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Autore Discussione: Pascarella si libera dal diritto d'autore dopo 70 anni di "clandestinità"  (Letto 2414 volte)
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« inserito:: Marzo 07, 2010, 06:37:54 pm »

Pascarella si libera dal diritto d'autore dopo 70 anni di "clandestinità"
 
                 
 
 di Pietro Piovani

ROMA (6 marzo) - La gloria letteraria è più effimera di quanto si creda. Cesare Pascarella, per esempio, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento era uno scrittore di successo. Un autore di bestseller diremmo oggi, un poeta acclamato, un intellettuale stimato, e non solo nella sua Roma. Il padano Giuseppe Verdi lo ammirava, l’abruzzese Gabriele D’Annunzio lo frequentava assiduamente, il toscano Giosuè Carducci (che notoriamente amava esagerare) lo considerava addirittura superiore a Gioacchino Belli: «Mai poesia di dialetto italiano era salita a questa altezza». Ma dopo il 1940, anno della sua morte, si è assistito a una sorta di rivalutazione al contrario. Pascarella è stato relegato nel recinto della poesia vernacolare minore, bollato da Pasolini come un’incarnazione dell’Italietta piccolo borghese, sminuito da Montale come un Belli di seconda classe.

Nessuno dunque si stupirà se oggi il settantesimo anniversario della sua morte sta passando sotto silenzio. Così come nel 2008 è stato quasi ignorato il centocinquantenario della nascita. Non una commemorazione, non una pubblicazione. Per il poeta “pittore di asini” (come egli stesso si definiva) sono stati settanta anni di semi-clandestinità. Pascarella è da tempo un autore illegibile, nel senso che non si può proprio leggere; non si trova in libreria. La raccolta completa delle opere fu pubblicata anni fa da Mondadori nella collana dei Meridiani, ma da tempo è fuori catalogo. La casa editrice milanese, titolare di tutti i diritti, non ha mai voluto ristamparla. Da un punto di vista commerciale la scelta si può anche capire: si sa che la poesia vende poco, e quella in dialetto ancora meno. Resta il fatto che oggi per leggere i versi di un grande poeta incluso in tutte le antologie scolastiche della letteratura italiana bisogna andare in biblioteca. In libreria non c’è niente.

O almeno non c’era niente fino a qualche tempo fa, perché più di recente è arrivato (almeno nei negozi di Roma) il meritorio volumetto di un piccolo editore, Greco & Greco, che contiene i Sonetti, La scoperta dell’America, Villa Gloria e Storia nostra. E i diritti? E la Mondadori? Forse quelli di Greco & Greco non si sono neanche posti il problema, che comunque a questo punto si può dichiarare superato. I diritti d’autore scadono settanta anni dopo la morte di uno scrittore, quindi da quest’anno l’opera di Pascarella dovrebbe essere di pubblico dominio: la può stampare chi vuole. Anche il dubbio di una possibile proroga di sei anni e otto mesi (che sembrava potesse investire tutti gli autori vissuti prima della guerra, come Pirandello, D’Annunzio, la Deledda e appunto Pascarella) sembra superato da una recente sentenza della Corte di Cassazione.

L’uscita dal vincolo dei diritti Siae sarà l’occasione per una riscoperta pascarelliana? Forse no. Del resto il povero Pascarella si era abituato a restare nell’ombra già quando era vivo. Negli ultimi anni della sua esistenza, quando l’avvento del fascismo fece passare di moda la letteratura in dialetto, la popolarità guadagnata in gioventù era in buona parte svanita. Il poeta visse una vecchiaia di solitudine. Si chiuse in casa, proprio lui che da giovane era stato un grande viaggiatore, e una volta sulla porta aveva lasciato scritto: «Vado un momento in India e torno subito». Ad aggravare la situazione, una grave forma di sordità che lo escludeva dalla vita sociale romana. Proprio lui che aveva costruito la sua poetica ascoltando le voci della città e riproducendole in versi. E in fondo nasce da qui, da questa incredibile capacità mimetica, il grande equivoco che ha sempre condizionato il giudizio su Pascarella. I detrattori hanno in genere confuso l’io narrante delle sue opere con la “voce del poeta”. L’intera produzione pascarelliana va letta quasi come una raccolta di testi teatrali, una successione di dialoghi e monologhi, dove ogni singolo verso è pronunciato da un personaggio e non esiste la terza persona dell’autore. Lo stesso procedimento adottato dal Belli per erigere il suo «monumento di quello che oggi è la plebe romana». Con la differenza che, a distanza di un secolo, quella plebe si era imborghesita e semi-istruita.

Sordo, acciaccato, dimenticato dalle élite culturali del Ventennio fascista, l’anziano Pascarella si rifugiò nel silenzio della sua casa. A fargli compagnia soltanto le amate piante del terrazzo, da cui non si separava mai. Non un parente, né una moglie. Non a caso era l’autore dei memorabili versi “Si ar monno nun ce fosse er matrimonio/ ma sai si quanta gente sposerebbe!”.


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