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« inserito:: Agosto 14, 2007, 12:08:45 am » |
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13/8/2007 (7:47)
Da Petrarca a Mogol, i poeti preferiscono le bionde Nella letteratura le chiome devono essere d’oro.
Ma perché?
Da Laura ai giorni nostri uno studioso passa al setaccio l’antica ossessione degli scrittori
MARIO BAUDINO
La storia non si può fare con i se, ma la domanda può essere ragionevolmente posta: che sarebbe di noi se Laura, l’amata di Francesco Petrarca, non fosse stata bionda? La risposta non è scontata: forse, ci suggerisce un serissimo storico della letteratura, saremmo molto diversi. Né sarebbe esistita Marilyn Monroe nel nostro immaginario, o nella nostra realtà. Come diceva Oscar Wilde, la natura imita l’arte: e la situazione indagata da Roberto Fedi, preside della Facoltà di lingua e cultura italiana all’Università per stranieri di Perugia, studioso del Petrarca appunto e della tradizione petrarchista, conferma in modo abbastanza clamoroso l’intuizione dello sfortunato scrittore irlandese.
Non solo: pare assodato che I poeti preferiscono le bionde - e non necessariamente convolano a nozze con le brune, ignorando le regole fissate dalla scrittrice Anita Loos (e dal regista Howard Hawks) in due celebri libri.
Il primo divenne il film con Marilyn e il secondo spiegava che però Gentlemen marrie brunettes.
Il libro di Fedi, edito da Le Cariti, pare scherzoso ma non lo è. Ripercorre la nostra tradizione lirica a caccia di bionde, e dal Quattrocento al Seicento, ma anche oltre, ne trova talmente tante da confermare una tesi che parrebbe astratta, forse agostana, forse oziosa. Non lo è, naturalmente: tanto che se n’era già occupato un critico come Giovanni Getto nel suo celebre Barocco in prosa e in poesia del ‘69. Ma Fedi va oltre, tra il serio e il faceto: e ci spiega perché I poeti preferiscono le bionde.
E’ una storia lunga. Per Getto arrivava alla fine del Barocco, dopo il quale le chiome idolatrate si fanno di tutti i colori (anche verdi, nel caso di Baudelaire). A ben guardare però sopravvive piuttosto bene, anche se in coabitazione, fino ad oggi. E a pensarci, aggiungiamo, arriva dritto a quelli che poeti forse non sono, ma vengono ritenuti tali: i cantautori o i parolieri. Dai «capei d’oro a l’aura sparsi», che naturalmente «'n mille dolci nodi gli avolgea», a «le bionde trecce gli occhi azzurri e poi», il passo è smisurato, ma anche breve. Dall’innamorato di Vaucluse a Mogol-Battisti l’infatuazione regge.
Se aggiungiamo che Laura aveva gli occhi azzurri, e che Paolo Conte non si è negato Avanti Bionda (anzi: «Avanti avanti bionda/ finché batte il cuor/.../ padrona certo sei di sorriso e pianto/ di noia e batticuore», oltre ad averne ospitata una sulla sua celebre Topolino amaranto, chiedendole solo una cortesia: «Bionda, non guardar dal finestrino»), i conti non fanno che tornare. E una domanda s’impone: che cosa mai avvince i poeti e le bionde dorate, con gli occhi azzurri poi, in paesi come il nostro (ma il discorso vale per tutta l’Europa) dove la stragrande maggioranza delle donne sono ed erano brune? Possibile che sia tutta colpa, o merito, di Petrarca e che anche ai suoi tempi non ci fossero, magari, dame e abbadesse morette dal fascino irresistibile? Sì e no, risponde Fedi. Ci ricorda alcune cose che possono apparire facete (per esempio che Marilyn quando si chiamava Norma Jean era bruna) ed altre serissime. A parte gli sfondi dorati dei mosaici bizantini - e le nostre madonnine - il color biondo dei capelli fin dalla grecità era appannaggio di dei ed eroi.
Apollo, fra l’altro il Dio della poesia, era biondo. Lo erano Venere e Diana (forse non lo era era Giunone, ma si sa, era molto giunonica e giocava in un altro campionato), lo erano Achille e Ulisse, per non parlare di Elena di Troia. Uno studioso tedesco dell’Ottocento, Wilhelm Sieglin, contò, fra i 121 personaggi della storia greca di cui ci vengono descritti i caratteri fisici, 109 biondi e 13 bruni, e fra quelli della mitologia 60 contro 35. Che i greci fossero biondi è improbabile: siamo di fronte a una descrizione simbolica, a un mito. Petrarca lo «modernizzò», lanciandolo nel suo tempo e nel futuro. Costrinse i poeti a preferire le bionde. L’esempio più grazioso, oltre che inatteso, è l’Ortis del Foscolo: nella prima versione, Teresa è colta mentre «il tesoro delle sue nere chiome» vela una parte del seno. In quella definitiva il tesoro c’è ancora, ma è quello «delle sue chiome biondissime».
Il problema infatti non è essere bionde, ma diventarlo. Fin dai tempi del Petrarca, bisognava tingersi per adeguarsi al canone. Le dame, nella vita di tutti i giorni, ricorrevano a ogni genere di intrugli, e non solo per trovare uno straccio di poeta che ne cantasse la bellezza; le «altane» sui tetti di Venezia sono ancora lì a ricordarci quella pratica, perché la fase decisiva, dopo l’applicazione dei decoloranti sulle chiome corvine o castane, era esporre i capelli al sole, morendo eroicamente di caldo con indosso strani copricapi che proteggevano il viso ma lasciavano libera la capigliatura.
Nel libro di Fedi sono riportate molte ricette di intrugli per «biondire» (che lui, a scanso di guai, sconsiglia di provare): a dimostrazione del fatto che il biondo era uno stato artificiale, da raggiungere con sforzo e pazienza: qualcosa di astratto e sublime, un’idea più che una chioma. Manna, per i poeti.
Le poetesse, invece, da quell’orecchio a quanto pare non sentivano: o almeno, così risulta leggendo per esempio Gaspara Stampa. Quando parlano dei loro amori, non citano il colore dei capelli. Saggezza o distrazione? O forse era già allora una timida, larvata protesta contro l’immaginario dei maschi?
da lastampa.it
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