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Autore Discussione: Ho incontrato la mia storia in Iran  (Letto 2374 volte)
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« inserito:: Agosto 22, 2009, 10:11:41 pm »

Reportage

Ho incontrato la mia storia in Iran

Italiano ma con un nonno persiano torturato a morte dal regime, aveva sempre rimandato il viaggio a Teheran.

Però gli ultimi eventi hanno spinto il giovane cronista a partire. Per condividere le speranze dei coetanei.

E a Io donna affida il suo racconto. Che ci pone un interrogativo: cosa sappiamo davvero di quel Paese?


Dallo specchietto retrovisore il tassista continua a guardarmi, incapace di nascondere la curiosità che dall’aeroporto alla città aveva occupato quasi tutta la sua attenzione. Poi prende coraggio: «Irani hasti?». «Sei iraniano?». Gli rispondo con un cenno di assenso: «Diciamo di sì». L’uomo sorride come se avesse capito: «Benvenuto in Iran». Sentirmelo dire fa uno strano effetto. Per trent’anni ho raccontato a chi mi circondava di essere il fortunato punto di incontro di due mondi: figlio unico di un padre italiano e una madre iraniana, nato in Germania est e cresciuto in Italia. La verità è che dell’Iran ho sempre conosciuto ben poco: i tappeti su cui mi rotolavo da bambino, l’odore del sabzi e del tè che mia madre e i nostri amici persiani preparavano nei pomeriggi domenicali a Milano, i libri e gli articoli scritti da chi lo aveva vissuto e raccontato. Frammenti di un mondo fatto di pochi ricordi e tanta immaginazione. Un mondo che non avevo mai visto e che sognavo da tutta una vita. Ora, spinto dal desiderio di condividere le speranze di cambiamento dei ragazzi della mia generazione, ho finalmente deciso di venire a incontrare la mia storia. Per la prima volta, guardo fuori dal finestrino i quartieri di una città immersa nel buio: Teheran. Nella mia famiglia questo nome ha sempre evocato il ricordo di un doloroso dramma. Dopo la rivoluzione del 1979, i nonni materni ci erano tornati, mettendo fine a un lungo esilio in Russia e Germania est.

Mio nonno, leader del partito comunista iraniano, voleva continuare la sua attività politica in un Paese ancora euforico per la fuga dello scià Reza Pahlavi e l’ascesa al potere degli Ayatollah. Filisofo, scrittore, poeta, era un uomo affabile e pacifico, che parlava diverse lingue, scriveva e traduceva libri e poesie e aveva una passione viscerale per la lettura. La sua opposizione al regime islamico gli costò la persecuzione e una lunga detenzione nel famigerato carcere di Evin, dove morì in seguito alle torture riservate ai prigionieri politici come lui. Da allora in Iran dei miei familiari non è rimasto quasi più nessuno, a parte qualche lontano parente. Ogni tanto, camminando per le strade di Teheran, mi capita di domandarmi dove vivevano e quali luoghi frequentassero, in questa megalopoli di 15 milioni di abitanti intasata da un traffico infernale, soffocata dall’inquinamento e assordata dai clacson. Un posto da cui qualsiasi abitante ti consiglia di fuggire per cercare conforto altrove, fra le mura di Isfahan, le rovine di Persepolis, o i litorali del Mar Caspio. Eppure questa città sembra avere un’energia inesauribile. Quando ci sono arrivato avevo ancora negli occhi le immagini delle manifestazioni post-elettorali di giugno. Immagini che, partite da telecamere amatoriali e telefoni cellulari, hanno fatto il giro del pianeta. È quello che l’Iran racconta di sé al resto del mondo, e che spesso il resto del mondo vuole sentirsi raccontare: radicalismo islamico repressivo. Donne con lo chador. Ahmadinejad che inveisce contro l’Occidente.

Invece Bahar mi ha raccontato un’altra storia. L’ho conosciuta per caso in una caffetteria a Nord della città, assieme a un’amica. Stavo chiedendo a un gruppo di ragazzi se credono che sia in atto un cambiamento nella storia dell’Iran, e lei ci si è buttata in mezzo. È originaria di Yazd, nel centro del Paese, una città antica e piena di fascino. Ha 24 anni, una laurea in lingue e ogni tanto sfida uno dei tanti divieti imposti dai clericali, lasciando che il velo le ricada sulle spalle e scoprendo i capelli biondi ossigenati. «Noi iraniani non abbiamo nulla a che vedere con questo regime repressivo» dice quasi urlando, mentre la sua macchina sfreccia a tutta velocità verso la piazza di Vali-Asr, e la radio spara a tutto volume canzoni rap clandestine che parlano di sesso e politica. «Ci piace ballare, divertirci, stare in compagnia e fare tutto quello che i clericali non vogliono si faccia. Come possono impedircelo?». Non possono, specie perché in Iran il 60 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. E a Teheran, escluse le aree tradizionalmente più conservatrici, diverse zone sono fuori controllo. Ragazzi e ragazze non potrebbero frequentarsi prima del matrimonio, ma le strade sono piene di coppiette che girano mano nella mano. L’alcol è proibito, ma basta una telefonata alla persona giusta e se ne può comprare a fiumi.

E nonostante la censura imposta dal governo su internet, tutti sanno come si scaricano i software per aggirarli. Le generazioni frustrate fanno di necessità virtù. Ma Teheran è un capitolo a parte. Me lo conferma Yasmine, 28 anni, un’amica originaria di Shiraz che conosco dai tempi dell’università in Inghilterra e che oggi fa l’attivista per i diritti civili. Ci incontriamo in un locale alla moda, punto di ritrovo di intellettuali e artisti. Quando mi vede mi abbraccia a lungo. In teoria non si potrebbe, lo impongono i divieti. «E chi se ne frega» mi sussurra nell’orecchio. «Chi li impone può farsi fottere». È giovedì sera, che nella settimana islamica corrisponde al nostro sabato. Yasmine mi porta a una festa in un appartamento nei quartieri nord. L’aria odora di fumo di sigarette e hashish. In cucina due ragazzini provano a travasare del whisky da una tanica a una bottiglia. Sui divani ragazze e ragazzi scherzano e si scambiano effusioni. «Qui i giovani hanno un atteggiamento di sfida più marcato, in altre città dell’Iran non è ancora così» dice Yasmine, appoggiata al davanzale del terrazzo. «Anche se la sensazione diffusa in tutto il Paese è che stiamo vivendo una fase di forte cambiamento. Sono disposti a tutto. Li minacciano, li picchiano, li mettono in carcere e li violentano. Eppure quelli tornano a manifestare il giorno dopo, sempre più compatti. Forse non ci sarà un’altra rivoluzione come quella del ’79. Ma una cosa è certa: il regime islamico ha già perso».

Pablo Trincia

20 agosto 2009(ultima modifica: 22 agosto 2009)© RIPRODUZIONE RISERVATA

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