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Autore Discussione: Marina Berlusconi, La politica di papà è una questione di famiglia?  (Letto 2822 volte)
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« inserito:: Ottobre 10, 2009, 04:52:29 pm »

L'INtervista

«Contro mio padre una caccia all'uomo E ora nel mirino anche le nostre aziende»

Marina Berlusconi: uno scandalo giuridico la sentenza sulla vicenda Mondadori


MILANO - Poche settimane e lo scenario attorno a Marina Berlusconi sembra essere cambiato ulteriormente. «In peggio» sussurra. «Ci siamo visti un mese fa, ricorda? Al termine di un'estate non tranquilla. Immaginavo però che si potesse guardare al futuro con un pizzico di ottimismo in più, pensando a come recuperare dopo una crisi economica e mondiale durissima. Credevo che allora si fosse toccato il fondo, non era così, purtroppo». Per un momento nel salotto della sua casa scende il silenzio. Su un tavolino accanto al divano la foto del premier, suo padre. Lei continua: «Non pensavo che l'indignazione di allora potesse aumentare. Sbagliavo. Come si fa ad accettare una situazione come questa, quasi una caccia all'uomo? C'è un pezzo di Italia, piccolo ma pericoloso, che non riesce a rassegnarsi, ad accettare il fatto che la maggioranza degli italiani vuol essere governata da Silvio Berlusconi».

Lo dica. Anche lei pensa al complotto, alla grande macchinazione con obiettivo finale la morte politica del presidente del Consiglio? Pensa a questo?
«Penso che contro mio padre le stiano provando tutte, da quindici anni, ma negli ultimi mesi l'attacco si è fatto ancora più violento e indecente. Hanno cercato di distruggerlo sul piano personale, con le calunnie. Ora stanno tentando anche di colpirlo sul piano economico, con quella scandalosa decisione sul lodo Mondadori. E ancora, utilizzando la via giudiziaria, con la bocciatura del lodo Alfano».
Ma quella non è la via giudiziaria. È una decisione della Corte costituzionale.
«Ma secondo lei che cosa devono pensare gli italiani quando la Consulta sostiene l'esatto contrario di quel che diceva cinque anni fa? E poi, non vede che il fronte da cui le critiche, anche dure, normalmente dovrebbero arrivare, quello della politica, non dà segno di vita?».
A sentire suo padre però la sinistra è ancora potentissima.
«Mi pare evidente, ma non fa un'opposizione "politica". La politica non c'è più, ci sono invece un gruppo editoriale, qualche tribuno televisivo, un gruppo di toghe, un po' di professoroni e grand commis: tutte persone che però non hanno avuto alcuna investitura popolare».
Loro no, ma il Pd sì. E anche Di Pietro...
«Lasci stare Di Pietro. Ogni volta che parla riesce a compiere un miracolo. Quello di farmi vergognare profondamente, per un attimo, di essere italiana».
Un conto è vergognarsi, un conto è parlare di golpe strisciante.
«Nelle dittature mandano i carri armati nelle piazze, in una democrazia come la nostra che qualcuno vorrebbe pesantemente assediare, si colpisce di fioretto, si usano metodi più subdoli, formalmente leciti ma per questo ancora più insidiosi. L'obiettivo però è lo stesso: stravolgere il verdetto degli elettori».
Se permette le sue parole assomigliano a un comizio.
«No, non faccio comizi e non mi occupo di politica, mi occupo di aziende. Ma guido un gruppo condannato, a distanza di vent'anni, a pagare 750 milioni di euro da una sentenza che è un vero e proprio scandalo giuridico. E a chi dovrebbe versarli questa montagna di soldi il gruppo che fa capo al presidente del Consiglio? Proprio all'editore del giornale che si è assunto il compito di distruggere il premier, con ogni mezzo. Tutto questo ha a che vedere con la politica? A me pare proprio di sì. E allora che cosa dovrei fare, star zitta?».
Certo fa impressione, è come se si fosse fatto un balzo indietro di quasi vent'anni, Berlusconi contro De Benedetti.
«Direi De Benedetti contro Berlusconi. Mio padre è un uomo incapace di portare rancore. Mentre io credo che nei suoi confronti, al di là di interessi e manovre di potere, giochi anche un sentimento corrosivo e frustrante come l'invidia».
L'invidia? Cosa c'entra l'invidia?
«Beh, da una parte c'è un uomo che dal nulla ha inventato la tv commerciale, dall'altra un signore che ha distrutto uno dei più gloriosi marchi industriali italiani. Da una parte c'è un uomo che entrerà nei libri come il leader più longevo e amato nella storia della Repubblica, dall'altra un signore che si rigira tra le mani la tessera numero 1 di un partito mai davvero nato».
Ma...
«E sa che cosa li rende profondamente diversi? Mio padre è un imprenditore vero, che crea ricchezza per tutti; l'Ingegnere rappresenta invece un capitalismo cannibalesco che ambisce a vincere solo per sé e a far perdere tutti gli altri. In realtà, De Benedetti avrebbe voluto essere come Berlusconi, solo che non ci è mai riuscito».
Non crede di usare parole troppo dure?
«Parole che uso solo per chi, da mesi, sta tentando un sistematico linciaggio nei confronti del presidente del Consiglio, gridando paradossalmente a mezzo mondo che la libertà di stampa è in pericolo. Tranquilli, non è a rischio, ma per fortuna c'è ancora la libertà di parola e di pensiero, che io rivendico fino in fondo».
Vada per le parole ma resta sempre la condanna di un giudice sulla vicenda Mondadori. «Non sono un'esperta di diritto, ma ho passato una notte intera a leggermi la sentenza, l'ho commentata con i nostri avvocati, e davvero non trovo altro termine per definirla: è un vero scandalo giuridico, un verdetto contro ogni buon senso».
Dove sarebbe lo scandalo?
«Intanto una premessa: nel '91 l'accordo seguito alla bocciatura del lodo attribuì a un De Benedetti soddisfattissimo una parte rilevante della Mondadori di allora: la Repubblica, L'Espresso e i 18 quotidiani locali della Finegil».
Venga alla sostanza.
«Il giudice civile Raimondo Mesiano ha celebrato in realtà un suo nuovo processo penale, arrivando a conclusioni cui neppure in sede penale si era giunti. E così, in base al solito "non poteva non sapere", mio padre, mai nemmeno rinviato a giudizio, diventa un corruttore, mentre diventa ingiusta la sentenza della Corte d'Appello di Roma del '91 che dando torto a De Benedetti, di fatto consegnava il controllo della Mondadori alla cordata capeggiata da Fininvest».
Ma poi un giudice di quella Corte è stato condannato per corruzione.
«Però i giudici erano tre. E gli altri due hanno testimoniato che di quel verdetto avevano condiviso il contenuto, in piena autonomia. Insomma la sentenza della Corte d'Appello era assolutamente giusta». Sta di fatto che Mesiano si è convinto del contrario.
«Non proprio. Tira fuori dal cilindro il calcolo delle probabilità: non sono necessarie prove certe, basta siano probabili. E quindi: nonostante i due magistrati romani dicano di no, "è assai probabile" che in realtà il terzo giudice della Corte d'Appello li abbia influenzati, e ancora, "è assai probabile" che se non li avesse influenzati la Corte avrebbe deciso in modo diverso, dando ragione a De Benedetti. Non è certo, ovviamente, ma "è assai probabile"».
Beh, assai probabile è quasi certo.
«Ma andiamo... Proprio questo è il punto più sconcertante. Il giudice civile si mette a fare anche le percentuali del probabile. Quante probabilità avrebbe avuto De Benedetti di vincere? L'80%, stima Mesiano, e non si capisce perché un 80% e non invece un 30 o un 50%. Sta di fatto che concede alla Cir l'80% di quello che aveva chiesto come risarcimento. Prendendo per oro colato i calcoli fatti dalla stessa Cir, senza neppure chiedere una consulenza tecnica. Decide una condanna da 750 milioni di euro così, e tutto da solo. Che questo sia definito con due termini, "giustizia" e "civile", mi suona davvero paradossale. Per usare un eufemismo».
Tutto politico anche qui?
«Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte. Ma a suo carico non c'è una sola, dico una sola, condanna. E se, come si dice, bastano tre indizi per fare una prova, non le sembra che 26 accuse cadute nel nulla siano la prova provata di una persecuzione?».
Ma si sta parlando della magistratura. Non possono essere tutte toghe rosse.
«Nella magistratura ho grande fiducia, e per questo, sapendo che la Fininvest ha sempre agito correttamente ed è nel giusto, non ho dubbi sul fatto che in appello ci daranno ragione. So bene che la stragrande maggioranza dei magistrati fa il suo lavoro senza pregiudizi, spesso tra mille difficoltà, un lavoro che non porta ai talk show o alle carriere di partito».
E allora dov'è la persecuzione?
«È fuor di dubbio che tutto questo viene oscurato da un gruppetto di magistrati che usano la toga per fare politica. Una minoranza, certo, che però si occupa solo di cose che fanno clamore, e che può provocare danni gravissimi».
Però la Fininvest non ha problemi, è in salute, è liquida.
«Mi colpisce la superficialità di certe analisi: in fondo, sento dire, questi soldi la Fininvest ce li ha in cassa, e poi basterebbe vendere qua, racimolare lì, risparmiare là... Ma qui non stiamo parlando delle tasche di Silvio Berlusconi o della sua famiglia, stiamo parlando di un gruppo che è una delle realtà imprenditoriali più importanti del Paese, che dà lavoro a ventimila persone, che ha sempre pagato fior di tasse e che ha importanti presenze all'estero».
Resta quella sentenza e i 750 milioni di risarcimento.
«Non voglio nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi scellerata di dover tirare fuori una cifra del genere. Stiamo parlando di una holding cui fanno capo società quotate del calibro di Mediaset e Mondadori, società solide e ben gestite, ma una mazzata da 750 milioni di euro farebbe tremare chiunque. L'improvvisa mancanza di risorse finanziarie così importanti metterebbe a rischio le nostre possibilità di sviluppo».
E allora?
«Pensi a Mediaset, ai suoi notevoli impegni nelle tecnologie e nei contenuti, al suo sviluppo internazionale. Tanto per non dimenticarlo, Mediaset sta sfidando un colosso come Murdoch e ne ha già incrinato il monopolio. Pensi a Mondadori, che in questi 18 anni ha scritto una storia di successi e libertà, e che oggi sta crescendo all'estero esportando il made in Italy. Tutto questo vuol dire una sola cosa: investimenti e ancora investimenti e ancora investimenti».
Questo significa che ridurrete gli investimenti?
«È ovvio che faremo di tutto per sostenere al massimo le aziende e la loro crescita, ma non posso non dire con forza e anche con tanta rabbia che questo provvedimento sconcertante e del tutto ingiusto ci crea serissimi problemi. E il termine rabbia è proprio quello corretto: non sta né in cielo né in terra che il lavoro di ventimila persone sia colpito in modo così vile, così sleale, così pesante».
E suo padre? Questi sono stati giorni difficili e tesi.
«Proprio con lei, un mese fa, avevo parlato di colpi sotto la cintura, di pugnalate alle spalle e del fatto che mio padre avesse per fortuna i riflessi pronti. Beh, in queste settimane si è visto ancora di peggio. Ma chi sogna la spallata si deve proprio rassegnare: mio padre non solo ha i riflessi pronti, ha anche nervi d'acciaio».
L'ha sentito anche in queste ore, immagino. Che cosa vi siete detti?
«Ogni volta che lo chiamo per tenerlo su, per consolarlo, alla fine è sempre lui che consola me. Come sanno fare solo i grandi uomini».

Daniele Manca

10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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