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Autore Discussione: L’amore nell’antica Roma quando i gladiatori erano come i calciatori  (Letto 3633 volte)
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« inserito:: Maggio 10, 2009, 11:45:21 pm »

Anteprima

Esce oggi da Feltrinelli il nuovo libro di Eva Cantarella

L’amore nell’antica Roma quando i gladiatori erano come i calciatori

Viaggio in una concezione dell’eros basata sul culto della virilità.

Le donne conquistate dal loro fascino
 
 
Che l’eman­cipazione femmini­le non fos­se un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne del­le classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in partico­lare dai graffiti pompeiani. Per cominciare: le donne di Pom­pei, oltre a frequentare i teatri, assi­stevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladia­tori; i quali, se sopravvivevano alle lo­ro non facili esibizioni, diventavano le star dell’epoca — un po’ come i cal­ciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile. Il trace Celado, ad esempio — leg­giamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito vie­ne una conferma del fatto che le ra­gazze di Pompei non erano insensibi­li al fascino dei muscoli e della cele­brità. Sullo stesso edificio, un altro graf­fito ci informa che Crescente, il rezia­rio (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi av­versari), era «il medico notturno del­le ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori.

Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche al­le matrone, che a quanto pare, più es­si uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abban­donato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attende­va, ormai, / con quel braccio spezza­to il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’el­mo, e in mezzo al naso / un grossissi­mo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfida­to le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ri­buttante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si con­ferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vo­mita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.

Non le amava affatto le donne, Gio­venale. Ma, al di là delle sue esagera­zioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte era­no sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano. Nell’alloggio dove dormivano i gla­diatori, infatti, sono stati trovati i re­sti di una persona di sesso femmini­le, e dei gioielli, che presumibilmen­te le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiella­ta? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signo­ra fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiato­re. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accinge­va a tornare a casa. Come che sia, mo­rì in un momento felice.

***

Erano molto preoccupati, i roma­ni. Nonostante l’impegno che aveva­no messo, e che continuavano a met­tere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a ren­dersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato. A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro ante­nati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima del­le beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in mo­do indecente. Questo pensavano i ro­mani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo so­ciale.

Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dis­solutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici. Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femmi­nile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla en­fatizzazione e caricaturizzazione del­la realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una miso­ginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute». Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ri­dicolizzandola, non di rado per esor­cizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano? In primo luogo, che volessero co­mandarli (come, secondo i poeti sati­rici, ormai facevano senza un mini­mo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marzia­le dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domanda­te. Perché voglio / sposare, non esse­re sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola egua­glianza possibile tra i due. Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro dirit­to. Alcune arrivano a pensare che li­mitarsi a uno solo sia quasi una con­cessione al marito.

Eva Cantarella
23 aprile 2009

da corriere.it
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