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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA. - Dalla Chiesa e il pane della legalità  (Letto 2590 volte)
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« inserito:: Settembre 04, 2010, 09:40:47 am »

4/9/2010

Dalla Chiesa e il pane della legalità

FRANCESCO LA LICATA

C’è un lugubre rituale che da troppo tempo accompagna le calde estati palermitane: le commemorazioni dei caduti sul fronte della lotta alla mafia. Chissà per quale intreccio del destino o quale scelta strategica, gran parte delle più efferate stragi mafiose sono state compiute nei mesi più caldi dell’anno. Ed è forse anche per questo, per la coincidenza delle celebrazioni col periodo feriale che, ogni volta di più, perdono di intensità fino ad appiattirsi nella stanca ripetitività.

D’altra parte, come non cedere alla stanchezza se la lista dei lutti si è allungata a dismisura, insieme con l’immancabile, autistico esercizio di retorica del potere che rivendica successi ma non sa spiegare mai perché, pure a fronte di innegabili battaglie vinte, non si arrivi mai alla vittoria finale.

Ieri a Palermo si è celebrato l’anniversario dell’eccidio di via Carini, che costò la vita a Carlo Alberto Dalla Chiesa, alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo. C’erano tutte le autorità dello Stato presenti, e quelle che non c’erano hanno inviato messaggi. Mancava la famiglia, i figli del generale, che hanno fatto sapere di aver scelto il ricordo privato lontano da Palermo dove non è difficile «incappare in cattivi incontri».

Eppure, anche in assenza dei portatori del «dolore autentico», tra l’effluvio del cordoglio burocratico è affiorato il tema che da sempre accompagna il ricordo del generale mandato in Sicilia a combattere la mafia a mani nude, senza mezzi e senza leggi adatte a quella guerra. E’ il tema della solitudine di Dalla Chiesa che è anche la solitudine di tutti gli uomini dello Stato, caduti perché isolati da un potere che a parole rivendica la volontà di ripristinare la legalità in un vasto territorio nazionale abbandonato al controllo delle mafie, grandi e piccole, e coi fatti fa poco per rendere vincenti gli sforzi dei suoi migliori servitori.

Carlo Alberto Dalla Chiesa era un condottiero che aveva vinto qualche battaglia, anche quella essenziale per la sopravvivenza dello Stato e della democrazia: la lotta al terrorismo politico. Ma non era solo, il generale, mentre ingaggiava quello scontro epocale. Aveva accanto a sé lo Stato, i partiti dell’opposizione, i sindacati, la società civile, la politica: tutti schierati a far muro contro l’eversione. E, qualche anno dopo, investito della responsabilità di liberare un Paese ferito dalla mattanza mafiosa, pensava di trovare accanto a sé la stessa solidarietà. Chiese poteri speciali, che non gli vennero concessi. Anticipò che non avrebbe avuto riguardo per la politica corrotta, già da tempo studiata e conosciuta come alleata e «valore aggiunto» delle cosche. E infine denunciò - su suggerimento di Pio La Torre ucciso a maggio dello stesso anno - l’anomalia della presenza di forti interessi imprenditoriali della Sicilia orientale ormai ramificati a Palermo.

Questo lo scenario che accolse il «prefetto sabaudo» nella terra dei gattopardi. Eppure non era soltanto il gioco grande che perseguiva il generale. Dalla Chiesa sperava (ma non troppo) che la politica avrebbe fatto la propria parte anche nella direzione dei piccoli passi, nel tentativo di ripristinare quotidianamente la legalità delle regole minime. Per esempio rompere con la consuetudine della tolleranza dell’illegalità diffusa che porta a considerare un contrabbandiere un «poveraccio che non fa male a nessuno». Ma quando il generale avviò una campagna per impedire la vendita del pane (prodotto in clandestinità e senza garanzie igieniche) nei giorni di chiusura dei panifici, fu sommerso dall’ironia e dai sorrisetti dei politicanti che anteponevano a tutto il vantaggio personale del voto dei panettieri clandestini. C’è un brano del suo diario, idealmente indirizzato alla prima moglie morta, che descrive perfettamente la sua solitudine e le sue difficoltà. Sui poteri non concessi scrive: «... Promesse, garanzie, sostegni sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano. Mi sono trovato d’un tratto in... casa d’altri ed in un ambiente che da un lato attende dal tuo Carlo i miracoli e dall’altro va maledicendo la mia destinazione ed il mio arrivo».

Quanto profetiche suonano queste parole. Perché è proprio questo il nodo dell’irrisolto problema della lotta alla mafia. C’è l’aspetto della repressione e dello scontro militare: gli arresti, le indagini, il sequestro dei beni, le condanne. E su questo terreno bisogna dare atto al governo di essere riuscito ad assestare colpi su colpi e ad indebolire l’organizzazione criminale. Ciò che sembra non essere granché mutato è l’atteggiamento, diciamo, «culturale» nei confronti della «mafiosità», che a volte risulta più pericolosa e pervasiva delle lupare e del tritolo. La guerra si vince se si rende «conveniente» la scelta della legalità, ma per ottenere questo risultato è indispensabile che dall’alto calino ben altri esempi da seguire.

Un capomafia arrestato viene immediatamente sostituito, ma un boss che perde il consenso del suo «popolo» è davvero finito. Se vincono le cricche, le consorterie, se lo Stato ingaggia una guerra quotidiana con la propria magistratura indicandola come «controparte», se l’interesse personale prevale sul bene della collettività, non saranno sufficienti mille arresti e mille condanne.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7783&ID_sezione=&sezione=
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