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Autore Discussione: Stefano Rizzo. America spaccata  (Letto 2204 volte)
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« inserito:: Novembre 04, 2010, 09:14:47 am »

Stefano Rizzo,   03 novembre 2010, 11:31

America spaccata

In gioco c'erano tutti i 435 seggi della Camera, 37 seggi al Senato e 37 posti di governatore. Al Senato i repubblicani hanno vinto sei seggi rispetto a quelli che avevano. Non hanno raggiunto la maggioranza, ma poco importa: già nella precedente legislatura, con una minoranza di 41 seggi, potevano bloccare qualsiasi iniziativa; potranno farlo ancora meglio in questa. L'Elefantino guadagna 60 seggi alla Camera dei Rappresentanti (ben più dei 39 necessari per ribaltare il controllo Democratico e defenestrare il presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi)


I repubblicani hanno vinto e i democratici hanno perso.
Alla camera il Grand Old Party ha guadagnato 60 seggi (gliene bastavano 39 per avere la maggioranza) e ancora 13 seggi debbono essere assegnati. Al senato i repubblicani hanno vinto sei seggi rispetto a quelli che avevano. Non hanno raggiunto la maggioranza, ma poco importa: già nella precedente legislatura, con una minoranza di 41 seggi, potevano bloccare qualsiasi iniziativa; potranno farlo ancora meglio in questa. Anche nella corsa per il governo degli Stati i repubblicani hanno conquistato almeno sei governatori in più (adesso hanno la maggioranza, per quel che vale); ma il democratico Jim Brown è stato eletto governatore della California, il più popoloso stato d'America e l'ottava potenza economica mondiale. I democratici non sono riusciti a conquistare la Florida, come speravano, ma Andrew Cuomo ha vinto a New York e Deval Patrick è stato rieletto nel Massachussetts, mentre in uno stato che due anni fa era stato cruciale per la vittoria di Barack Obama il governatore democratico Ted Strickland è stato sconfitto.

I repubblicani quindi hanno vinto, ma non stravinto; e i democratici hanno perso ma non sono stati spazzati via. Lo speaker del senato Harry Reid ce l'ha fatta in una combattutissima elezione, ma alcune altre figure di spicco del partito democratico, come Russ Feingold (autore con John McCain di una importante legge sul finanziamento della politica), sono stati battuti da candidati repubblicani praticamente sconosciuti. I Tea Party avevano registrato grandi successi nelle primarie, e il giorno delle elezioni hanno conseguito alcune importanti vittorie, come quella di Rand Paul nel Kentucky e di Marco Rubio in Florida, ma anche alcune cocenti sconfitte come quella in Delaware di Christine O'Donnell, la giovane donna dedita (così aveva dichiarato) a pratiche di occultismo e fortemente sponsorizzata dalla regina dei Tea Party Sarah Palin.

In buona sostanza si può dire che l'ondata riformatrice che si era manifestata con le elezioni parlamentari del 2006 e che aveva conquistato presidenza e congresso nel 2008 è arretrata, ma non è scomparsa nella sabbia. I democratici possono consolarsi con i precedenti storici.
In quasi tutte le elezioni di midterm degli ultimi 60 anni il partito del presidente in carica ha perso uno o entrambi i rami del parlamento. I politologi concludono salomonicamente che l'elettorato americano non ama che un solo partito controlli presidenza il congresso e preferisce distribuire le responsabilità, vale a dire che vengano premiate le virtù del "compromesso", della mediazione, rispetto a quelle dell'efficienza del sistema.

Allo stesso tempo si può sostenere che il frequente cambio di maggioranza, appena due anni dopo un'elezione presidenziale, è indice della scarsa pazienza dell'elettorato, della sua cronica sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche (prima di queste elezioni il giudizio sull'operato del congresso era ai minimi storici) -- tratti che si manifestano particolarmente in periodi di incertezza o di acute tensioni economiche e sociali. Così avvenne nelle elezioni di midterm del 1938, con Roosevelt presidente, nel pieno ancora della seconda ondata della Grande depressione, in quelle del 1946 sotto Truman alla fine della seconda guerra mondiale, del 1966 sotto Johnson nel corso delle asprissime battaglie per i diritti civili, del 1982 con Reagan, e ancora nel 1994 sotto Clinton e nel 2006 sotto Bush figlio. In tutti questi casi l' "impazienza" dell'elettorato nei confronti del presidente che aveva eletto due anni prima aveva portato ad un cambio di maggioranza nel congresso. Dopo di che, il più delle volte, dopo altri due anni il presidente in questione veniva rieletto trionfalmente.

Del resto, per spiegare questa volubilità dell'elettorato, bisogna ricordare che non si tratta degli stessi elettori, o meglio che l'insieme dei votanti non è lo stesso. Nelle elezioni presidenziali vota mediamente il 60 per cento degli aventi diritto; in quelle di midterm meno del 40 per cento, e anche in queste ultime sembra che sarà rispettata la regola. Il che vuol dire che a pronunciare la sentenza di condanna nei confronti di Obama e del suo partito è stato soltanto un quinto del corpo elettorale, anche se si tratta del quinto più motivato, più "arrabbiato", più politicamente impegnato; non necessariamente il quinto meglio informato e consapevole, dal momento che i candidati repubblicani sono stati eletti per lo più sulla base di slogan confusi e contradditori come quello di ridurre le tasse e - contemporaneamente - il deficit statale, o di "riappropriarsi dell'America" contro un governo spendaccione e invadente.

Nel 60 per cento di elettori che non sono andati a votare ce ne sono ovviamente molti che due anni fa aveva fatto vincere i democratici e che questa volta non hanno ritenuto di accogliere gli appelli al voto fatti in innumerevoli comizi da Obama stesso, da Bill Clinton e da altre figure di spicco del partito democratico. Ma non è colpa loro se sono rimasti a casa. Il fatto è che l'americano medio pensa di vivere in un sistema istituzionale in cui il presidente può più o meno tutto. Pensa che le elezioni che veramente contano sono quelle presidenziali e che, una volta eletto un presidente, non resta che vedere cosa riuscirà a concludere. Nessuno evidentemente gli ha spiegato che invece si tratta di un sistema "diviso" che può funzionare solo se i due poteri pariordinati - congresso e presidente -- si mettono d'accordo; mentre se il congresso non è d'accordo il presidente nulla può fare per piegarlo e viceversa. Un sistema che è stabile solo all'apparenza, mentre invece è in continuo flusso e riflusso; che di fatto provoca spesso la paralisi a discapito dell'efficienza e che raramente consente al presidente di attuare il programma di governo in base al quale è stato eletto.

Quello che era un difetto (o una peculiarità, se si preferisce) del sistema è diventata negli ultimi venti anni la regola del suo funzionamento. Clinton ha dovuto rinunciare (scandali a parte) a realizzare il suo programma riformatore. George Bush ha potuto fare le sue guerre, ma in politica interna non ha realizzato, se non in piccola parte, quella svolta a destra che aveva promesso e che il suo elettorato fondamentalista chiedeva. Solo presidenti dotati di un grande carisma personale hanno saputo superare l'impasse appellandosi a tutto l'elettorato e proponendosi come figure guida al di sopra dei partiti. Nella storia degli Stati Uniti sono i presidenti che hanno coinciso con grandi momenti riformatori (o restauratori): Roosevelt con il New Deal, Kennedy e Johnson con la Nuova frontiera e la Great Society, Reagan con il suo "è di nuovo mattino in America".

Obama si trova in questa situazione. Queste elezioni dicono che il paese è profondamente spaccato: è diviso tra ricchi e poveri, tra conservatori e liberal, tra bianchi e neri, tra anziani e giovani, tra abitanti delle campagne e abitanti delle città; i primi votano a larga maggioranza per i repubblicani, i secondi per i democratici. Il problema che ha davanti non è in via principale quello di essere rieletto tra due anni - il suo talento organizzativo e il fascino della sua oratoria con ogni probabilità glielo consentiranno. La vera sfida è di riuscire a realizzare, nonostante il sistema istituzionale americano, il suo programma di riforme e di trasformazione della società, senza cadere nella anodina (e inadeguata) "triangolazione" di Bill Clinton. Per fare questo dovrà essere in grado di parlare a tutta l'America gettando un ponte tra le sue due metà divise.

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