguenze in tutti i campi: dall'Onu dove gli emergenti vogliono pesare di più al Fondo monetario internazionale che, «iperliberista» nell'era del mondo unipolare dominato dagli Usa, si convince all'improvviso che i controlli sui movimenti dei capitali non vanno demonizzati, anzi a volte sono utili, ora che cresce il peso di Paesi emergenti che basano le loro politiche su un più elevato livello di dirigismo.

Gli Stati Uniti, indeboliti dalla loro crisi economica, non riescono a riportare il timone dell'economia internazionale su una posizione più favorevole ai loro interessi, ma sembrano consapevoli di quello che sta accadendo e qualche carta da giocare ce l'hanno: l'India, ad esempio, con la sua storia di conflitti con Pechino, non può prescindere più di tanto dalla sua alleanza economica e militare con Washington. E il Brasile, che soffre per la forza eccessiva della sua valuta, ha, proprio come gli Usa, interesse a premere sulla Cina per una rivalutazione dello yuan. Divisa sulla Libia, gli immigrati e anche su debito e politiche per la crescita, l'Europa stenta, invece, a prendere atto della nuova realtà: magari non durerà, ma oggi sembra più facile mettere d'accordo Asia e Sudamerica che i due lati delle Alpi.

Massimo Gaggi

16 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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