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Autore Discussione: INTERVISTA A SHIRIN EBADI "Iran al voto? Finzione di democrazia"  (Letto 2234 volte)
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« inserito:: Maggio 28, 2009, 10:24:28 pm »

28/5/2009 (7:28) - INTERVISTA A SHIRIN EBADI

"Iran al voto? Finzione di democrazia"
 
Shirin Ebadi ha vinto il Premio Nobel per la pace

L’avvocato che difende i dissidenti «Da noi più pene capitali che in Cina»


MARIE-CLAUDE DECAMPS
PARIGI

Premio Nobel per la Pace e leader carismatica del Centro per la difesa dei diritti umani a Teheran, Shirin Ebadi ha visto negli ultimi mesi aumentare le pressioni sulla sua fondazione e una restrizione delle attività. E i suoi timori sul rispetto delle libertà crescono di giorno in giorno, a due settimane dalle elezioni presidenziali.

La repressione ha preso di mira anche lei personalmente?
«È una realtà. Il nostro Centro per la difesa dei diritti umani è stato chiuso il 21 dicembre del 2008. Il mio ufficio è stato perquisito, i miei archivi portati via alla bell’e meglio dentro dei cartoni, il nostro sito Internet “filtrato” senza giustificazioni formali. Poi hanno arrestato la nostra segretaria, l’hanno detenuta per due mesi, hanno lanciato una campagna di diffamazione, orchestrata dal giornale conservatore “Keyhan” che ci ha trattato da “agenti della Cia”. Aggiunga le pressioni sui miei assistenti perché si dimettano, la chiusura del mio indirizzo di posta elettronica. Non ho più accesso alla Rete. Ecco quali sono le mie condizioni di lavoro. Quanto al lavoro stesso, giudichi lei: la giornalista Roxana Saberi aveva chiesto la nostra assistenza dopo la condanna a otto anni. Non abbiamo avuto accesso al suo dossier. Vogliono costringerci a rinunciare alla lotta».

Che bilancio fa del mandato presidenziale di Ahmadinejad?
«Dal 2005 abbiamo assistito a una degradazione continua dei diritti umani. In tre anni le esecuzioni sono aumentate del 300 per cento. L’Iran, facendo le debite proporzioni, ha superato persino la Cina: 355 esecuzioni per 70 milioni di abitanti, contro 2.200 in Cina, che però conta 1,3 miliardi di abitanti. Ancora più gravi sono le esecuzioni di persone minorenni al momento in cui hanno commesso il crimine. In tutto il mondo l’anno scorso ce ne sono state 32, di cui 26 in Iran. Queste esecuzioni sono contrarie all’articolo 6 della Convenzione internazionale del diritto civile ratificata dall’Iran nel 1975. Abbiamo lanciato una petizione per una moratoria di queste esecuzioni. L’hanno firmata anche religiosi come Mehdi Karrubi, candidato alle presidenziali, registi come Jafar Panahi o Rakhshan Bani-Etemad. Sono pessimista, però, come potrei non esserlo. Una coppia è appena stata condannata alla lapidazione».

Quanto è ferita la società civile?
«In due anni 100 donne che avevano partecipato a campagne sull’uguaglianza dei diritti, come Alieh Eghdamdust, Ronak Safarzadeh, Zeynab Bayazidi, sono state processate da tribunali rivoluzionari e condannate senza appello, da tre mesi a quattro anni di prigione per “attentato alla sicurezza dello Stato”. Per la stessa ragione due attivisti curdi, Mohammad Sadigh Kabudvand e Massud Kordpour, sono stati condannati a 10 e un anno di prigione. Perché cito tutti questi nomi? Perché esistano, è la loro unica protezione contro il silenzio. Potrei aggiungere quelli dei nove studenti arrestati a febbraio. O quelli di Kamyar e Rash Alai, due fratelli, medici, condannati a tre e sei anni di prigione nel giugno del 2008».

Che cosa si aspetta dal voto del 12 giugno?
«Tra i diritti umani c’è anche quello di poter esercitare i propri diritti civili. Due settimane fa abbiamo pubblicato un comunicato che chiedeva "elezioni libere e trasparenti" nelle quali il popolo possa esprimersi senza restrizioni. Ma in Iran il Consiglio dei guardiani della rivoluzione seleziona i candidati a sua discrezione. Su 300 che si sono presentati solo quattro sono stati ammessi. La legittimità di un governo non viene soltanto dal suffragio universale, ma anche dal rispetto dei cittadini senza distinzioni di opinione o religione. E che abbiamo ottenuto dopo quattro anni? Una repressione ancora più forte e sempre più vigile. Un bilancio dal quale la democrazia ne esce molto male».

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