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Autore Discussione: Paolo Mastrolilli Il razzismo al contrario divide gli Usa  (Letto 2139 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2012, 07:22:08 pm »

Editoriali

10/10/2012 - il caso

Il razzismo al contrario divide gli Usa

Paolo Mastrolilli


Mark Twain sosteneva che non esiste un’idea, per quanto nobile, che scendendo sulla Terra non abbia rovinato la propria reputazione. Prendiamo il caso dell’affirmative action, ossia la regola che ha imposto le quote razziali in America, per garantire che le minoranze avessero la stessa possibilità dei bianchi di accedere a lavoro, istruzione, impresa. 

 

Il primo che la nominò fu il presidente Kennedy nel 1961, in un Paese dove quattro anni prima il suo predecessore Eisenhower aveva dovuto mandare i paracadutisti in Arkansas, per convincere il liceo pubblico di Little Rock ad ammettere gli studenti neri. Da allora in poi la discriminazione ha fatto parecchi passi indietro negli Stati Uniti, al punto che secondo i critici il pendolo ha finito per oscillare troppo nella direzione opposta. Tra di loro c’è Abigail Fisher, una studentessa che nel 2008 ha fatto causa alla University of Texas, accusandola di averle negato l’ammissione per il colore della sua pelle, bianca. Oggi questa storia arriva sui banchi della Corte Suprema di Washington, che con un colpo di penna potrebbe cambiare o cancellare l’affirmative action. Dunque è possibile che, partendo dalle migliori intenzioni, si arrivi ai peggiori risultati? Un programma inteso per combattere la discriminazione può produrre l’effetto opposto, nel giro di appena mezzo secolo? 

 

La risposta non è facile come vorrebbero i tifosi di destra, contrari all’affirmative action, e quelli di sinistra, favorevoli. Non c’è dubbio che negli Stati Uniti le minoranze fossero penalizzate, e in parte è ancora così. Secondo i dati raccolti dal Census Bureau nel 2009, il 28% degli americani sopra i 25 anni d’età ha la laurea, ma questa percentuale scende al 17% tra i neri e al 13% tra gli ispanici. All’origine di tanta differenza non c’è solo il pregiudizio razziale nelle ammissioni, ma anche il fatto che chi viene da questi gruppi cresce generalmente in famiglie e quartieri disagiati, ha meno possibilità di imparare dal principio, e quindi poi fatica ad entrare all’università o trovare lavoro.

 

E’ anche vero, però, che le quote possono essere ingiuste, o spinte oltre i limiti della loro logica. Se Abigail era più brava del collega nero o ispanico che ha preso il suo posto, solo perché veniva dall’etnia giusta, si capisce il suo risentimento. 

 

Esiste una soluzione equa al problema? Al momento no. Secondo il presidente della Columbia University, Lee Bollinger, «se la Corte Suprema annullerà l’affirmative action il risultato sarà un crollo nelle iscrizioni delle minoranze». Quindi il problema diventerà un cane che si morde la coda, perché meno ammissioni significheranno anche meno posti di lavoro buoni, e quindi meno possibilità di far salire neri e ispanici sulla scala sociale.

 

L’impegno dunque deve restare quello scritto nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, che garantisce a tutti il diritto di ricercare la propria felicità, giocando con regole che diano ad ognuno la stessa opportunità di avere successo. Quando questo accadrà sul serio, anche l’affirmative action e le quote potranno tornare nel paradiso delle idee, perché non serviranno più ad una società diventata davvero giusta.

da - http://lastampa.it/2012/10/10/cultura/opinioni/editoriali/essere-bianchi-da-privilegio-ad-handicap-G0SHQ8o42dMC8n4ybNcd0J/pagina.html
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