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Autore Discussione: STEFANO PASSIGLI. La maggioranza relativa degli italiani  (Letto 2443 volte)
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« inserito:: Febbraio 04, 2011, 06:02:05 pm »

4/2/2011

La maggioranza relativa degli italiani

STEFANO PASSIGLI

Caro direttore, malgrado i ripetuti appelli del presidente Napolitano a temperare lo scontro istituzionale in atto, la sua escalation è continuata sino a configurare una situazione di emergenza che fa presagire come possibile una fine anticipata della legislatura. Nella prima repubblica gli scioglimenti anticipati delle Camere erano sempre stati frutto di un ampio accordo tra le forze politiche, o avevano comunque sempre ricevuto l’assenso del maggiore partito: la Dc. La prassi che si era venuta consolidando aveva insomma limitato lo scioglimento anticipato alla impossibilità di trovare una maggioranza di governo alternativa a quella del governo dimissionario o sfiduciato, o ad un sostanziale accordo tra le forze politiche di procedere a nuove elezioni, confinando il Presidente della Repubblica nel ruolo di un mero «notaio».

Tale ruolo è venuto, invece, modificandosi sostanzialmente nella seconda Repubblica. Non vi è dubbio, infatti, che lo scioglimento del 1994 che pose fine all’esperienza del governo Ciampi non sia avvenuto in presenza di un governo che aveva perso la maggioranza parlamentare, bensì per la diffusa convinzione, fatta propria dal presidente Scalfaro, che il Parlamento (il «Parlamento degli inquisiti») non fosse più rappresentativo del Paese. Anche nello scioglimento del 1996, dopo le dimissioni del governo Dini e la rinuncia di Maccanico, ebbe gran peso la convinzione che si dovesse procedere ad un’ampia riforma delle istituzioni in grado di garantire in futuro l’esistenza di maggioranze di governo stabili e coese che il Parlamento eletto nel 1994 non sembrava poter assicurare. In entrambi i casi il ruolo del Capo dello Stato si era dunque modificato: da «notaio» delle volontà di un sistema di partiti forte e strutturato, a presenza attiva pronta in situazioni di emergenza istituzionale ad utilizzare l’art. 88 della Costituzione procedendo in larga autonomia allo scioglimento delle Camere.

L'attuale funzionamento del nostro sistema politico, caratterizzato da scontri istituzionali senza precedenti, da paralisi decisionali, dal ritorno del trasformismo, e da un evidente degrado morale, configura una situazione di crisi assolutamente eccezionale che potrebbe giustificare già di per sé, e in armonia con i precedenti del 1994 e 1996, una decisione presidenziale di scioglimento del Parlamento ai sensi dell’art. 88, assunta in piena autonomia sentiti solo i presidenti delle Camere. Può tuttavia una simile decisione essere assunta in presenza di un governo non sfiduciato che ogni giorno dichiara di voler continuare il proprio cammino?

La risposta a questo interrogativo, più che da precedenti fondati su situazioni di emergenza, viene dal mutato sistema elettorale che, con l'introduzione del premio di maggioranza, ha inciso profondamente sulla rappresentatività della maggioranza parlamentare che ha espresso la fiducia al governo. Non vi è dubbio infatti che in un sistema proporzionale senza premio di maggioranza, la maggioranza parlamentare rappresenti anche la maggioranza degli elettori, e non si possa quindi - salvo momenti eccezionali come nel caso del Parlamento del 1994 - invocare a sostegno dello scioglimento delle Camere il fatto che esse non siano più rappresentative della maggioranza del Paese. Non così in un sistema, come quello adottato con l’attuale legge elettorale (il famigerato Porcellum), ove forze politiche che complessivamente rappresentano oggi il 40% circa degli elettori hanno ottenuto grazie al premio di maggioranza il 55% dei seggi: alla maggioranza in Parlamento non corrisponde cioè - malgrado la frequente, ma infondata affermazione del presidente del Consiglio di essere stato eletto dalla maggioranza degli italiani - una maggioranza degli elettori, che hanno invece dato il 60% dei voti a forze di opposizione che, anche se tra loro sino ad oggi non alleate, rappresentano comunque la maggioranza dell’elettorato ed hanno perciò titolo, in una situazione di crescente emergenza, per richiedere elezioni anticipate. Si aggiunga inoltre che la maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni si è dissolta, e che il governo ha ottenuto una nuova fiducia solo grazie al decisivo apporto di un gruppo di parlamentari eletti nelle liste dei partiti di opposizione, da elettori dunque che avevano espresso il proprio voto contro il premier in carica. Anche prescindendo dal deficit di rappresentatività del Parlamento causato dal premio di maggioranza, l’attuale governo non è dunque il governo scaturito e legittimato dal voto elettorale. Nessun dubbio dunque che se, nella sua totale autonomia di decisione, il Presidente della Repubblica decidesse di sciogliere le Camere, egli non commetterebbe alcuna forzatura, né tantomeno alcun abuso.

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