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Autore Discussione: Tahar Ben Jelloun. Scrivere o fare politica  (Letto 2891 volte)
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« inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:22:01 am »

Scrivere o fare politica

di Tahar Ben Jelloun

Il Nobel a Vargas Llosa e il ruolo dello scrittore nella letteratura e nella società civile

(12 novembre 2010)

Ricordo che nel 1990, quando Mario Vargas Llosa si impegnò nella campagna elettorale per diventare presidente della Repubblica del Perù, io scrissi un suo necrologio che fu pubblicato su un importante quotidiano spagnolo. Seppellivo un grande scrittore per il dispiacere che quello spirito vivo, intelligente e dotato di una forte e possente immaginazione, avesse abbandonato l'arte della creazione per fare politica, sostenuto allora dal governo americano. Scrivevo: "È morto un grande scrittore ed è nato un mediocre uomo politico".
Vargas Llosa esprimeva idee liberali di destra e lottava con tutta la sua forza per convincere gli elettori a votarlo. Era persino scampato a un attentato. Non scriveva più romanzi ma discorsi, scrivevo nel necrologio, discorsi con stile assolutamente convenzionale e poco interessante. Rendevo omaggio al grande scrittore e respingevo il futuro leader politico, manifestando la mia preferenza a favore del primato della creazione letteraria rispetto all'azione politica.

Vent'anni più tardi, è lo scrittore ad aver vinto. Il Nobel è arrivato quando nessuno pensava più a Vargas Llosa. È stato una totale sorpresa. E prova due cose: l'Accademia del Nobel non lascia trapelare informazioni sulle sue scelte; nessuna delle indiscrezioni pubblicate su questo o quel giornale poggia su notizie solide; gli scommettitori inglesi scommettono, ma non sulla base di reali indiscrezioni.
La seconda cosa che vale la pena di notare è che l'Accademia di Stoccolma tiene soltanto a una cosa: la buona letteratura. Il resto non è preso in considerazione. Sapere, per esempio, che Vargas Llosa era definito da certi opinionisti un uomo della destra non ha creato alcun problema. Ciò che ha contato invece è che l'opera di Vargas Llosa è immensa, forte, varia e che forse può essere considerata a pieno titolo una letteratura universale.
Ho incontrato Mario Vargas Llosa a New York tre anni fa. Prendevo il suo posto di Mentore per la letteratura alla Fondazione Rolex.
In quell'occasione abbiamo dibattuto animatamente sulla scrittura narrativa, prima pubblicamente e il giorno successivo in privato.
Io gli ho spiegato che la mia ammirazione per la sua opera era stata incrinata dalla sua avventura politica che, fortunatamente, era stata breve. Lui ha sorriso e non mi serbava rancore per quell'articolo.

Oggi, è lo scrittore a ritornare sulla scena internazionale. Egli è riconosciuto, ammirato e celebrato nel mondo intero più di un capo di Stato. Deve sentirsi appagato, e felice per questa onorificenza. Ciò pone un problema: lo scrittore ha il diritto di fare politica?
È nel suo interesse impegnarsi in un partito, in un sindacato, in una organizzazione e continuare al tempo stesso a scrivere i suoi libri? Sono compatibili le due cose? Occorre distinguere tra lo scrittore e il cittadino. Tanto lo scrittore deve impegnarsi nella scrittura e nel modo di costruire la sua storia con uno stile che sia al servizio del suo universo di romanziere e con totale libertà di immaginare, di inventare e di trasgredire le regole e le convenzioni, tanto il cittadino ha il diritto di reagire e di esprimere le proprie scelte votando e pronunciandosi pubblicamente sui valori che difende. I due atteggiamenti non sono inconciliabili, e talvolta sono anche complementari.
La storia della letteratura ha conosciuto molte ibridazioni tra l'arte e la politica: l'affare Dreyfus motivò Emile Zola a scrivere "J'accuse" e Victor Hugo, Lamartine, Chateaubriand e altri si impegnarono politicamente senza che ciò nuocesse alla loro opera. Occorre distinguere anche tra l'impegno a favore delle idee e l'assunzione al potere politico. Nel caso di Albert Camus, J. P. Sartre, Jean Genet, Michel Foucault e François Mauriac, l'impegno fece parte della loro vita e della loro opera. Si possono ricordare anche i poeti francesi della Resistenza durante l'occupazione tedesca della Francia. Senza la Resistenza e senza i rischi che quegli artisti della parola scritta si assunsero, la loro opera non sarebbe stata la stessa. Questo è il caso di René Char, di Paul Eluard, di Aragon, di Pierre Emmanuel, ecc.

Oggi gli scrittori scrivono senza scendere in piazza, come fu invece il caso di Sartre e Genet.

Taluni scrivono sul disagio del vivere nella Francia odierna; altri scrivono su se stessi. L'impegno, inteso come quello di Zola o di Sartre, non è più "di moda". Viviamo in un'epoca nella quale nella letteratura francese impera l'individualismo. È una fortuna che l'Accademia Svedese abbia avuto mano felice nell'insignire con il Nobel un grande narratore la cui opera per un certo aspetto ha valore universale perché Vargas Llosa, difendendo le proprie idee ed esplorando la sua società, ci parla della condizione umana e delle sue ferite, dei suoi difetti e delle sue qualità. Consapevole del premio che gli è stato conferito, Vargas Llosa non avrà più tempo per pensare di riprendere un giorno a fare politica. Ciò è un'ottima cosa per lui e lo è anche per noi, i suoi lettori e ammiratori.

traduzione di Guiomar Parada

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/scrivere-o-fare-politica/2138106//1
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 09, 2011, 04:57:29 pm »

IL COMMENTO

La rivolta di chi non ha più niente da perdere

di TAHAR BEN JELLOUN

Il capo dello Stato tunisino, Ben Ali, è un ex ufficiale di polizia; e a quanto pare sua moglie, Leila Trabelsi, che gioca un ruolo importante nell'ombra, ha un passato di parrucchiera. Un giorno, mentre mi trovavo in Tunisia, innervosito e a disagio per la presenza della polizia, mi lamentai con un amico di quel clima di alta sorveglianza. E lui, sorridendo, rispose: "Che altro ti aspettavi da un Paese governato da un ex poliziotto e da una ex parrucchiera?"

Ma al di là dell'aneddoto, Ben Ali, al potere dal 1987, dopo un colpo di stato "morbido", si era dapprima lanciato in una lotta senza quartiere contro gli islamisti, per poi dedicarsi alla crescita del Paese. Non ha però mai tollerato nessun tipo di critica, né di contestazione o di opposizione politica. Ha governato il Paese col pugno di ferro, imbavagliando la stampa e tenendo i cittadini sotto sorveglianza. Ad autorizzare la sua posizione rigida, che rifiuta ogni concessione, è stato l'appoggio pressoché unanime della Francia in particolare e degli Stati europei in generale. Tutto funziona secondo la sua volontà: il commercio estero è prospero, i turisti affluiscono in massa; dunque, perché cambiare politica? E soprattutto, perché cedere ai contestatori?

C'è stato bisogno di una scintilla, di una ventata di follia, di un dramma umano per spingere la popolazione a scendere in piazza per manifestare contro questo regime poliziesco: il 17 dicembre un ambulante 26enne si è cosparso di benzina per
immolarsi sulla pubblica piazza di Sidi Bouzid, una cittadina nella zona centrale del Paese. E' deceduto tre settimane dopo. I poliziotti avevano confiscato arbitrariamente la sua carretta di frutta e verdura; e lo sdegno lo ha spinto a farla finita. Il suo non è stato però un gesto impulsivo: da molto tempo subiva i soprusi e il disprezzo dei poliziotti. E' contro questo disprezzo che migliaia di tunisini hanno manifestato per diversi giorni. Quattro i morti: due suicidi e due manifestanti uccisi da colpi di arma da fuoco. Il regime di Ben Ali si è così screditato, e non dovrebbe più poter contare sulla benevolenza degli europei.

Se in Algeria la situazione non è migliore, il contesto delle sommosse di questi ultimi due giorni è però diverso. L'Algeria vive in uno stato di tensione permanente da ormai vent'anni  -  da quando il processo elettorale che stava portando alla vittoria il partito islamista "Front Islamique du salut" fu interrotto. Seguì una guerra civile, costata oltre 100.000 morti. Il terrorismo che si richiama all'islam esiste tuttora, e non ha cessato di commettere crimini ai danni della popolazione civile. Oggi è stato il brusco aumento dei prezzi dell'olio e dello zucchero a scatenare le proteste di una popolazione che si sente depredata, umiliata e sfruttata. Non si comprende perché un Paese ricco come l'Algeria (grazie alla manna del petrolio e del gas, lo Stato dispone di ben 155 miliardi di dollari di riserve di cambio) debba avere una popolazione così povera.

L'Algeria è un Paese ferito, che risente ancora dei postumi della guerra di liberazione. E benché lo Stato si confonda con l'esercito, non riesce a garantire la sicurezza dei cittadini. Gli attacchi dei sedicenti commando islamici si ripetono quasi ogni settimana. Un giovane su tre non trova lavoro. A mezzo secolo dall'indipendenza il Paese continua a soffrire, e non riesce a usare le sue immense ricchezze per avviare uno sviluppo razionale a beneficio di tutti gli strati della popolazione. Eppure l'Algeria può vantare molti intellettuali di qualità, giornalisti di grande talento e coraggio e alcuni formidabili economisti; e ha una popolazione ospitale, buona, generosa, che ama la vita. Ma le cose non funzionano; c'è il peso della storia, in uno Stato non consolidato; i grossolani appetiti di alcuni militari, la corruzione. La Kabilia (la parte berbera dell'Algeria) non ha mai cessato di contestare il potere centrale, che risponde sempre con la repressione. Manca la fiducia tra i politici e i cittadini.

E a tutto ciò si aggiunge l'avanzata dell'islamismo identitario e contestatore. E' nata così una situazione esplosiva, illustrata dalle manifestazioni di questi ultimi giorni. Come in Egitto, come in Tunisia, la gente non ne può più di subire umiliazioni (l'ormai celebra hogra) e scende in piazza al grido di Kifaya! ("basta").

Se in Tunisia e in Algeria il potere non accetta di essere messo in discussione, se al clamore popolare sa rispondere solo con azioni repressive e spargimento di sangue, è perché non ha compreso nulla di quanto accade ai livelli più profondi; e non si rende conto che presto o tardi sarà spazzato via dall'ira di chi non ha più nulla da perdere.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

(09 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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