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Autore Discussione: Addio BIG LUCIANO...  (Letto 7254 volte)
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« inserito:: Luglio 03, 2007, 09:56:23 pm »

2007-07-03 16:45

FIGLIA PAVAROTTI: MIO PADRE SA CHE MORIRA' PRESTO

 MILANO - "Lui sa che morirà presto e nelle nostre conversazioni parla spesso del suo desiderio più grande: quello di raggiungere i suoi genitori e di trovare finalmente la pace". Lo afferma in un'intervista nel prossimo numero di 'Diva e donna', Giuliana, una delle figlie del tenore Luciano Pavarotti, che, a sua volta, interpellato dalla rivista telefonicamente ha detto:' sto meglio, sto recuperando'.

Secondo quanto ricordato dal servizio, Pavarotti un anno fa ha subito un'operazione per un cancro al pancreas.

Il tenore, di cui vengono pubblicate delle foto, nella sua tenuta modenese, è dimagrito di 30 chili e si deve servire di una carrozzina.   'Papa' è molto forte', ha aggiunto la figlia nata dal primo matrimonio del cantante, spiegando che il tenore al mattino fa fisioterapia, poi pranza con le figlie avute dalla prima moglie, quindi nel pomeriggio insegna a tre o quattro allievi e gioca a briscola con gli amici d'infanzia, prima di cenare con la moglie Nicoletta e la piccola Alice o con gli amici. 

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« Ultima modifica: Ottobre 01, 2007, 05:17:55 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 04, 2007, 05:21:49 pm »

Il mio bel canto libero
di Stefania Rossini

Il successo. La privacy perduta. Il matrimonio fallito. Gli incontri con i grandi della Terra.

Andrea Bocelli si racconta: 'Mi amano ovunque perché sono un prodotto genuino'

 
1958 Andrea Bocelli nasce il 22 dicembre a Lajatico, nella campagna pisana. Il padre Alessandro e la madre Eddi hanno un'officina di macchinari agricoli. Il fratello Alberto è oggi architetto.

1959-60 Affetto da un glaucoma bilaterale, viene operato a Torino ben 27 volte. Vede parzialmente con l'occhio destro e distingue luci e colori. ...

Andrea Bocelli è un uomo che non fa sconti. Né alla cecità che gli vieta la presa sul mondo da quando era bambino, né a chi tenta di superare il confine che traccia di continuo tra sé e gli interlocutori. Da quasi 15 anni è l'ambasciatore del bel canto italiano. Da altrettanti edifica il proprio monumento composto di una voce potente, di un buon mix di melodramma e canzonette, di contatti ravvicinati con i grandi della Terra, di uscite pubbliche calibrate su eventi indimenticabili: il Giubileo, la notte di fine secolo, le Olimpiadi, l'anniversario delle Torri gemelle.

Lo incontriamo nella sua casa di Lajatico, vicino Volterra, tra vigneti che producono un Chianti che porta il suo nome e le stalle che ospitano i cavalli che ha preteso di domare. Poco distante c'è il Teatro del silenzio, che lui stesso ha voluto in un declivio naturale e dove il silenzio è rotto una sola volta all'anno da un suo concerto. Il prossimo si terrà il 5 luglio e lo vedrà cantare le sue canzoni più popolari, a cominciare dall'archetipo 'Con te partirò'.

Con queste premesse, un successo garantito. È difficile mantenere una popolarità mondiale come la sua?
"Non lo so perché è l'ultimo dei miei problemi. La popolarità mi ha dato troppi fastidi".

Anche qualche vantaggio, immagino.
"Meno di quanti me ne aspettassi. La prima volta che vidi Zucchero, una star che nella mia immaginazione di ragazzo di campagna doveva essere al culmine della contentezza, fui stupito di trovare un uomo problematico e infelice. A tanti anni di distanza ho capito perché".

Lo dica anche a noi.
"La popolarità si nutre di privacy, la pretende e la fagocita. Distoglie dalla vita famigliare e fa fallire i matrimoni. E poi deve sopportare troppi veleni".

Allude alla critica? In effetti non sempre è stata benevola con lei.

"All'inizio me ne disperavo. Sentivo che mi criticavano non per correggermi, ma per distruggermi. Non mi si perdonava il fatto di essere uscito da Sanremo e di cimentarmi con l'opera. Da che mondo è mondo si è abituati al percorso contrario. Prima i palchi della lirica, poi le canzoni, come Caruso, come Gigli, come Del Monaco".

All'estero, e specialmente in America, l'adorano senza troppi distinguo. Come lo spiega?
"Con il fatto che sono un prodotto italiano a tutti gli effetti. I prodotti italiani genuini sono estremamente amati nel mondo. Se mi dicono che rappresento un confezionato made in Italy, non mi offendo. Però vorrei che mi si riconoscesse almeno la genuinità. Non mi sono costruito a tavolino: sono così".

Così come? Si descriva.
"Sono il bel canto, il paesaggio toscano, le colline del Chianti, le grandi romanze, l'opera. Ma io sento il dovere di girare il mondo non solo per rappresentare l'italianità, ma anche per portare alla gente un messaggio di ottimismo e di coraggio".

Si riferisce alla sua cecità?
"Non c'entra niente. Mi riferisco alla mia religiosità, che è filosofica e immagina un progetto intelligente per tutti noi. Io, che non credo al caso, mi lascio portare da questo progetto".

Non pensa che il fatto di essere cieco abbia almeno contribuito a costruire il suo personaggio?
"Assolutamente no. Lei sa che cosa vuol dire handicap? Vuol dire svantaggio. Senza questo handicap avrei fatto molto meglio sia nella vita che come cantante. La gente non compra dischi per pietà, non va ai concerti per pietà. Al massimo, se si commuove, tira un fiore sul palco. Detto questo non mi posso lamentare: sarebbe chiedere troppo alla vita".

Anche i suoi fan non sono semplici ammiratori: il papa, Clinton, Bush, Putin...
"Me ne sono meravigliato a lungo anch'io, perché non sono un grande fan di me stesso. All'inizio rimanevo di stucco se a chiedermi un autografo era Harry Belafonte o a starmi affettuosamente vicino era Elizabeth Taylor. Poi se un giorno ti suona alla porta Barbra Streisand che vuole conoscerti, un altro giorno è Tony Blair ad aprirti la porta della principessa Strozzi che vuole meravigliarlo, cominci ad accettare la cosa con normalità".

Tony Renis, suo grande sponsor, ha detto una volta che lei sta a Berlusconi, come Marilyn Monroe stava a Kennedy.
"È una frase che non conoscevo, ma sospetto che Kennedy avesse con la Monroe rapporti diversi da quelli che ho io con Berlusconi. Del resto mi hanno classificato come berlusconiano, come radicale, come tutto".

E invece?
"Invece mi piace parlare di quello che si può fare, senza guardare alla parte politica. Di recente ho avuto scambi di idee anche con Veltroni, persona estremamente intelligente. Sa che da ragazzo ero un po' rivoluzionario? Leggevo Marx, Mao Tse Tung, Ho Chi Min".

Adesso ha cambiato genere?
"Adesso cerco di tenere la bussola senza schierarmi. Un anno fa ho rifiutato di candidarmi con la Rosa nel pugno perché non mi piace che i dilettanti si occupino di politica. Come non mi piace che parlino di tutto: dei Dico, del testamento biologico".

Perché no? Sono temi su cui ognuno ha il dovere di avere un'opinione.
"Basta che la tenga per sé. Ci sono questioni che vanno delegate ai tecnici e agli scienziati. Invece si intervista un calciatore o un tennista e, dopo una domanda sulla partita, gli si chiede: 'Lei cosa pensa delle cellule staminali?'. Oggi parla soprattutto chi dovrebbe stare zitto".

Allora passiamo ad un argomento materiale. Lei è molto ricco?
"Ricco è una parola che non ha senso. Rispetto ai ricchi della terra sono molto povero, rispetto ai poveri sono molto ricco".

Beh, ha venduto 50 milioni di dischi...
"A parte che una cifra così è più simbolica che reale, e probabilmente comprende anche i singoli e Internet, io cerco di mettere i soldi al servizio di tutti".

Facendo beneficenza?
"Considero le elemosine offensive per chi le riceve. Io do lavoro e offro possibilità a un sacco di gente. I soldi tenuti sottoterra sono un peccato mortale, vanno messi in circolo per produrre ricchezza. Le mie reminiscenze di economia politica servono a qualcosa".

Già, lei ha studiato legge e ha fatto l'avvocato.
"Ho fatto solo tirocinio in uno studio legale per un anno. Mi sono ritrovato avvocato d'ufficio, ma non riuscivo a fare miei i problemi degli altri. La sera me ne scappavo a suonare nei pianobar. Ho avuto una giovinezza piuttosto dissoluta".

Davvero? Che dissolutezze praticava?
"Ero un ragazzo robusto e passionale, non sentivo mai la fatica. Così la notte tiravo tardi, anche fino alle cinque del mattino: grandi piatti di pasta, bottiglie di vino...".

Tutto qui? Scommetto che c'è dell'altro.
"Mi davo da fare anche con le ragazze, ma i risultati erano scarsi. Dopo è andata molto meglio, perché è giusto ammettere che l'uomo di successo è subito più bello e ha più chance. Non bisogna scandalizzarsene perché è un fatto biologico, capita anche al capobranco nel mondo animale".

A proposito di animali, si fa fotografare spesso in sella al suo cavallo. Gli si affida con tranquillità?
"Veramente è il cavallo che si fida di me. Pratico diversi sport, ma la mia vera passione è quella di domare queste bestie meravigliose, prendendole allo stato brado e riducendole all'obbedienza. È un rapporto fisico, atletico, che diventa un rapporto gerarchico. Alla fine il cavallo capisce che l'uomo è il capo".

Le piace tanto essere il capo?

"Con il cavallo sì. Con le persone non ho particolare disposizione. Ma se è necessario, non mi tiro indietro".

Qualche anno fa lei ha scritto un romanzo autobiografico tradotto in molte lingue. Scrive ancora?
"Solo aforismi, da un po' di tempo. Mi piace la loro brevità, il gioco di parole e l'assolutezza. Ne ho fatti sul canto, sull'arte, sull'amore, su questioni frivole".

Chiudiamo allora con un suo aforisma.
"Le dico l'unico che so a memoria: ' Canta chi piace, non chi si piace".

(03 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 10, 2007, 05:23:25 pm »

La musica è meglio single

Giancarlo Susanna


Come cambia l’ascolto della musica? Cosa ci riserva il futuro, a fronte di un mutamento davvero epocale, simile per molti versi a quello portato dall’invenzione del fonografo? Basta uno sguardo anche distratto alla collezione di migliaia di vecchi album in vinile che occupano una buona parte della mia libreria per innescare una serie di riflessioni. Ci sono ragazzi tra i 16 e i 20 anni (forse anche più grandi) che un LP (Long Playing, perché durava all’incirca 40 minuti) non l’hanno proprio mai visto. Per non parlare dei pesanti e fragilissimi 78 giri e dei leggeri e (quasi) infrangibili 45 giri. Qualcuno avrà fMagari avrà pure un diabolico «mangiadischi». Ma è pur sempre poca cosa. Magari questo ipotetico adolescente non sa neppure che farsene, di questo armamentario. Il cd, protagonista di significativi cambiamenti nelle nostre abitudini negli anni 90, resiste ancora. Più che altro perché si tratta di un supporto legato ad altre tecnologie correnti, ma il vinile è proprio obsoleto… ci vuole un giradischi, tanto per cominciare, e poi bisogna cambiare la testina, regolare il peso del braccio e la velocità del piatto, e poi… diventa tutto troppo complicato. Anche di fronte a una qualità della riproduzione da molti, soprattutto musicisti e dj, giudicata ancora la migliore. Avrete già capito dove stiamo andando a parare. Le cuffie minuscole, quegli apparecchi sempre più somiglianti a degli accendini tascabili e quel verbo a un primo impatto così lontano dalla parola «musica»: «scaricare». Traduzione dell’inglese computeristico «download», in fondo meno brutto di «cliccare» o «linkato». La musica oggi si scarica. Dalla rete, ovviamente. Da quei siti che ormai offrono di tutto: dalle pop song di Britney Spears e Madonna alle romanze di Andrea Bocelli, passando per il rock degli U2 e dei R.E.M. Questo significa, fra le tante cose, che la musica non ha più la fisicità del cd: non ha la custodia né il libretto, che fra l’altro avevano già l’ambizione, talvolta frustrata, di essere belli e ricchi come le vecchie copertine degli LP (immaginiamo la nostalgia dei lettori più «anziani»). Tramite un cavetto, la musica finisce, compressa, nel piccolo lettore. C’è ancora qualcuno che la mette su un cd registrabile e si scarica anche una copertina da Internet, ma il più delle volte finisce soltanto nel fenomenale apparecchietto, capace di contenere una personale e cospicua selezione di centinaia di brani. Secondo il gusto di chi questa selezione prepara, si badi, non secondo quello di chi l’ha pensata, scritta e registrata. A questo punto è chiaro che il concetto stesso di album viene quotidianamente messo in discussione e che il singolo - ovvero il vecchio 45 giri, protagonista assoluto della prima metà degli anni 60 - riacquista importanza. Non come durante l’esplosione del punk, quando gruppi ed etichette indipendenti lo preferivano al 33 giri per ovvi motivi economici, ma nella funzione (già esercitata in passato) di traino di un progetto più ampio (magari accompagnata da un videoclip e da passaggi radiofonici) e in quella di modulo espressivo privilegiato. «Chi me lo fa fare», potrebbe affermare un ipotetico artista, «di lavorare su una raccolta di canzoni, quando posso concentrare tutte le mie energie su una sola? Sapendo bene che poi il pubblico scaricherà solo quella?» È una tentazione forte, alimentata più dalle major che dalle etichette indipendenti. Ed è ancora una tendenza, perché gli artisti continuano a pensare in termini di album e di discorsi più articolati di quelli di un semplice singolo. In questi giorni, tanto per fare un esempio, Lou Reed sta portando in tour (anche in Italia) Berlin, un LP del 1973 che ridefiniva le coordinate stesse del cosiddetto concept album: era una storia, non una suite o una pseudosinfonia progressive. Ma anche New York, un suo capolavoro del 1989, era centrato su una sola idea, quella della vita nella metropoli delle metropoli. Scaricare un paio di brani da dischi di questo tipo è certamente possibile e legittimo, ma è chiaro che così facendo si mettono in discussione le intenzioni dell’autore. Il tutto, si badi, mentre le uscite discografiche - di album/cd, non di cd singoli - hanno un ritmo vertiginoso. Basta sfogliare una rivista specializzata per rendersene conto. Che conclusioni possiamo allora trarre da questo breve discorso? Intanto che la popular music - ovvero quella musica che è riproducibile con sistemi meccanici o digitali - ha una grandissima vitalità. In secondo luogo che questo ennesimo passaggio offre sia ai fruitori di musica sia ai suoi creatori una grande libertà. Una libertà che è nella natura stessa della rete e che naturalmente vorremmo fosse usata per crescere, non per tornare indietro. orse ereditato la collezione da zii o genitori.

Pubblicato il: 10.07.07
Modificato il: 10.07.07 alle ore 9.53   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 11, 2007, 05:06:15 pm »

11/7/2007 (8:7) - INTERVISTA

"Pavarotti sta bene"
 La Mantovani: mio marito reagisce alle cure e non è dimagrito

MICHELA TAMBURRINO
INVIATA A ROMA


Eccola l’eroina pronta a sorridere con il dolore nel cuore. Oppure no, eccola la fredda che si diverte senza accusare alcun dolore. La donna-enigma che tutti spiano per carpire accenni di verità forse non nè l’una e nè l’altra. Nicoletta Mantovani, moglie di Luciano Pavarotti, in queste settimane ha dovuto fare i conti con se stessa, con la sofferenza, con la curiosità morbosa del mondo intero. E infatti c’era chi dubitava che se ne sarebbe venuta a passare due giorni di relax a Ischia con la scusa di ricevere un premio a nome del marito. All’Ischia Film and Music Global Fest di Pascal Vicedomini che si è aperto ieri, non hanno mai dubitato della sua presenza, tanto che la sera è stato orgnizzato un collegamento telefonico in piazza per far ascoltare al maestro quanto il pubblico lo ama. E Pavarotti al telefono si commuove quando sente la piazza: «Amore - dice a Nicoletta - che bello, siete tutti lì». Tra i tutti c’è anche l’amico Andrea Bocelli, che Pavarotti in diretta invita ad andare a trovarlo: «Sto incidendo un disco, vieni, sei la persona giusta per un duetto». E poi ancora commozione e il rimpianto di non essere qui con Nicoletta. Lei, sorridente e distesa, è disponibile a foto, incontri, strette di mano. Nemmeno un velo di tristezza negli occhi, pare.

Sa che questo passeggio a Ischia sarà interpretato come mancanza di affetto verso suo marito malato? Come sta veramente Pavarotti?
«Io sono qui anche per smentire le voci sempre più insistenti che Luciano sia in fin di vita. Fosse così, non sarei qui. Sta reagendo bene al quinto ciclo di radioterapia, lotta come un leone e non si è mai perso d’animo anche perché ha accanto una famiglia che lo adora. E’ determinato e i risultati lo incoraggiano. Nonostante le cure pesanti non ha perso peso (cosa che peraltro avrebbe gradito) e capelli. Ora posso dire che sta bene».

Purtroppo in seguito alla malattia aveva dovuto interrompere i suoi impegni di lavoro. Gli pesa molto l’inattività?
«Ma lui non è inattivo. Adesso sta incidendo un disco di musiche sacre».

Musiche sacre? E’ un caso o sta rivedendo i suoi rapporti con l’aldilà?
«Non è un caso perché ha sempre amato la musica sacra. Quella che sta incidendo ora non è tanto nota, però è bellissima. Poi è fantastico che a Pesaro si ricominci a sentire della musica in giro per casa. Stiamo pensando di riprendere il Pavarotti and Friends abbandonato nel 2003 e il Farewell Tour anche quello lasciato dopo la malattia».

Talvolta le prove difficili servono a recuperare i rapporti famigliari. Voi avete avuto problemi con la prima famiglia del Maestro...
«I rapporti ora sono ottimi. Prima viaggiavamo molto è normale che vedendosi poco si sia anche parlato poco. Ora stiamo tutti insieme con lui».

Però qualche tempo fa una rivista femminile aveva rilanciato un’intervista della figlia di suo marito, Giuliana, in cui sostenva che il maestro fosse lì lì per morire. Come sono andate veramente le cose?
«Certo, quando si estrapola una frase poi si falsano le dichiarazioni. Giuliana aveva detto che il padre avrebbe tanto voluto rivedere i suoi genitori. Ed è vero perché Luciano era legatissimo alla sua famiglia e ne parla in continuazione. Ma da qui a dire che vuole morire al più presto per rivederli ce ne corre...».

Di che cosa parlate insieme?
«Di tutto, perché un punto di forza della nostra unione è sempre stato il dialogo. Schietto, a tutti livelli, fino all’estremo della discussione accesa, dello scontro. Parliamo di nostra figlia Alice che ci sta accanto e ci rende felici perché canta per il papà e gli racconta buffe favole ches’inventa al momento».

E poi che fate tutto il giorno ora che il lavoro è notevolmente diminuito?
«La normale vita di una famiglia. Leggiamo libri insieme, guardiamo un film, cantiamo per ridere. Il buon umore non ci ha mai abbandonato. Siamo fatti così ed è un bene anche per Alice».

E della morte parlate mai?
«Mai. Non ce ne è bisogno. Ognuno sa bene nel suo intimo che cosa significa la morte e come vuole affrontarla. Lo so io, lo sa lui, lo sanno tutti».

La gioia di vivere, l’ironia, come fate dopo 52 settimane di tormento?
«Basta avere lo sguardo giusto. Adesso c’è anche il disco che ci distrae. Lo sta incidendo con calma, è la prima volta che non ha fretta, stiamo scegliendo anche dei duetti a sorpresa».

Lei come si sente psicologicamente e moralmente?
«Bene grazie. E lei?».

da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 06, 2007, 11:56:12 am »

6/9/2007 (9:13)

Addio Big Luciano, le voci dal mondo
 
Cordoglio e partecipazione da tutto il mondo per la scomparsa del tenore


Placido Domingo
«Ho sempre ammirato la sua voce divina... amavo il suo sense of humor»: questo il commento di Placido Domingo alla notizia della morte di Luciano Pavarotti, con il quale ha tante volte cantato nei concerti dei «Tre Tenori» insieme a Carreras. «Ho sempre ammirato la sua voce divina, dal timbro inconfondibile, dalla completa estensione vocale - ha detto Domingo - Amavo il suo meraviglioso sense of humor e in diverse occasioni nei nostro concerti con Josè Carreras dimenticavo che stavamo esibendoci davanti a un pubblico pagante, perchè ci divertivamo troppo tra noi».

Katia Ricciarelli
Era «il Karajan dei tenori». Katia Ricciarelli ricorda così Pavarotti. Artista straordinario, dice, dotato di una «voce di platino», ma anche uomo spiritoso ironico, intelligentissimo, che aveva avuto il coraggio di affrontare cose «considerate non del nostro mondo» e che «aveva capito tutto del potere mediatico». Pavarotti, dice, «è stato in assoluto la più bella voce di tenore se non di cantante. Aveva una voce di platino con la quale poteva fare quello che voleva. Come uomo era spiritosissimo e divertentissimo. Io mi auguro tanto- aggiunge- che ci ricordiamo di lui sempre, non solamente adesso perchè purtroppo se ne è andato».

Il regista Franco Zeffirelli
«C’erano i tenori e poi c’era Pavarotti», afferma Franco Zeffirelli, che subito precisa: «Lui adorava la musica con un senso panico di festa totale» e per questo «il suo merito più grande è di averla affrontata come un insieme unico, dalla lirica alle canzonette o l’operetta, come dimostra il Pavarotti & Friends, dove veniva proposto ogni genere di musica senza steccati o confini. Già il concerto dei Tre Tenori aveva cominciato a lavorare e smuovere le acque in questo senso». Per il grande regista, che col cantante ha lavorato più volte, «si deve a Pavarotti se la cultura dell’opera ha cominciato in questo modo, come non fosse diversa dal resto, a penetrare nelle nuove generazioni».

Il soprano Mirella Freni
«Ho perso un fratello, siamo cresciuti insieme». Il soprano Mirella Freni, in collegamento telefonico con «Uno mattina estate», non nasconde la sua emozione ricordando Luciano Pavarotti. «Ho perso il conto delle nostre esibizioni insieme > ha raccontato - l’ultima volta l’ho visto giovedì scorso».

Il presidente francese Nicolas Sarkozy
Sarkozy ha definito Pavarotti la «migliore incarnazione del grande tenore popolare dopo Enrico Caruso». In un comunicato pubblicato dall’Eliseo, il capo dello Stato ha detto di conservare ancora «la memoria dei suoi importanti ruoli quanto quella delle sue tournee al fianco di Placido Domingo e di José Carreras, ma anche di artisti come Elton John, Sting, Bono...». «Luciano Pavarotti ci ha lasciato questa notte: desidero rendergli un ultimo omaggio in nome della Repubblica francese».

Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Vasco Errani
Errani ha inviato alla famiglia del maestro un telegramma nel quale, anche a nome della Giunta regionale, esprime il proprio cordoglio. «Con Pavarotti - scrive Errani - ci ha lasciato uno dei grandi maestri della musica, una personalità eccezionale nel mondo della cultura, ambasciatore dell’Italia e della regione Emilia-Romagna, terra che ha avuto l’onore di fargli da casa. Gli dobbiamo molto, con lui le note delle grandi opere sono entrate in tutte le nostre case. Per noi è e resterà sempre uno dei grandi simboli dell’Italia nel mondo».

Il sindaco di Modena, Giorgio Pighi
«Ci lascia un grande artista, un uomo buono. Luciano Pavarotti ha dato lustro a Modena nel mondo. Proporrò che gli venga intitolato del Teatro Comunale». È quanto ha affermato il sindaco di Modena, Giorgio Pighi, che ha espresso alla famiglia del tenore il cordoglio e la partecipazione sua e della intera città, ha aggiunto: «è un grande dolore per tutti noi, noi modenesi, noi cittadini di un mondo che è anche un pò nostro proprio grazie all’arte grandissima ed alla straordinaria generosità del maestro Pavarotti». «Questo è, in primo luogo, il momento del lutto e della commozione, ma anche della consapevolezza di aver conosciuto e ammirato uno dei grandi personaggi della nostra epoca». «E' una fortuna - ha aggiunto- ed un privilegio che i modenesi, sono sicuro, ricambieranno con gratitudine e partecipazione». «Luciano non è riuscito a vincere l’ultima battaglia, ma la sua arte e la sua figura vivranno per sempre».

Piero Ferrari, figlio di Enzo Ferrari
«L’ho salutato per l’ultima volta tre giorni fa - ha raccontato - Era molto giù, ma lottava ancora. Era un grande lottatore. È stato solo un saluto». Il figlio di Enzo Ferrari ha ripetuto più volte «è un momento duro, molto difficile. I miei ricordi con lui sono tanti, ma quello più grande è quello della sua voce, della sua musica. È stato davvero un grande che ha dato tanto alla musica, a Modena, all’Italia tutta»

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« Risposta #5 inserito:: Settembre 07, 2007, 12:33:32 pm »

7/9/2007 (7:54) - RETROSCENA

Le audaci imprese le donne e gli amori

La madre, le zie, la sorella: questo scatenò la sua galanteria senza distinzioni di avvenenza


ALBERTO MATTIOLI
DALL'INVIATO A MODENA


Luciano Pavarotti e le donne? È una storia infinita, dove compaiono due mogli, quattro figlie e molte amiche. Perché Pavarotti ha sempre amato le donne e non solo come seduttore. È qualcosa di più complesso che risale all’infanzia. Racconterà nella prima delle due autobiografie scritte con William Wright, My own story: «Quando venni al mondo ero il primo maschietto nato in quella casa da dieci anni», circondato da un papà, e va bene, ma anche da una mamma, una nonna, due zie e, tempo cinque anni, una sorella. Anzi, venne chiamato Luciano proprio per ricordare un’altra zia, Lucia, morta da poco. Insomma, una casa di donne.

E sempre colpiva, vedendo Pavarotti, la sua istantanea trasformazione quando era presente una donna, anche anziana, anche brutta. Era un piacione, d’istinto, per natura. Spiegò la prima moglie, Adua Veroni: «Per tutta la sua vita, la massima parte dell’amore e della sicurezza gli sono venuti da donne. Certo, gli piacciono le belle donne, ma la cosa interessante è che risponde intensamente a tutte».

Con Adua la storia fu quella classica, di quando ancora si restava fidanzati a lungo e poi finalmente ci si sposava, in chiesa e in bianco. Era il 30 settembre 1961. Nacquero tre figlie: Lorenza nel ‘62, Cristina nel ‘64 e Giuliana nel ‘67, che si sono tenute tutte e tre accuratamente lontane dai riflettori (pare che avessero litigato con il padre che divorziava. Ma che, quando si è ammalato, siano tornate a frequentarlo. Forse è solo un gossip, ma se è vero è molto bello). Per anni, fu un matrimonio felice, almeno in apparenza. Di certo, era un matrimonio all’antica: la moglie a casa, a crescere le bambine e ad amministrare un patrimonio sempre più cospicuo, attività nella quale, fra l’altro, ha rivelato delle ottime doti di donna d’affari. E il marito in giro per il mondo. Sicuramente, senza far voto di castità. Si parlò di una signora della Milano bene, nota collezionista di tenori. Un aspirante soprano di bellezza inversamente proporzionale alla voce, che poi sposò un celebre giornalista, non fu solo un’allieva-segretaria. Idem, forse, per una bella austro-ungherese dello staff.

Ma, insomma, la coppia tenne fino al ‘93. A farla scoppiare fu, quell’anno, l’entrata in scena della segretaria tuttofare Nicoletta Mantovani, di 34 anni anni più giovane di Luciano e, francamente, di una bellezza tutt’altro che vistosa. All’inizio del ‘96, il patatrac: sulla copertina di Chi finiscono le foto dei due amanti alle Barbados, a mollo in un mare di coccole. Adua non può far finta di non vedere e commenta: «Credete che un giornale italiano manderebbe un inviato alle Barbados se qualcuno non l’avesse avvisato? No, non credo che sia stata lei a chiamarli: io so che l’ha fatto». Il seguito è una banale telenovela con tutti il déjà vu del caso: la segretaria galante, la lettera aperta della moglie tradita e abbandonata, la separazione, il divorzio con la spartizione del patrimonio, i giornali che fanno i conti in tasca ai neosingle. Poi il nuovo matrimonio con Nicoletta e, nel 2003, la nascita di Alice. L’ultima donna nella vita di Pavarotti.

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« Risposta #6 inserito:: Settembre 07, 2007, 11:16:20 pm »

Un big all’Opera

Vittorio Emiliani


Sarà stato anche un po’ gigione negli ultimi anni, troppo dedito al «tenorismo» e al business collegato ai megaconcerti, da Caracalla a Central Park, e però Big Luciano rimane una delle grandi voci tenorili del mondo lungo un quarantennio di carriera fra secondo e terzo millennio. Uno dei pochi italiani che, come il conterraneo Enzo Ferrari, abbia avuto corso in tutto il pianeta nel girone dei più talentosi, dei più amati ed acclamati.

I musicologi lo diranno assai meglio di me, ma Luciano Pavarotti è stato, dal registro del tenore di grazia a quello del «lirico spinto», al pari dei maggiori interpreti del Novecento, uno che non barava mai, che sapeva cantare tutto: anche i pianissimi, i filati, le mezze voci. Uno cioè che non si risparmiava durante l’opera per poi «sparare» qualche acuto poderoso, come ormai fanno in tanti, e captare così l’acclamazione dei pubblici meno preparati. Lui no, cantava tutto e al meglio.

In questo il tenore scomparso era uno degli ultimi interpreti di melodramma legati, anzi incardinati, ad una tradizione nostrana (ahimé quanto lontana) che faceva dell’Italia il Paese del Bel Canto. Da appassionato che ha avuto la fortuna di acculturarsi all’opera nel loggione della Scala anni ’50 (soprintendente Antonio Ghiringhelli soprannominato il Tenno per la sua indiscutibile autorità), posso testimoniare che Pavarotti ha proseguito con nobile passione quella tradizione oggi in serio pericolo. Ricordo bene il suo primo Radames all’inaugurazione della stagione 1985-86 nel gran teatro milanese, con Camilla Cederna spettatrice attenta, competente e appassionata (aveva ereditato, attorno al ’20, uno dei palchi, all’epoca privati da una sua zia, Bassiana Gabba, e per questo di secondo nome faceva Bassiana). Tanto appassionata e coinvolta da prorompere, quella sera, in un sonoro «imbecille!» quando Amonasro inguaia Radames. Luciano Pavarotti uscì vincitore dalla terribile aria d’ingresso, la «Celeste Aida», cantata a freddo, sfoderando subito le sue lucide trombe d’argento. Quella notte, venne al dopo-Scala ancora col trucco da principe guerriero, con indosso un giaccone, un robone da artista. Ci abbracciammo, ma io mi accorsi che in realtà le mie mani arrivavano, sì e no, alle sua scapole. Era felice, raggiante, al pari di un debuttante.

Come per un suo predecessore scaligero molto amato, Pippo Di Stefano, «lirico spinto» come lui, Radames era il massimo che potesse osare. Difatti, quando sconfinò nel campo dei tenori drammatici (alla Del Monaco o alla Corelli, per capirci) cantando la parte di Manrico nel Trovatore di Giuseppe Verdi, l’esito, al Maggio Musicale fiorentino, fu così così. Non ci piaceva. Sì, la dizione era quella scolpita, formidabile di sempre, e però non sembrava lui. Lui che spavaldamente infilava «la donna è mobile» fino al sì naturale del finale «e di pensier!», una macchina da canto strepitosa. Lui che incideva con una sapienza belcantistica rara la figura di lord Arturo nei marmorei Puritani, opera estrema del giovane Vincenzo Bellini. Lui che era fra i pochissimi a saper cantare quel falsettone prescritto dallo stesso compositore per Tebaldo nei Capuleti e Montecchi. Ma poi, quale Nemorino dell’Elisir d’amore donizettiano c’era in circolazione che sapesse rendere senza leziosaggini quella parte da tenore di grazia?

Certo, nell’immaginario collettivo più popolare, Luciano Pavarotti rimane soprattutto quello dei concerti dei tre tenori (con Domingo e Carreras) e quindi del Nessun dorma dove il principe Calaf di Turandot lancia contro il cielo, contro il mondo, contro l’enigmatica principessa il suo triplice Vincerò, sigla dei campionati del mondo e, ormai, di ogni grande competizione. Sempre più forte, sempre più alto, sempre più squillante. Per l’enorme folla degli spettatori di Mondovisione, per quella pure vastissima presente, a Londra o a New York, dal principe Carlo al muratore, dai vecchi appassionati ai giovani che con lui forse hanno scoperto il melodramma. Il più televisivo dei nostri cantanti d’opera. Il più universale nell’éra delle tv. Da appassionato, devo rammentare però la serietà dell’interprete che in una stagione neanche tanto lontana volle inaugurare, ancora nel vecchio Auditorio Pio di Via della Conciliazione, la stagione da camera con un concerto, soltanto lui e Leone Magiera, altro modenese, al pianoforte. Una prima parte tutta dedicata a musiche antiche, pre-romantiche, e una seconda occupata da arie di Tosti e di altri post-romantici. Difficili le une e le altre. E lui fu impeccabile in entrambe le sezioni. Ovviamente, alla fine, i tre bis li «sparò» via alla sua maniera gladiatoria ed erano i cavalli di battaglia da Tosca, Rigoletto e Turandot. Ebbe ovazioni, prima e dopo.

Gli esperti hanno spesso storto il naso per le sue incursioni nel mondo della canzone. Non tanto per quella napoletana dove un po’ tutti i grandi, da Caruso a Del Monaco, si sono provati e riprovati generosamente. Ma per la musica pop e rock. Credo che non amasse per niente le «contaminazioni» fra i generi musicali. Sicuramente amava però tutti i generi musicali. La musica gli piaceva tutta, dal canto antico al rock, purché fosse bella. Come è giusto. Ma Luciano veniva da una famiglia del popolo, era figlio di un simpatico fornaio, Fernando, dotato, lui pure, di una bella voce tenorile, corista della «Gioachino Rossini» di Modena e suo primo tifoso. Amava come pochi quelle riunioni conviviali innaffiate di generoso lambrusco che la nebbia e il gelo invernali incoraggiano nelle cascine sperdute nella campagna emiliana, o sotto i portici, nelle città padane dalle immense piazze lastricate dai ciottoli di fiume, resi lucidi dall’umidità della sera incombente. «Fra la Via Emilia e il West», canta un altro modenese (della montagna stavolta), Francesco Guccini, e il tenore mancato poche ore fa, con la manifestazione tenuta per anni nella sua città, il «Pavarotti & Friends» di sicuro livello internazionale, sapeva gettarsi con coraggio in un cimento musicale insolito, con cantanti e cantautori inglesi e americani, con Zucchero o con Dalla, altri due conterranei nati in vista della mitica Via Emilia, a Bologna l’uno e a Roncocesi di Reggio Emilia l’altro.

Nella costante riaffermazione delle proprie radici ci sta bene, anzi benissimo, la stessa passione intensa che ha nutrito per i cavalli. A Modena, come in altre città emiliane e romagnole, la comparsa, in quelle grandi piazze animate da fiere colorate e da grassi mercati, di un elegante cavallo da corsa o da concorso suscitava e suscita la stessa attrazione di massa di una Ferrari o di una Maserati ultimo modello. Un’idea edonistica, ottimistica di vita impastata continuamente con la bellezza.

Sere fa ho duettato a Radio24 su Gioachino Rossini con l’amico Armando Torno il quale ha offerto a me e agli ascoltatori del suo «Musica, maestro!» una autentica gemma rara: un Pavarotti quarantenne il quale interpreta la parte del tenore (un ruolo ammazza-tenori, come capita spesso con Rossini) nello Stabat Mater capolavoro tardo del Cigno di Pesaro, o Cignale di Lugo come si autodefiniva lui, e siamo sempre fra i «fratelli grassi» della Bassa tra Appennino, Po e Adriatico. Ebbene, il difficile «Cuius animam gementem» dello Stabat rossiniano il grande tenore scomparso lo porge con una forza limpida, con una levigatezza morbida e virile che ricorda certi marmi di Antonio Canova. Quante dizioni «sporche» o incomprensibili ci tocca invece di subire oggi. Le registrazioni di Pavarotti dovrebbero essere ascoltate e riascoltate anche per la chiarezza scolpita, esatta, incisa, di ogni frase da lui pronunciata, anche quando la melodia si fa impervia.

Un maestro. Che ha pure cercato di scoprire e di valorizzare nuovi talenti, negli Stati Uniti, che amava riamato moltissimo, e dovunque fossero, ricordando i propri inizi col maestro Ettore Campogalliani, didatta straordinario, suo e della «sorella di latte» Mirella Freni, soprano di voce e presenza impeccabili, splendida Mimì in tante Bohème, come Renata Scotto del resto, dove Luciano/Rodolfo si prodigava appassionato. E proprio Bohème era stata l’opera del suo lontano esordio nel 1961, tenore venticinquenne, al Teatro Comunale di Reggio Emilia, la stessa che lo aveva poi lanciato sul piano internazionale al Covent Garden di Londra dove sostituiva (vedi i casi della vita) il più amato tenore lirico di quel torno di tempo, Giuseppe Di Stefano.

Big Luciano si buttava nei cimenti amicali, davanti alle masse televisive, con la stessa passione che aveva destinato e speso nelle stagioni di melodramma e nei concerti più rigorosi come quello appena rammentato all’Auditorio di Santa Cecilia. Sto ascoltando, mentre scrivo, una lontana incisione, esattamente di quarant’anni fa, di un Rigoletto diretto da Mario Rossi, con l’Orchestra della Rai di Torino (la sola sopravvissuta delle quattro che c’erano) e il metallo della voce di un Luciano Pavarotti, Duca di Mantova poco più che trentenne, riluce vivido e indimenticabile. Una lezione da non lasciare appassire. Anzi, da riproporre ai più giovani come esempio di passione, di rigore, di amore per la musica come amore per la vita stessa. Con generosità, passione, commozione.

Pubblicato il: 07.09.07
Modificato il: 07.09.07 alle ore 10.55   
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