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Autore Discussione: ALESSANDRO PERISSINOTTO Feticci e delitti  (Letto 2388 volte)
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« inserito:: Marzo 22, 2009, 10:21:11 am »

22/3/2009
 
Feticci e delitti
 
 
ALESSANDRO PERISSINOTTO
 
A chi mai può venire l'idea di intrufolarsi nella casa dove è avvenuto un terribile omicidio e di rubare un materasso sporco del sangue della vittima? Se scrivessi uno dei miei romanzi polizieschi, intorno a questa questione girerei a lungo. Qui però voglio provare a fare subito tre ipotesi molto semplici; l'idea del furto può essere venuta: 1) a un pazzo adepto di una setta satanica, 2) a un imbecille feticista, 3) a un furbo che vuole inquinare le prove. Troppo schematico? Allora entriamo nel dettaglio. Partiamo dalla prima congettura. Alcuni casi più o meno recenti hanno messo in luce il perdurare di una diffusa passione per il culto del diavolo. Per le loro messe nere, i satanisti si servono di oggetti sacri che, in quanto rubati, transitano dall'universo del bene a quello del male, divenendo così strumenti per assicurarsi la benevolenza (sic) del Maligno.

Al tempo stesso però, questa folle ritualità non disdegna quegli oggetti che, per la loro vicinanza con un evento delittuoso, dovrebbero assurgere a catalizzatori del Male. Il materasso su cui è morta la povera Meredith ricomparirà dunque al centro di un cerchio di invasati adoratori di Belzebù? Se così fosse, credo che si confermerebbe l'ipotesi meno inquietante. Non che l'esistenza di gruppi di squilibrati non sia preoccupante, ma la loro presenza, storicamente attestata nei secoli, non ha particolari relazioni con i guasti della nostra società e i rimedi spaziano da una buona cura psichiatrica per i casi più gravi, a una buona dose di calci nel sedere per quelli più lievi. La seconda possibilità mi sembra invece più allarmante. Se è stato un feticista, occorre riflettere sui meccanismi attraverso i quali si crea il feticcio, perché in questo caso è probabile che ci si trovi di fronte a un «feticismo della merce», per dirla con Marx, a un oggetto che diventa idolo perché incarna un valore. Già, il materasso del delitto di Perugia si carica di valore per via della sua unicità, proprio come i memorabilia, come i banali oggetti quotidiani appartenuti alle star. Nella società massificata, dove tutto è di serie, dove il concetto di unicità non si attaglia più neanche all'opera d'arte, il desiderio di possedere qualcosa di irripetibile non si cura della ferocia che ha prodotto quell'unicum e passa sopra anche alla più elementare distinzione tra bene e male.

Ed è in questo senso che l'imbecille feticista mi sembra più pericoloso del pazzo satanista, perché, pur nella sua aberrante opzione per il male, l'adoratore del demonio possiede ben chiaro il concetto di «morale»; al contrario, chi va fiero della reliquia di un omicidio non riconosce alcun limite tra giusto e sbagliato ed è pronto a ripetere il proprio gesto con la crudele spensieratezza dei bambini. I rimedi in questo caso si fanno più complessi e, ferma restando la funzione pedagogica dei calci nel fondoschiena, passano attraverso una profonda revisione del nostro sistema di spettacolarizzazione aprioristica di qualsiasi evento, nobile o sordido che sia. E infine c'è la terza ipotesi: inquinamento delle prove. Da ingenui spettatori di Csi e di Ris, noi pensiamo che preservare l'integrità della scena del crimine sia la prima preoccupazione delle forze dell'ordine e della magistratura, specie in un procedimento come questo, dove il verdetto dei giudici sarà pesantemente influenzato dall'esito dei rilievi scientifici.

E invece scopriamo che le prove più importanti sono alla mercé di chiunque. Scopriamo che non solo non c'è vigilanza continua intorno alla casa (per comprensibili ragioni di costo), ma che persino la richiesta della questura di Perugia di apporre delle inferriate alle finestre è stata respinta dalla procura, poiché le grate altererebbero la scena del crimine. Le grate alterano e i ladri no? La proprietaria non può tornare in possesso dell'appartamento, ma lo stesso può essere liberamente visitato da chiunque? I principi che ispirano le decisioni della procura di Perugia sono perfettamente condivisibili, ma i risultati pratici che a tali decisioni conseguono lasciano sconcertati. Lo scontro tra principi e prassi si fa duro e in questo iato tra «ciò che dovrebbe essere» e «ciò che è» si consuma la crisi di credibilità della giustizia.

da lastampa.it
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