Testimone del tempo: Piero, così hai cambiato il giornalismo italiano
Esce "Novanta", il memoir di Ottone sull'avventura nella sua professione.
Ecco la prefazione di Scalfari
di EUGENIO SCALFARI
Un giorno dello scorso novembre - il mio libro L'amore, la sfida, il destino era appena uscito - ricevetti una telefonata da Piero Ottone. Ci conosciamo da oltre quarant'anni, e da più di trentacinque siamo diventati amici. Era esattamente il 1977, quando Piero capì che nella proprietà del Corriere della Sera che lui dirigeva da cinque anni stavano accadendo mutamenti preoccupanti e si dimise. Te lo ricordi, Piero?
Da allora l'amicizia s'è rinforzata, abbiamo lavorato insieme, lui alla Mondadori alla guida di Mario Formenton ed io alla direzione di Repubblica che per il cinquanta per cento era appunto di proprietà della Mondadori e per l'altra metà del nostro gruppo dell'Espresso; e per anni insieme fino alla famosa guerra di Segrate contro Berlusconi che aveva dato la scalata alla Mondadori. Poi quella guerra finì, Repubblica fu messa in salvo e Piero cominciò a collaborare al nostro giornale e tuttora scrive articoli di politica, di costume, di cultura.
Gli avevo ovviamente mandato il mio libro aspettandone un giudizio che sapevo sarebbe stato imparziale, positivo se gli fosse piaciuto, negativo nel caso contrario e comunque critico nel senso alto del termine. Lui, infatti, appena letto mi telefonò.
Il giudizio fu positivo, mi parlò del capitolo che più di tutti gli era piaciuto, mi chiese alcuni chiarimenti sulla struttura letteraria che era alquanto nuova rispetto ai molti libri precedenti e poi aggiunse: "Quello che più mi ha interessato è l'inizio del tuo libro, che hai intitolato Prologo, dove racconti come si è formata la tua visione della vita durante l'età che definisci fatata dell'adolescenza e poi che cosa ti accadde dopo e come si formò il tuo carattere, la tua coscienza e insomma la tua vita. Anch'io sto scrivendo un libro, molto diverso dal tuo; ma anche il mio comincerà con un Prologo. Vorrei che tu lo leggessi; non il libro che ho già scritto ma leggerai quando tra qualche mese sarà nelle librerie, ma il mio Prologo, e vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi".
Ebbene, l'ho letto il suo Prologo, mi è molto piaciuto, è scritto benissimo con quello stile piano che si fa leggere senza fatica ma che comunica alcune verità profonde sulle quali il lettore è indotto a riflettere. Contiene però, quel suo Prologo, un giudizio su se stesso che in alcune parti non condivido, e proprio di quelle omissioni voglio parlare. Lo so che dipendono dal suo modo di pensarsi, non si tratta di finta umiltà ma di una convinzione mite e modesta dell'opera sua e della sua presenza e il suo ruolo nella storia del giornalismo italiano. Una presenza che durò a lungo ma un ruolo che durò poco, cinque anni, ma che ebbe un rilievo storico portando la diffusione del giornale a livelli mai raggiunti prima, riunì il meglio dell'intelligenza d'allora e cambiò la collocazione tradizionale di una delle più importanti testate italiane ed europee.
Piero si definisce nelle pagine di introduzione "uno spettatore", avrebbe potuto dire almeno un testimone del tempo, ma evidentemente quest'espressione gli sembrava troppo ridondante. Infatti scrive così: "Questo mestiere sembra fatto apposta per me. Osservo con curiosità quel che succede, non aspiro in alcun modo a far succedere cose diverse. L'animo dello spettatore, insomma: non quello del protagonista".
Ebbene, caro Piero, tu ti vedi certamente così soggettivamente, dal tuo punto di vista. Ma oggettivamente ti sbagli. L'ho già detto prima, ma adesso te lo dimostro.
Tu sei stato il primo della grande stampa italiana allora esistente a dimostrare con le inchieste, le notizie, gli articoli, insomma col tuo modo di fare il giornale, che i comunisti non avevano la coda.
Allora erano ancora in molti a pensarlo, e non solo persone sprovvedute o succubi d'una propaganda politica, ma anche dominate da un pregiudizio rispetto ad un partito legato ancora a doppio filo con Mosca, con il Cominform, con lo stalinismo, senza cogliere i primi segnali di un mutamento sociale, politico e soprattutto culturale.
Qualche segnale in quel senso c'era già stato sulla Stampa, l'altro grande giornale di prestigio nazionale durante la direzione di Giulio De Benedetti; segnali ancor più chiari li aveva manifestati il settimanale l'Espresso, ma il Corriere era un'altra cosa, rappresentava l'intero circuito mediatico del paese in un periodo in cui la televisione non aveva ancora la potenza di fuoco che raggiunse negli anni seguenti, e politicamente era molto legato alla Democrazia cristiana.
Il Pci era chiuso in una sorta di ghetto, per decisione dei suoi avversari ma anche per decisione propria. I suoi dirigenti battevano sul tasto della "diversità comunista", diversità morale ma soprattutto ideologica. Nel ghetto ci volevano stare, sognavano la rivoluzione proletaria che naturalmente sarebbe venuta ma non si sapeva né quando né come; "adda venì Baffone", cioè Stalin, era lo slogan che teneva insieme le masse e quindi era diventato una parola d'ordine da non lasciar cadere.
Ghetto o giardino zoologico, dove dietro le sbarre la gente comune vedeva strani animali e quasi tutti con la coda. La rivoluzione d'Ungheria del '56 aveva dato una scossa potente alle sbarre del ghetto; quella di Dubcek a Praga ancora di più e aveva anche manifestato fortemente la visione politica nuova del gruppo dirigente del Pci. Il Sessantotto aveva coinvolto i licei e le università di tutta Italia, l'immaginazione al potere era stato uno slogan rivoluzionario, ma quella che veniva definita la maggioranza silenziosa non era stata neppure scalfita da queste novità, anzi era diventata ancor più retriva e pronta perfino ad alimentare tentazioni antidemocratiche, sette segrete, servizi di sicurezza deviati, come si diceva con linguaggio criptico e minaccioso.
Non voglio fare qui una storia che è stata già ampiamente esaminata da centinaia di libri e migliaia di articoli. Dico solo che non a caso tu fosti scelto a dirigere il Corriere dalla parte progressista della borghesia milanese (Giulia Maria Crespi per l'esattezza) che non era affatto rappresentativa di quel ceto sociale. Era un'eccezione; prudente, misurata, non certo incline al radicalismo delle posizioni ed anche rispettosa delle tendenze del giornale che aveva avuto in Albertini la sua bandiera nei primi venticinque anni del secolo scorso. Ma un'eccezione che avrebbe oggettivamente dimostrato che i comunisti non avevano la coda o almeno non l'avevano più.
Questo fu il tuo Corriere dal 1972 al '77 e io lo so bene perché Repubblica fu fondata nel '76 ed ebbe fin dall'inizio l'obiettivo di diventare il primo giornale italiano raggiungendo e scavalcando il Corriere. "Hai scelto il momento sbagliato", mi fu detto da molti amici e colleghi. "Proprio adesso che il Corriere si è spostato a sinistra, ti sarà assai difficile inseguirlo con successo".
Ricordo che tu stesso me lo dicesti durante una telefonata amichevole che mi facesti sette od otto mesi dopo l'uscita di Repubblica. Vendevamo fin dall'inizio settantamila copie, era molto per un giornale nuovo ma non sufficiente, e questa cifra iniziale era bloccata e tale rimase fino al '78. In quell'anno ci fu il rapimento di Moro e tu - per altre ragioni - te n'eri già andato dal Corriere; ma questi due fatti avvenuti quasi contemporaneamente misero in moto la diffusione del nostro giornale che sei anni dopo raggiunse il Corriere e lo sorpassò.
Nella tua telefonata che ho sopra ricordato tu mi consigliasti di sospendere le pubblicazioni. "Lasci", mi dicesti, "nel momento migliore. La vendita attuale del tuo giornale è più che rispettabile e dimostra le tue capacità, ma economicamente non basta, quindi questo è il momento di smetterla, dammi retta, lo dico per te, il Corriere non ha minimamente risentito della vostra uscita, siamo ai massimi della nostra diffusione".
Era vero, ma io non la pensavo affatto in quel modo. Ti ringraziai del consiglio e ti presi anche un po' in giro. Ricordo queste cose per dire che, opinioni tue e mie a parte, oggettivamente tu avevi ragione, il Corriere non sentiva la concorrenza di Repubblica, la scissione di Montanelli e la nascita del Giornale vi avevano intaccato poco. Avevate perso copie a destra ma ne avevate conquistate altre al centrosinistra. Nel frattempo Pasolini era diventato il tuo collaboratore principale e attaccava ogni settimana il Palazzo (fu proprio lui a inventare quella parola per definire il Potere), la tua terza pagina ospitava il meglio dell'intellighenzia italiana, a cominciare da Citati. Quando Pasolini morì tragicamente al suo posto chiamasti Calvino che per certi aspetti era molto più efficace di Pasolini ed io te lo invidiai molto perché ero suo amico fin dai banchi del liceo, ma non potevo certo pensare che sarebbe venuto in un giornale come quello da me fondato ma ancora confinato in un pubblico molto limitato.
Tu hai scritto nel tuo Prologo che non ti sei mai proposto di cambiare la società con il tuo lavoro di giornalista e col tuo carattere di spettatore. Ti ho detto che non condivido il tuo giudizio, che è sbagliato, e spero d'avertelo dimostrato.
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