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Autore Discussione: ROSARNO. Ammiriamo Bossi  (Letto 2715 volte)
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« inserito:: Gennaio 10, 2010, 03:57:44 pm »

IL RACCONTO.

ROSARNO

Ammiriamo Bossi

Altri picchetti sulla strada: "Restiamo qui per proteggere le nostre famiglie"

E sulle barricate i cacciatori di neri "Non siamo razzisti ma quelli sono bestie"

dal nostro inviato Attilio Bolzoni


ROSARNO - La strada che scende verso il sud del sud dell´Italia ha trovato il suo argine leghista al km 474. «Io Bossi l´ammiro», dice Enzo, carrozziere calabrese che ha passato la notte a salvare la sua Rosarno dai neri. È sull´ultima barricata, sull´ultimo muro che resterà muro fino a quando nella Piana non spariranno tutti gli uomini dalla pelle scura. È su questa strada che la Calabria più disgraziata si scopre nordista, intollerante e rabbiosa.

Sono qui gli irriducibili della sommossa, sono ancora qui i duri che combattono «per proteggere i figli e le mogli dagli africani», quelli che hanno scatenato la grande caccia al nero e che ancora oggi sparano fucilate e braccano i resti di quella disperata umanità spinta fuori dalle loro terre.

Le carcasse delle auto bruciate sono in mezzo alla statale 18, la linea dell´odio. Sono piccoli possidenti di aranceti, braccianti, studenti, muratori, sono giovani e vecchi, tanti maschi e qualche donna. Sono duecento di mattino e trecento a mezzogiorno: sono loro a difendere Rosarno dall´invasione degli altri, il popolo dei derelitti dell´altro mondo. «E a difendere tutta la Calabria», spiega Salvatore Fazzari, autotrasportatore di cinquantaquattro anni e una furia contro quei ghaneani che ormai hanno lasciato il suo paese. È ancora Salvatore a parlare: «Bossi che chiama la Calabria Africa del Nord ora ci dovrà ringraziare, perché avrà capito che solo noi facciamo sul serio: lo Stato non ha fatto e non ha voluto fare niente, abbiamo fatto tutto noi, lo Stato preferiva proteggere loro e non noi». Le voci della barricata. Le voci del rancore.

Sulla strada che scende e taglia la regione italiana più tormentata e ingiuriata scoppia l´ira dei calabresi. «Non siamo razzisti ma quelle sono bestie», dice Giuseppe, che ha due ettari coltivati a mandarini proprio dietro i capannoni dove sopravvivevano i neri. «Noi emigrati calabresi all´estero non abbiamo mai fatto porcherie come questi beduini da noi», dice Stefano, imbianchino in Germania per undici anni. «Si mangiavano i cani e i gatti e forse anche i topi», dice Antonio, elettricista e "guardiano" della libertà dei rosarnesi, gli abitanti di questo paesone al centro della Piana che da due giorni ha mostrato l´altro suo volto.

«Sembravano così buoni», racconta Serafina Albanese, una donna che con sua figlia Teresa abita a duecento passi dall´accampamento e giovedì sera è fuggita a Gioia Tauro attraversando per i campi. Sette chilometri a piedi, con il cuore in gola per la paura che la raggiungessero per farle del male. Sembravano così buoni "i negri" di Rosarno.

Intorno a mezzogiorno sulla barricata della statale 18 arriva la notizia che i "cacciatori" di uomini neri ne hanno ferito un altro, un ragazzo del Burkina Faso. «Hanno cominciato prima loro», risponde Rocco, che anche lui ha "piantonato" di notte la strada delle arance e della paura. È sempre lì, ad aspettare che l´ultimo africano abbandoni Rosarno. In lontananza c´è un autobus che sta partendo, una cinquantina di neri che se ne vanno. Un grande applauso, la folla scalpita, la vittoria finale dei calabresi di Rosarno è vicina. Non le vogliono più «quelle bestie» a casa loro.

Sulla linea dell´odio esultano. «I neri via, i neri via», urla un ragazzino che avrà neanche diciotto anni e dall´alba sta attaccato al padre che è uno dei capipolo del tumulto calabrese. Raggiunge i suoi coetenai che fanno cagnara dall´altra parte della strada, pacche sulle spalle, abbracci. È il godimento cupo per il secondo pulmann che lascia l´accampamento con il carico umano. Ne sono rimasti pochi di neri in fondo alla statale.

La folla della barricata si agita, si muove fra le sue carcasse di auto e le sue arance, tiene la posizione sino alla fine. «Tutti se ne devono andare, tutti», ripete Franco, bracciante agricolo. Come Tommaso, bracciante pure lui, quarantuno anni e da due giorni e due notti fan di Umberto Bossi: «Ha ragione lui sugli extracomunitari: chi non ha un lavoro, qui in Italia non dovrebbe entrare mai». Nella Calabria della Piana - «dove non c´è la mafia perché la mafia è a Roma» - il popolo della grande caccia al nero oggi, primi giorni dell´anno 2010, tifa Lega e non se ne vergogna.

Risentimenti, un furore cieco. Sulla barricata si rincorrono gli episodi dei due giorni precedenti. Si ripetono ora dopo ora, s´ingigantiscono. La madre strappata dall´auto con i suoi bambini, la donna incinta che ha perso il figlio, la ragazza colpita da una bombola di gas, il bimbo minacciato. Vicende vere e false, tutte mischiate, tutte che passano di bocca in bocca per non placare l´ira della barricata. Arriva ancora la voce di un altro africano sprangato. Salvatore non fa una piega, poi bisbiglia: «Magari è quello che pisciava l´altra settimana dietro quel muretto mentre le donne di Rosarno facevano la spesa, le stesse donne che da anni gli portavano a lui e ai suoi amici la colazione o la pasta per il pranzo o il panettone per Natale».

Donne, bambini, famiglia, sangue. Forse sta solo in queste parole la spiegazione dei fatti di Rosarno. I neri della rivolta dell´altra notte si sono avventati anche su di loro, hanno terrorizzato i loro figli e le loro mogli. «Donne e bambini non si toccano», dicono al km 474 della statale che da Napoli va verso lo Stretto.

L´ultima storia ce la consegna Serafino Bagnoli, un orafo. Guarda verso l´accampamento dei neri ormai deserto. E poi urla: «Io abitavo a Nizza con la mia famiglia, moglie e due bimbe. Non ne potevo più, non volevo far crescere le mie figlie in quella città piena di immigrati. Il mio desiderio era quello di farle vivere in un ambiente sano come quello di Rosarno. Sono tornato, sono tornato e poi anche qui ho trovato quelli».

© Riproduzione riservata (10 gennaio 2010)
da repubblica.it
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