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Autore Discussione: A sinistra fa' più comodo dar ragione a Romiti che trattare con Marchionne  (Letto 3820 volte)
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« inserito:: Agosto 31, 2010, 03:26:12 pm »

Alfonso Gianni,   30 agosto 2010, 21:13

Cosa vuole la Fiat?

La riflessione     

Lunedì 30 agosto si sono riaperti i cancelli dello stabilimento di Mirafiori. Ma sono entrati solo gli impiegati. Gli operai sono rimasti a casa e ci resteranno per un'altra settimana, scontando una cassa integrazione a zero ore. Insomma a Torino non si produce perché la situazione attuale del mercato automobilistico non permette di assorbire il prodotto. Il cavallo non beve


La vendita di autovetture è in caduta. Non c'è da stupirsene visti il basso reddito degli italiani e il prolungarsi senza prospettive di ripresa della crisi. Contemporaneamente Marchionne e la proprietà Fiat fanno i diavoli a quattro per imporre l'accorciamento dei tempi delle lavorazioni agli operai del Sud, quelli di Pomigliano d'Arco e di Melfi. Il famigerato World class manufacturing che dovrebbe aumentare la produttività degli impianti grazie alla intensificazione dello sfruttamento del lavoro vivo, saturando ogni secondo di presenza in fabbrica degli operai. Se questi ultimi si ribellano si ricorre a metodi duri, come a Melfi, anche se questo sconta l'isolamento della Fiat rispetto alle stesse istituzioni laiche e persino religiose.

La contraddizione è palese e clamorosa. Ma non siamo di fronte a un improvviso impazzimento, perché viene avanti un progetto complesso e difficile ma ostinato di ristrutturazione della multinazionale Fiat e di ridisegno delle relazioni industriali negli impianti produttivi e nella società. Viviamo uno di quei momenti in cui, se vi fossero forze all'altezza, si potrebbe facilmente cogliere un nesso stringente fra il cielo della politica e la dura terra della vita materiale e del lavoro. In questo caso, del lavoro classico, quello operaio, quello che, seppure per troppo tempo oscurato e dimenticato, resta il meno complicato da interpretare, se non altro perché più tradizionale rispetto alle nuove forme spurie che il lavoro ha assunto nella modernità capitalistica.

Conviene perciò riassumere alcuni punti.
Il progetto Fabbrica Italia è in realtà guidato da una Fiat che è una fabbrica-mondo. Come ha ricordato anche Romiti in un'intervista particolarmente acida nei confronti di Marchionne, l'internazionalizzazione della Fiat non è cosa di adesso né frutto della genialità imprenditoriale del nuovo Ad. E' cominciata decenni fa e Romiti ne fu uno dei protagonisti. Ma attualmente un cambiamento c'è ed è sensibile. La testa e il cuore della Fiat sono negli Usa. E' da lì che Marchionne scruta il mondo per decidere cosa più conviene all'azienda, quali sono i paesi in cui è più utile localizzare gli impianti e le produzioni, dove il mercato va aggredito con maggiore determinazione e tempestività. E' come se fosse la Chrysler ad avere sussunto Fiat e non viceversa, come ha osservato anche Scalfari. E' un raro caso - qui sta la bravura di Marchionne, vista dal punto di vista degli interessi che difende - in cui da due debolezze, Chrysler e Fiat, può emergere una nuova forza competitiva sul mercato mondiale.
Ma il percorso è duro. Infatti per molte ragioni Volksvagen e Renault sono messe meglio. Tra questi motivi vi è in primo luogo la rilevante presenza di capitale pubblico in quelle imprese, che restano quindi "campioni nazionali" che i rispettivi governi non vogliono affatto abbandonare al loro destino. In fondo è questo lo stesso motivo per cui nel confronto con Fiat, Crysler, che pure sembrava in condizioni addirittura disperate, stava meglio e quindi in posizione dominante nel loro matrimonio. Vi è un'altra ragione , su cui tornerò più avanti: la presenza tanto nella fabbrica americana che in quella tedesca, ma in maniera tra loro ben differente, di una partecipazione gestionale da parte dei lavoratori. In assenza di queste condizioni, Fiat ha scelto una linea di puro scontro per la competitività, basata sulla ulteriore riduzione del costo del lavoro e sull'incremento dello sfruttamento del lavoro vivo.

Questa strategia viene applicata nel contesto europeo, oltre che de localizzando nei paesi dell'Est, cercando di allineare verso il basso le condizioni di lavoro. La Fiat tratta l'intero mezzogiorno d'Italia alla stregua dei paesi di nuovo ingresso nella Ue, sposando, sul terreno della dimensione economica e produttiva, la strategia politica dell'Europa a due o tre velocità, che viene perseguita dai paesi più forti, in primis la Germania, come possibile esito della crisi economica mondiale e dell'incapacità dell'Europa di trasformarsi in un vero soggetto politico.

Come ha osservato un acuto giornalista economico come Massimo Mucchetti, per quanto sia forte la dimensione mondiale della nuova Fiat, il mercato italiano rappresenta pur sempre il 40% delle vendite dei suoi prodotti. Non può quindi essere abbandonato anche per la vicinanza con così importanti insediamenti produttivi. Per Marchionne si trattava quindi di impostare e innovare una linea di comportamento nei confronti di un governo particolarmente afono in tema di politiche industriali, al punto da considerare del tutto pleonastica la nomina di un ministro allo sviluppo economico. Lo ha fatto in due modi, fra loro solo apparentemente contradditori. Da un lato non ha smesso di lamentarsi dell'assenteismo del governo, contrapposto al presenzialismo di quello americano. Dall'altro ha abbandonato le tradizionali richieste di nuove incentivazioni, puntando tutto sulla modificazione delle regole del lavoro. In una recente intervista il ministro del lavoro Sacconi ha fatto sua questa linea, citando Marco Biagi secondo cui possono essere assai più utili le deroghe contrattuali che non le incentivazioni governative. Questa è l'idea base padronale del cosiddetto contratto auto e dà ragione della durezza dello scontro stabilimento per stabilimento, fino al punto di costruire false accuse di sabotaggio nei confronti dei tre lavoratori di Melfi e di resistere alla loro piena reintegra nel posto di lavoro disposta dal Tribunale.

Marchionne ha fatto al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini un discorso che da alcuni è stato considerato persino troppo plateale. In effetti lo stesso Romiti lo ha duramente ripreso. Il vecchio leone degli scontri in Fiat degli anni '80 ha smentito Marchionne sul punto centrale. Non è vero che i conflitti di interessi sono finiti. Anzi sono praticamente eterni e dal modo come si risolvono può dipendere lo sviluppo di un'impresa, anche per quanto riguarda l'innovazione di prodotto. Una lezione di marxismo? No, semplice realismo e consapevolezza della realtà sociale. Possibile che queste doti essenziali manchino del tutto a Marchionne? No, certo. Allora il suo discorso a Rimini va interpretato in un altro modo. Marchionne non solo voleva dividere il sindacato, obiettivo già largamente conseguito, ma negare l'irriducibilità del conflitto capitale-lavoro al fine di creare nuove condizioni per una sorta di corresponsabilità subordinata dei lavoratori, o meglio delle loro organizzazioni sindacali, alle decisioni dell'impresa. In questo senso vanno probabilmente anche reinterpretate le sue vecchie dichiarazioni "buoniste" che avevano trovato credito anche a sinistra. Infatti gli ha fatto subito eco Bonanni, che ha immediatamente colto la palla al balzo per riproporre la vecchia proposta Cisl di una partecipazione agli utili dell'impresa, in modo da legare le sorti del lavoro dipendente alle decisioni imprenditoriali. Naturalmente la partecipazione agli utili è cosa tutta diversa dal diritto all'informazione di cui ci aveva parlato per anni Bruno Trentin e tanto più dalla codecisione o dalla presenza di rappresentanti di lavoratori nei consigli di sorveglianza, come avviene in Germania. Infatti non presuppone alcun ruolo strategico riconosciuto al lavoro in quanto tale nelle decisioni strategiche, ma semplicemente una ridistribuzione delle briciole dei frutti di decisioni aziendali indiscutibili.

Come si può vedere, Marchionne ha agito in simbiosi con la politica dell'attuale governo, malgrado qualche battuta critica, tracciandone in alcuni momenti la strada. L'esempio più evidente è l'atteggiamento nei confronti della magistratura. Gallino si spinge fino a dire che Marchionne vuole dimostrare che gli investimenti vanno portati all'estero perché non solo con il sindacato ribelle che è la Fiom non si può lavorare, ma nemmeno con questi giudici che si permettono di imporre il diritto a lavorare, e non solo a percepire una retribuzione. Non so se il ricatto è l'obiettivo principale o una risultante. Quello che è certo che la delegittimazione della Magistratura, delle istituzioni democratiche , a cominciare dalla Presidenza della Repubblica e la strafottenza nei confronti degli interventi di alti rappresentanti del clero sono le stesse che Berlusconi pratica da tempo. Anzi sono più pericolose, perché non si riferiscono agli affari platealmente esibiti del Presidente del Consiglio, ma sono ammantate dalla retorica sugli interessi nazionali e della pretesa modernità (dove questa stia, visto che siamo alla reintroduzione del taylorismo, solo i cantori di Marchionne lo sanno). In altre parole la Fiat si pone, con la linea Marchionne, come un potente agente della trasformazione regressiva della costituzione materiale del nostro paese.

Siamo di fronte a un piano articolato e ambizioso. Ad una scelta politica, non certo tecnica né puramente economica o squisitamente aziendale. Una scelta che ha l'ambizione, ma solo questa, di porsi all'altezza della nuova fase imposta dalla crisi della globalizzazione. Ma con tutto ciò non è affatto detto che riesca. In primo luogo perché quel "residuo" di irriducibilità operaia di cui ci aveva spesso parlato Claudio Napoleoni, si è rivelato assai più consistente di quanto non si potesse sperare e niente affatto isolato, pur venendo da una condizione di sconfitta e di marginalizzazione. In secondo luogo perché un disegno di ristrutturazione essenzialmente fondato su un nuovo taylorismo produttivo e su una tattica nella quale si alternano il bastone del cambiamento autoritario delle regole del gioco e la assai più vaga prospettiva di una partecipazione agli utili che dovrebbero provenire da un mercato in piena crisi, è destinato in partenza all'insuccesso. Neppure l'astuzia carismatica di Marchionne può dribblare l'ostacolo di una sovrapproduzione mondiale endemica. Questa può essere affrontata solo con una rivoluzione nella scelta dell'oggetto della produzione, ossia nella riconsiderazione complessiva del problema della mobilità su scala mondiale e del suo fin qui micidiale impatto sull'ambiente. Se si punta sui Suv della Chrysler o sulla nuova Panda la sfida è persa comunque.

* Articolo pubblicato su Gli Altri
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 31, 2010, 03:28:45 pm »

Leo Sansone,   30 agosto 2010, 21:10

Marchionne alza il prezzo su Politica e lavoro     

La Fiat a settembre incontrerà i sindacati. L'unica soluzione allo scontro è una mediazione sulle flessibilità del lavoro accettabile anche dalla Cgil. L'Italia corre il rischio di veder emigrare le produzioni nell'Europa dell'est e in America. Termini Imerese chiuderà, Mirafiori rischia lo smantellamento, Pomigliano d'Arco ancora non è fuori pericolo


Dalla fine del 2011 la Fiat produrrà a Kragujevac il nuovo modello "L 0", la monovolume che sostituirà Idea, Musa e Multipla, le auto ora costruite a Mirafiori. Cosa succederà nello stabilimento di Torino? Non si sa. O meglio: voci parlano dell'arrivo di modelli sostitutivi, ma per adesso l'unica notizia certa è il trasferimento in Serbia di una produzione per quasi 200 mila auto l'anno.
Una bella incognita da risolvere. "L'unica area del mondo in cui Fiat è in perdita è l'Italia", ha lamentato Sergio Marchionne intervenendo al Meeting di Cl a Rimini. "In Italia ci manca la voglia e abbiamo paura di cambiare", ha osservato l'amministratore delegato di Fiat e di Chrysler. Quindi ha proposto un nuovo "patto sociale" per mettere la parola fine alla contrapposizione tra lavoratori ed imprenditori.
Mentre Marchionne tiene coperte le sue carte su Mirafiori, la culla della Fiat, chiede la fine della conflittualità sociale tra operai e padroni. C'è chi teme che l'impianto di Torino possa fare la fine di Termini Imerese, lo stabilimento siciliano per il quale è stata annunciata la chiusura (produce la Lancia Y). Ma le carte Fiat sono coperte per tutte le fabbriche italiane del gruppo. Si sa solo che Marchionne vuole più flessibilità del lavoro, più produttività, meno assenteismo e meno scioperi, sul modello dell'intesa firmata per Pomigliano d'Arco dai sindacati metalmeccanici di Cisl, Uil e Ugl, ma non dalla Fiom Cgil. Senza quest'accordo, approvato anche dai lavoratori con un referendum, la nuova Panda non sarebbe stata prodotta nello stabilimento campano.
Come è possibile un nuovo patto sociale se Marchionne non dice in cosa consiste "Fabbrica Italia", il programma che dovrebbe più che raddoppiare la produzione di 600 mila auto in Italia? Come è possibile un accordo con i sindacati, Cgil compresa, se la Fiat non dice come e dove vuole impiegare i 20 miliardi di euro d'investimenti annunciati per l'Italia? L'uomo in "maglione blu" che ha conquistato la Chrysler vuole un nuovo contratto di lavoro per l'auto che dia il disco verde alle flessibilità introdotte a Pomigliano.

Su questo tema i sindacati e la Federmeccanica si dovrebbero vedere nei prossimi giorni. Il 7 settembre si riunirà il consiglio direttivo della Federmeccanica e l'8 toccherà al comitato centrale della Fiom fare il punto della situazione. E' giusto che la Fiat recuperi competitività. Ridurre il costo del lavoro, che incide per il 7-8% sul totale, come precisò anche Marchionne qualche tempo fa, non è la strada maestra per un rilancio. Il Lingotto dopo la fine degli incentivi per le rottamazioni, negli ultimi mesi, ha visto un crollo delle vendite in Italia e in Europa di oltre il 30%, ben oltre la flessione accusata dai mercati. In realtà i modelli della Fiat piacciono poco ai compratori, non è un problema di prezzi. La 500 e la Panda, gli unici due modelli che tirano, sono prodotti a Tilchy, in Polonia. Così, dopo le vacanze estive, è arrivata la cassa integrazione per gli operai di Pomigliano e di Mirafiori.
Sono troppe le zone d'ombra. Finora sui nuovi modelli da produrre in "Fabbrica Italia" (Mirafiori, Cassino, Melfi, Bertone e la stessa Pomigliano) il mistero è fitto. L'azienda ha usato "bastone" e "carota". Anzi si è visto quasi solo "il bastone" nelle relazioni sindacali, come è successo per i 3 lavoratori della Fiom licenziati a Melfi con l'accusa di aver sabotato la produzione durante uno sciopero. La mano dura è proseguita anche con il no del Lingotto all'ordine del magistrato di reintegrare i 3 operai al lavoro (viene pagato solo il salario). Finora gli inviti al dialogo e a rispettare la dignità dei lavoratori, lanciati da Giorgio Napolitano e dai vescovi italiani, sono rimasti quasi lettera morta.

Marchionne alza il prezzo per realizzare "Fabbrica Italia". L'amministratore delegato di Fiat e Chrysler ha già annunciato che valuterà "caso per caso" se effettuare gli investimenti previsti. E' stato ad un passo dal cancellare l'impegno di produrre la nuova Panda a Pomigliano, lasciando la costruzione della futura vettura in Polonia. Certo se vuole effettivamente un nuovo patto sociale in Italia, come quello realizzato negli Stati Uniti d'America per salvare la Chrysler, deve giocare a carte scoperte, mettere da parte i comportamenti gladiatori e incominciare a dialogare senza retropensieri con Guglielmo Epifani.
Il segretario della Cgil non può permettere l'evaporazione degli investimenti Fiat con la conseguente chiusura degli impianti in Italia e il trasferimento delle produzioni nell'Europa dell'Est e in America del Nord o del Sud. Certo Epifani, nell'incontro con Marchionne che dovrebbe tenersi a settembre, è pronto ad un serio confronto, ma non è disposto alla resa. Si dovrà trovare una mediazione praticabile, mettendo da parte i diktat. Marchionne ricorda la linea dura di Cesare Romiti del 1979-1980 mentre Gianni Agnelli interpretava la parte del capitalista illuminato. "Vede, il dottor Romiti è cattivo per contratto", confidò l'Avvocato ad un giornalista. John Elkann, presidente della Fiat, segue le orme del nonno.

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