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Autore Discussione: FRANCESCO LA LICATA La dannazione dei vicoli  (Letto 2456 volte)
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« inserito:: Marzo 31, 2009, 03:51:28 pm »

31/3/2009
 
La dannazione dei vicoli
 

 
FRANCESCO LA LICATA
 
Erano piccoli, è vero, spesso non superavano gli otto anni, ma nessuno li chiamava bambini. A Palermo erano semplicemente saittuni: una parola che sta a indicare qualcosa di minuscolo, quasi invisibile ma estremamente rapido e imprendibile. Come una saetta, appunto. O come un topo che fugge più veloce dello sguardo umano.

Saittuni furono battezzati i ragazzini che l’8 luglio del 1960 dai quartieri popolari si riversarono nel centro storico, nel pieno della guerriglia urbana scatenata per fermare il governo Tambroni. Non erano comunisti, i saittuni, e neppure antifascisti. Erano semplicemente affamati: bambini digiuni che nella bolgia cercavano di svoltare la giornata. Bambini già tanto adulti da decidere di sfidare le pallottole della polizia che allora non sparava in aria e neppure proiettili di gomma. Uno dei saittuni fu ritrovato secco dietro un’aiuola del teatro Politeama. Una pallottola vagante lo uccise, nessuno l’ha mai ricordato, se non una canzone poi cantata dal giornalista-poeta Salvo Licata in uno degli spettacoli arrangiati in una cantina di via XX Settembre.

È una storia dolente, quella dei bambini di Palermo. Vederli, adesso, tuffarsi dentro i fetidi cassonetti dei mercati popolari riporta indietro la memoria verso una realtà che sembrava cancellata. E invece - sarà la moderna crisi o una miseria mai debellata? - eccoli ancora i saittuni, come negli Anni Cinquanta e Sessanta. Allora non c’erano i cassonetti, perché il demone del consumismo non ci aveva ancora posseduti. Perciò bisognava cercare altrove. Per esempio nei retrobottega dei negozi di alimentari, nei depositi delle officine dove ferro e metalli «preziosi» come il rame erano facilmente reperibili. Economia del dopoguerra? Economia povera, come poveri sono i «kamikaze» contemporanei che rimangono attaccati ai fili dell’alta tensione nel tentativo di rubare il rame, appunto.

Morivano come le mosche, i bambini a Palermo. Lo Zen, oggi icona di tutti gli inferni, non c’era ancora. Ma c’era qualcosa di peggio: c’era il centro storico, debilitato dai bombardamenti, che crollava come cartapesta e ogni volta uccideva i bambini che giocavano nei vicoli del Capo o della Vucciria. Ma non era, quello, il massimo del degrado. Basta rileggere l’inchiesta su Palermo di Danilo Dolci, pubblicata sull’Ora, per avere il quadro di cos’era la città. A Cortile Cascino si concentrava la vita grama della Palermo sottoproletaria. Centinaia di famiglie asserragliate nei tuguri, senza fogne, gabinetti e acqua. I bambini nudi, esposti alla tubercolosi. Di giorno uscivano a cercare rame e cartone. Già, i «cartonai»: un mestiere che, per esempio al Borgo Vecchio, ha resistito fino alle soglie degli Anni Ottanta. Scomparve un po’ prima, invece, il mestiere degli adulti di Cortile Cascino che per sopravvivere facevano i cenciaioli.

Sembrava definitivamente consegnato alla memoria dei meno giovani l’orrore dei bambini che giocavano coi topi, che rubavano l’energia elettrica per alleviare la bolletta dei genitori. Una nuova povertà ci dice che il filo lungo non si è ancora interrotto. Una tentazione ottimistica ci potrebbe forse indurre all’autoconsolatoria conclusione che, in fondo, «meglio rischiare l’epatite in un cassonetto che consegnarsi alla mafia». La storia ci dice che non è così: molti bambini sopravvissuti a Cortile Cascino non hanno poi evitato l’abbraccio criminale.
 
da lastampa.it
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