17/8/2010
Elezioni in Birmania, l'impegno dell'Ue per scardinare il regime
PIERO FASSINO*
Caro direttore,
per la prima volta dopo 20 anni, il prossimo 7 novembre i cittadini del Myanmar torneranno a votare.
Lo scenario non è certo incoraggiante: Aung San Suu Kyi - che sarà finalmente liberata, ma soltanto il 27 novembre - non vi potrà partecipare; il suo Partito - la Lega Nazionale per la Democrazia che conquistò nel ’90 un trionfo elettorale soffocato dai militari - ha deciso di non concorrere; la legge elettorale contiene norme restrittive che suscitano non pochi dubbi; e soprattutto pesa il clima di ferreo controllo del regime sul Paese, di cui sono testimonianza drammatica gli oltre 2000 prigionieri politici.
Nonostante queste difficoltà e questi ostacoli, tuttavia, è doveroso chiedersi se queste elezioni possano costituire una prima parziale opportunità. Una fase elettorale, infatti, è sempre un momento dinamico: si formano partiti, si attivano candidature, si promuovono iniziative elettorali, si mobilita la società civile. Verrà eletto un Parlamento - che oggi non c’è - e si formerà un governo civile che potrebbe rappresentare un fattore di evoluzione, sulla scorta di quanto già accaduto in altri Paesi asiatici, come in Indonesia, che ha conosciuto il passaggio graduale da un regime militare a un governo civile.
Certo, le insidie sono moltissime e l’esperienza del plebiscito referendario del 2008 non incoraggia le speranze. E, tuttavia, nulla garantisce che la transizione democratica avrebbe maggiori possibilità se si rifiutassero a priori le elezioni. Anche perché occorre essere consapevoli che le sanzioni hanno un valore morale e politico, ma una scarsa efficacia perché adottate da Europa e Stati Uniti, ma non dai Paesi asiatici, con cui il Myanmar intrattiene oltre l’80% delle sue relazioni economiche. E peraltro isolare il Paese non aiuta certo le forze di opposizione e la società civile nel loro impegno quotidiano per una evoluzione democratica.
D’altra parte è significativo che, mentre la maggioranza della Lega Nazionale per la Democrazia ha deciso di non registrarsi per partecipare alle elezioni, una parte della stessa Lega - in particolare i leader più giovani - abbia deciso invece di tentare la sfida. E su 33 partiti finora registrati ve ne sono alcuni formati da significativi esponenti di opposizione con lunghi periodi di carcere alle spalle, i quali, pur consapevoli dei ridotti margini, hanno deciso di scommettere proprio sulla possibilità di aprire spazi a una transizione democratica. E analoga scelta sta maturando nelle principali minoranze etniche del Paese, che partecipando alle elezioni puntano a conseguire una più forte e riconosciuta rappresentanza.
Una sfida difficile, dunque, che richiama anche la responsabilità della comunità internazionale, il cui compito non è attendere passiva quel che accadrà il 7 novembre, ma agire adesso. Tant’è che sia l’amministrazione Obama, sia l’Unione Europea - pur mantenendo i giudizi severi fin qui espressi e confermando le sanzioni - al tempo stesso hanno avviato una strategia di engagement e interlocuzione con le autorità birmane, con l’obiettivo di sollecitarne un atteggiamento di apertura. Una strategia che vuole incoraggiare anche l’Asean, i suoi Paesi membri - in primo luogo l’Indonesia - e i grandi players della regione, come la Cina, a esercitare la loro influenza nella stessa direzione.
Saranno i prossimi mesi a dirci se la scommessa per aprire la strada della democrazia in Myanmar avrà avuto esito.
*Inviato speciale dell’Unione Europea per la Birmania/Myanmar
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