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« inserito:: Febbraio 07, 2011, 11:59:26 am » |
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Io ricordo - memorie d'autore Novant'anni
Ottavio Missoni
«L'età è una brutta malattia Ci si può curare, non guarire Devo ancora capire come sia arrivato il successo»
Lo sport e i successi nell'atletica
di P. Di Stefano e R. Cagnazzo
«Ti non te disturbar» è la frase che gli diceva sempre sua madre. Ride, Ottavio Missoni, in attesa di compiere i suoi novant'anni. L'età? «Una brutta malattia che si può curare, non guarire, t'è capìo? Mi sento un fanciullo che si duole per essere cresciuto. È vero che puoi anche ritrovare l'innocenza, peccato che dura poco». C'è da mettere un po' d'ordine in una vita così lunga e così piena come la sua (lo fa lui stesso nell'autobiografia in uscita, mercoledì, da Rizzoli). Ordine che qui, nello studio di Missoni, in mezzo al bosco di Sumirago, nel Varesotto, è solo un'idea remota, tra cumuli variopinti di tessuto per terra, rotoli enormi, prove, ritagli, disegni e una lunga scrivania bianca colma di fogli, matite, oggetti, posacenere: «Dammi una sigaretta, va', che sono un po' nervoso. Tu non lo sai ma quando camperai fino a novant'anni avrai tutto il diritto di diventare nervoso». Trovare un angolo in cui appoggiare una tazzina di caffè è un'impresa. «Sono riuscito a non fare le scuole grazie alla mamma: la troppa educazione è diseducativa». Ogni sua frase si conclude con una risata allegra: «Non è vero, naturalmente, però mia mamma mi ha sempre capito. Mi chiedono: perché ci tieni tanto alle donne? Perché ho avuto una mamma, rispondo».
In principio fu Ragusa, in Dalmazia, una villetta vicino a un bosco e il mare a due passi. «Mio padre era un uomo de mar, comandante di lungo corso, che già dagli anni Venti era in giro a navigare per il mondo». Il trasferimento a Zara arriva presto. Il piccolo Ottavio ha sei anni: «Vedevo mio padre una volta l'anno. Ho cominciato a parlare con lui quando è andato in pensione, si mangiava e si chiacchierava con calma, si facevano passeggiate, ho scoperto una persona che non avevo mai conosciuto». Con i suoi amici, quando ormai era in pensione, Vittorio Missoni, che da giovane si dichiarò italiano, andò da Trieste a Vienna sulla tomba dell'imperatore Francesco Giuseppe per chiedergli perdono. Mamma Ina fu una sposa e una mamma bambina che non conosceva tristezza: «Nei nostri confronti era di una serenità angelica. Trasmetteva tranquillità: lei diceva che ai suoi figli non poteva succedere niente». Il fratello Attilio partì presto per la Regia Marina sui Mas, i motoscafi siluranti italiani: «D'Annunzio ci costruì sopra una massima: Memento audere semper, ricordati di osare sempre. D'Annunzio era davvero il poeta più dannunziano». Le scuole di Missoni, dal ginnasio in poi, sono un calvario: «Sempre ripetente, sempre. Non ci andavo mai. Anche agli esami, non sono mai stato bocciato perché non mi son mai presentato. L'unica cosa era il disegno, era facile perché non te lo insegnava nessuno». Donna Ina decide di mandarlo a Trieste, presso amici, ma anche lì lo studente Ottavio Missoni risulta quasi non pervenuto. Però mamma Ina rimane sicura che suo figlio avrebbe primeggiato con la buona volontà: «El mio Ottavio xe più bravo de tutti in tutto... basta se lu vol», dice. E infatti. A Zara Ottavio ha scoperto la sua attitudine all'agonismo. «Tra ragazzi tutti i giochi erano basati sulla competizione: guardia e ladri... si correva sempre». A dodici anni il ragazzino comincia a fare sul serio e da allora la lista dei trofei ottenuti da professionista dei 400 metri piani e a ostacoli è lunga: nel '37, dopo una inattesa apparizione trionfale all'Arena di Milano sugli 800, arriva la Nazionale, a Parigi contro la Francia. «Il comandante Vittorio Missoni una volta si degnò di venire a vedermi e mi consigliò di offrire dei cioccolatini purgativi al mio avversario più temibile».
Il 26 agosto 1939 ottiene l'oro alle Universiadi di Vienna nei 400 piani, ma alle Olimpiadi del '48, a Londra, dopo aver superato brillantemente le eliminatorie nei 400 ostacoli, inciampa in finale e finisce ultimo. Restano i documenti dei successi, dell'eleganza, dello stile di corsa ammirato dall'amico Gianni Brera: Missoni è il figlio di Apollo, scrisse: «Apollo non è una divinità che mi incanta, c'è di meglio. Ma Brera è stato il mio cantore, leggi qua... ha scritto cose da non credere». Tira fuori un foglio con un articolo del «Guerin Sportivo». Ricorda le bevute di Pernod, con Brera, alle otto del mattino alla «Gazzetta», ricorda le cene del giovedì all'Osteria Riccione: «Il bicchiere di vino era sempre metà pieno». C'erano, tra gli altri, Giovanni Arpino e Mario Soldati, che «a scopa non era poi così bravo come credeva».
C'è un sacco di vita nel sorriso di Missoni, incontri, caffè, balere, avventure, amici, «piacevoli compagnie», soubrettine, ragazze: Lucia Bosè, commessa in una pasticceria vicino alla Madonnina, quando lo vide disse che gli mancavano solo le ali per essere un angelo. C'è anche la guerra, il militare a Piacenza («una rottura unica»), la «filosofia della latrina», le canzoni goliardiche contro la Perfida Albione, la tradotta in treno e l'arrivo ad Atene: «Siamo partiti per dare una mano a perdere la guerra. Io fui istruito come anticarro, ma naturalmente fui messo ai telefoni». Nell'ottobre del '42 si trova in Nord Africa a riparare linee telefoniche con in tasca la fotografia di una sedicenne: «Una notte mi ritrovai al centro della battaglia di El Alamein, nel deserto ero da solo sotto le bombe dell'Armata di Montgomery, rotolai in un cratere e sotto il cielo livido di lampi mi addormentai. Quando uscii, sentii un come on! quasi festoso. Era un soldato neozelandese». Seguirono quattro anni di prigionia. Paura? «Solo per un attimo. Ci mancavano tante cose, ma per me non era un problema perché il mio passatempo preferito è sempre stato dormire». Anche lì non manca il divertimento, il teatro nella compagnia stabile dei prigionieri italiani, gli amici. «A Badoglio che ci invitava a collaborare con gli inglesi, io e un gruppo di amici ci rifiutammo: "Ma chi c. è 'sto Badoglio?". Non godeva delle nostre simpatie. A un tenente maltese chiesi: "Che vantaggio c'è a firmare?". E lui: "Potrai lavorare". La risposta più azzeccata mi venne in mente dopo: "Ci vuol ben altro che Sua Maestà Britannica per farmi lavorare"».
A Milano il giovane Missoni aveva già il suo giro di amici, aveva alloggiato per qualche anno in zona Città Studi, dove si allenava al Giuriati. Nei bar dei dintorni, il Grillo e il Leonardo, aveva conosciuto quelli del «Bertoldo», il bisettimanale umoristico: Guareschi, Marchesi, Manzoni, Molino, lo studente di architettura Saul Steinberg, una ragazzina dalle trecce bionde che si chiamava Sandrina e portava i disegni di suo papà, Giaci Mondaini. Nel '47, Missoni fa un provino da Mondadori e diventa un eroe da fotoromanzo per «Bolero Film»: «Il mio amico Nando faceva il cattivo, io il bello. Con il guadagno di 80 mila lire avrei voluto comperarmi un cappotto, poi un soprabito, alla fine mi sono accontentato di un ombrello stile inglese, perfetto». Il desiderio del cappotto, forse, era un'avvisaglia del futuro: «Per la moda non ho mai avuto nessun interesse». Lo stilista per caso nasce da una storia di bottoni del suo ex ct di atletica Giorgio Oberweger e dall'incontro con Rosita, nella Londra delle Olimpiadi. «Un giorno, a Milano, Giorgio mi disse che doveva andare a Trieste per controllare una macchina di maglieria che aveva appena comperato: mia madre, disse, mi rimprovera sempre perché al mio cappotto mancano i bottoni... Così a sua madre comperò una macchina per la maglia, in modo che avrebbe potuto guadagnare anche qualche soldino». Ottavio lo segue a Trieste. Con l'amico Giorgio mettono su una piccola società, la «Venjulia». Intanto, il 18 aprile 1953, Ottavio e Rosita si sposano (ne nasceranno Angela, Vittorio e Luca) e il laboratorio si estende: tute sportive, qualche capo di abbigliamento, costumi in lana. «Iniziavo a disegnare qualche modello e ad accostare i colori, ma per me non è cambiato niente: io ero il presidente e Rosita lavorava. Devo ancora capire come è arrivato il successo, le copertine dei settimanali francesi... All'epoca si lavorava e di soldi ce n'erano pochi. Eravamo sempre in rosso e quando abbiamo cominciato ad avere qualche lira, mi sentivo l'uomo più ricco del mondo. Da allora ne abbiamo fatte di tutti i colori». Un segreto? «Il mio lavoro era fare disegnini. Li vedi qui? Disegnini come questo... L'ispirazione ti viene da quello che hai detto con gli amici, dal vino che hai bevuto, da quello che hai letto, da quello che hai pensato...». E dal Monte Rosa che ti guarda oltre i vetri. Questione di talento: «È vero, il creatore sono io, però si dà il caso che è la Rosita che ha creato me».
Paolo Di Stefano
07 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/cultura/11_febbraio_07
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