L’apartheid è morto. Ma il potere economico è ancora dei bianchi
di Stefano Miliani
«Quando ho chiesto lavoro dei bianchi mi hanno risposto: fattelo trovare da Mandela. È duro vivere così, siamo poveri». Si aggira intorno a un centro commerciale cercando di vendere delle lunghe salsicciotte chiamate braaiwors, avrà una ventina d’anni e riprende il suo girovagare nel parcheggio controllato per pochi spiccioli da un ragazzo nella divisa di una delle onnipresenti società private di sorveglianza. Il paesino di Hazyview disegna una delle vie d’accesso al celeberrimo parco Kruger, nella provincia del Mpumalanga nel Sud Africa, territorio in cui case sparpagliate si addossano caoticamente sulle colline per chilometri e parole.
Il venditore ambulante tradisce un’amarezza, una rabbia, un qualcosa che la terra liberata dall’apartheid appena 15 anni fa non può nascondere. Il divario sociale ed economico tra neri e bianchi è enorme, sconcerta, in una terra di straziante bellezza, dalle fortissime potenzialità, incredibile crogiolo di etnie, lingue e culture. Molte ferite ancora chiedono di essere rimarginate.
Il Sud Africa, esteso quattro volte l’Italia, ad aprile avrà le sue quarte elezioni democratiche e nel 2010 ospiterà i Mondiali di calcio. Come capita dappertutto, e anche per attirare investitori, la scadenza sportiva spinge lo Stato a mettersi a lucido, ammoderna le infrastrutture e la buona rete stradale, amplia pure i piccoli aeroporti di cittadine che non avranno nemmeno una partita, sta costruendo sei stadi: quello di Città del Capo avrà 60mila posti e al momento è in piedi lo scheletro. La minoranza bianca, un tempo era un quinto della popolazione, ora nemmeno quello, per quasi tutto il ‘900 ha confinato la stragrande maggioranza nera in una sorta di gigantesco campo di lavoro forzato secondo un modello di Stato razzista che un Hitler redivivo avrebbe gradito.
Con un’ideologia para-nazista, qui i bianchi divisero gli abitanti per razze: loro in cima alla scala, con libertà e privilegi, nei gradini in fondo i neri, senza diritti, soffocati da repressioni, restrizioni e leggi sanguinarie, in mezzo tutti coloro che non rientravano nelle due categorie, i «coloured». Nessuna zona veniva risparmiata. «No, neanche quassù nel remoto nord, l’oppressione allentava la presa», sospira John, sui 50-55 anni, ora guida nel parco del Kgalagadi, nel deserto del Kalahari. Ha la pelle troppo scura e un sorriso troppo amaro per non aver sofferto il regime.
«Ho 29 anni e per fortuna la mia generazione non ha vissuto l’apartheid al massimo della sua durezza – ricorda Erfaan Hassen – tuttavia lo rammento benissimo. Da piccolo non potevo andare in quella bella spiaggia bianca a sud di Città del Capo, mi era vietato». Erfaan, sposato, due figlie, musulmano, è un «coloured». Scherza lui stesso, nel dirlo. Ha la carnagione molto nera. E due sorelle di pelle chiara come il suo interlocutore italiano, aggiunge sorridendo come per sottolineare la sterminata e artificiosa imbecillità di chi suddivise la popolazione in razze. «Questa è la terra delle tante etnie. E di Nelson Mandela», rivendica con fierezza. «Quando uscì di prigione nel ’90, dopo 27 anni, tutti si aspettavano parole di rabbia, un incitamento alla rivolta. Invece sorprese con la sua calma, con il suo pensiero, aveva studiato Gandhi, e condusse il paese fuori dall’apartheid evitando un bagno di sangue».
Nel ’94 l’«african tip», la punta estrema del continente, ebbe le sue prime elezioni democratiche e uscì dall’incubo attraverso un’esperienza forse unica nella storia, la Commissione della verità e della riconciliazione: chi aveva torturato, ucciso, imprigionato impunemente poteva confessare in pubblico i propri crimini e ottenere allora il perdono collettivo. Un lavacro psicologico e politico che scosse l’intera nazione. C’è chi confessò. Molti no. Lo ricorda una straziante mostra sull’attivista nero Steven Biko e sui tantissimi uccisi dalla polizia, nello «Slave Lodge» di Città del Capo, edificio coloniale che comprimeva in stanze buie centinaia e centinaia di schiavi alla volta e oggi è un museo sulla schiavitù. Biko, arrestato nel settembre 1977 a Port Elizabeth, morì per le botte e le torture. I poliziotti presunti responsabili e medici troppo reticenti non hanno mai ammesso quell’assassinio legalizzato. Commenta un pannello: se nessuno confesserà l’evidente verità resterà mutilata.
«Per quanto il nostro paese abbia grandissime possibilità e sia una democrazia, il potere economico è rimasto in mano ai bianchi», osserva amaro Erfaan. Facile constatarlo. I bianchi hanno alberghi, industrie. Nei parchi affollati da leoni, elefanti, antilopi e altre bestioline che mandano in sollucchero i turisti i visitatori di colore sono una percentuale minima o assenti. Nei distributori di benzina, nei piccoli hotel e bed & breakfast, nella sorveglianza diurna e notturna, nelle piantagioni di canna da zucchero, la manodopera è nera e a basso costo.
Nel nord est del paese, nel Mpumalanga, provincia del KwaZulu-Natal, tanti si spostano a piedi lungo le strade. Benché, ed è un’altra sfaccettatura di questo complesso caleidoscopio, in un decennio e mezzo il paese abbia compiuto passi da gigante. La squadra di rugby, simbolo della nazione, dal '94 è mista e fortissima.
Secondo statistiche ufficiali il tasso di disoccupazione nel 2001 era sul 34%, nel 2005 sul 26,9%, nel secondo semestre del 2008 era sceso al 23% con 4 milioni e 110 mila disoccupati. Perché, per quanto da perfezionare, la democrazia sudafricana è giovanissima e l’eguaglianza dei diritti resta una conquista immensa. Lo rievoca una performance teatrale a Langa – con 80mila abitanti una delle township (agglomerati ghetto creati per alloggiare la forza lavoro nera in condizioni di mera sopravvivenza) intorno a Città del Capo.
Due attori, Monwabisi Sopitshi e Zamile Hlili, rivivono il momento del loro primo voto: «Se metto una croce qui, il mio passato scomparirà», declama Sopitshi, il più anziano. Poi alla sera in un baretto nel centro urbano il tg informa che Obama ha telefonato al presidente sudafricano perché vuole venire in visita ufficiale. Un anziano addetto alle pulizie e la signora dietro il banco scattano a guardare la tv. «Ne siamo orgogliosi», esclamano. Poi l’uomo, un po’ acciaccato, forse avrà dolori alle ossa, riprende a pulire il pavimento.
smiliani@unita.it02 marzo 2009
da unita.it