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Autore Discussione: BRUNO VENTAVOLI Il mondo finisce a Debrecen  (Letto 2197 volte)
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« inserito:: Giugno 10, 2010, 12:29:18 am »

9/6/2010

Il mondo finisce a Debrecen
   
BRUNO VENTAVOLI

Allora è vero che un battito d’ali di farfalla scompiglia il mondo. Lo ha dimostrato giovedì Lajos Kósa, brillante deputato del Fidesz e sindaco di Debrecen. I più hanno bisogno di Google maps per situare esattamente questa città ungherese.

E’ partita da laggiù, da Debrecen, 200 mila abitanti, capitale morale del calvinismo, austera, contadina, raccontata con nostalgia dalla scrittrice Magda Szabó, e finita nel calcio della Champions, la tempesta perfetta che ha messo in ginocchio i mercati finanziari, già moribondi. Al mattino, Kósa, sempre elegante, sempre carismatico e gioviale, ha sostenuto in una conferenza locale, con aria furbesca, che l’Ungheria è come la Grecia, i conti pubblici stanno malissimo perché la sinistra prima al governo ha truccato le cifre. Nella Borsa di Budapest è subito serpeggiato il panico. Ma roba da poco per il mondo, i fiorini erano ancora farfalle.

Kósa non è l’ultimo arrivato. Vicepresidente del partito che ha vinto le elezioni, da tre mandati viene eletto al Parlamento e al vertice della città, e sul sito web di Debrecen saluta in inglese i visitatori. E’ il simbolo della nuova destra magiara. Nato nel ’64, giocava a biglie quando c’erano i comunisti al potere e immense caserme di russi a controllare la situazione, ed è entrato nell’età della ragione quando il patto di Varsavia scricchiolava con le aperture di Gorbaciov. Si è laureato in economia nell’università che si chiamava ancora «Karl Marx», ma voleva finalmente vedere i negozi ungheresi pieni d’abbondanza occidentale, guardava al mercato, al capitalismo, alla «microeconomia». Prima del crollo del Muro, universitario, è stato tra i fondatori del Fidesz, giovani liberali impetuosi come sempre ce ne sono stati nella storia magiara. Solo che non avevano i capelli lunghi alla Petöfi, ma un taglio yuppesco e giacca e cravatta, non declamavano versi, ma cifre di Pil. E non ne potevano più di Mosca.

Parlare male del comunismo è nella loro lingua, nel loro inconscio, nella loro foga. Anche comprensibile, visto che le sfilate del primo maggio, da piccolini, se le sono dovute sorbire tutte. Parlare male del comunismo è la loro arma politica più affilata, anche se il comunismo non esiste più. I neosocialisti, che hanno appena umiliato alle ultime elezioni, avevano per leader Gyurcsány, uno degli uomini più ricchi del Paese, «un socialista in limousine». Kósa, come i suoi colleghi di partito, appena vede un microfono attacca gli avversari. Serve, propagandisticamente, a pararsi le spalle: ora che sono al governo, è difficile mantenere le promesse elettorali di risolvere la crisi senza tagliare e mettere tasse.

Venerdì la Borsa di Budapest apre tremebonda. I giornalisti finanziari vogliono capire se, a Debrecen, Kósa era solo in vena di boutade. No, niente affatto, ripete con tono grave Péter Szijjártó, portavoce del governo. E’ un altro giovane Fidesz ambizioso, ha solo 32 anni, celibe (e di comunismo vero ha visto quasi niente), elegante, un po’ nerd, professionista della comunicazione. Anche lui ha fatto studi economici, e anche lui, appena vinte le elezioni, aveva detto in un’intervista che le sinistre avevano truccato i conti. E così non gli par vero di confermare il collega. Anzi, da «voce» del governo, ci mette un puntiglio di gravità in più, pronunciando la parolaccia «default». Ma non riesce a godersi l’affondo retorico, perché ormai, nel mercato globale, tutto il mondo è Debrecen. Dopo il primo lancio di agenzie la Borsa ungherese è precipitata dell’8%. Le Borse mondiali, che già annaspavano per i dati sull’occupazione americana, la seguono con l’euforia dei naufraghi nel baratro. Il golia Wall Street vacilla colpito dal davide magiaro che scaglia polpette avvelenate alla paprika. Nel bagno di sangue è una gara a vendere qualsiasi titolo collegato all’Ungheria, soprattutto le banche europee.

Quando i mercati finanziari son pieni di cadaveri il governo ungherese fa marcia indietro. E tutti, in poche ore, da Draghi alla Ue, s’affrettano a gettare acqua sul fuoco in ogni angolo del pianeta. Moody’s spiega che l’Ungheria non è la Grecia, Szijjártó e Kósa «hanno straparlato, tipico di un nuovo governo». Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fmi, dal G20 in Corea, si dice «stupito», perché i conti ungheresi sembrano in linea con le previsioni. Lunedì scorso, l’allarme rientra. Il mercato globale non ha problemi a trovare spunti di pessimismo, l’Ungheria torna ad essere solo Ungheria. Chissà, invece, che cosa torneranno ad essere i ruggenti Szijjártó e Kósa? Il segretario di Stato Mihály Varga ha preso ufficialmente le distanze dalle «sfortunate» esternazioni sull’insolvenza nazionale, anche se dieci giorni fa aveva detto la stessa cosa, «c’è un allarmante numero di scheletri nell’armadio», ipotizzando un deficit del 7% (dovrebbe essere al 3,8%).

Intanto, gli ungheresi, abituati ai disastri, reagiscono con la secolare ironia. Budapest è invasa da giornalisti stranieri che cercano di capire. Mai si sono viste così tante troupe americane. Son fin orgogliosi, e ridacchiano. Per qualche giorno il mondo ha parlato d’Ungheria. Debrecen è stata come la pistolettata di Sarajevo. Meno male che stavolta le trincee sono fatte solo di future.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7456&ID_sezione=&sezione=
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