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Autore Discussione: Andrea ROMANO.  (Letto 6972 volte)
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« inserito:: Maggio 22, 2008, 10:24:12 am »

22/5/2008
 
Opposizione ombra
 
 
 
 
 
ANDREA ROMANO
 
Con la prima riunione del Consiglio dei ministri è suonata la campanella anche per il «governo ombra» di Walter Veltroni. Finita la ricreazione post-elettorale, è il momento di mostrare al Paese come si intendono svolgere i compiti dell’opposizione. Se bastassero le buone maniere, ci si potrebbe accontentare del clima di dialogo che Berlusconi e Veltroni sembrano aver instaurato nei loro primi contatti.

Ma un’opposizione non vive solo di buona educazione, tanto più che il Partito democratico deve rapidamente definire una strategia nei confronti di quello che ha tutta l'aria di essere un governo di legislatura.

Fino ad oggi, anche a giudicare dal discorso pronunciato in Parlamento in occasione del voto di fiducia, Veltroni sembra aver impostato il proprio ruolo sull’antico modello del «governo delle astensioni»: il Paese vive un momento di emergenza, il governo governi e il Pd si asterrà ogni volta che lo riterrà utile all’adozione di misure condivisibili. È il modello che fu adottato dal Pci negli anni della solidarietà nazionale, lo stesso al quale si è riferito Veltroni citando Enrico Berlinguer e Aldo Moro a Ballarò di martedì sera. Un riferimento nobile, ma del tutto fuori luogo nell’Italia del 2008. Perché Silvio Berlusconi non ha alcun bisogno di un’opposizione conciliante, avendo ricevuto dalle urne un pieno mandato a governare, e soprattutto perché al Pd non basterà il dialogo per trovare la propria ragion d’essere (a differenza del Pci, viene da aggiungere, che proprio perché aveva una fortissima ragion d’essere di natura trascendente poté permettersi la stagione della solidarietà nazionale).

Fuori dal perimetro politico del Pd sta rapidamente rafforzandosi un’entità di opposizione all’insegna dell’intransigenza e dell’indignazione moralistica, dominata da quel Di Pietro con cui Veltroni ha stipulato un’alleanza elettorale che attende ancora di essere spiegata. L’opposizione dipietrista può vivere serenamente di rendita, senza alcun bisogno di definire se stessa. Le sue ragioni sono quelle che hanno dominato il centrosinistra nella sua precedente stagione di opposizione tra il 2001 e il 2006 e che hanno segnato il destino dell’Unione durante il governo Prodi. Sono ragioni strutturalmente minoritarie e incapaci di arrecare il minimo danno al consenso del centrodestra, ma molto popolari presso una militanza allevata da anni al culto della superiorità morale dell’antiberlusconismo. Per rendersene conto basta leggere l’Unità di questi giorni: quello che in teoria dovrebbe essere il quotidiano del Pd è stato di fatto appaltato alle ragioni dell'Italia dei Valori, partito alleato ma già concorrente.

È questo il problema che attende di essere risolto da Veltroni. Tra la liturgia delle buone maniere e la vocazione minoritaria di Di Pietro, il Pd deve trovare la via per definirsi come opposizione capace di candidarsi al governo reale del Paese. Vasto programma, si dirà.

Eppure occorrerebbe accennare almeno un primo passo, evitando di cullarsi nell’illusione che una tattica delle alleanze possa eliminare l’onere della strategia politica. Cinque anni sono lunghi solo sulla carta. In realtà quel tempo è appena sufficiente a riempire di contenuti lo slogan della «vocazione maggioritaria». Per il Pd si tratta di superare il recinto di una militanza dotata di voce ma non di consensi, di comprendere il Paese reale e di convincere quell’elettorato di mezzo che non è stato neanche scalfito dalla retorica veltroniana. Si tratta di creare oggi la possibile maggioranza di domani, senza fidarsi troppo dei propri riflessi condizionati. È ciò che viene normalmente fatto dai grandi partiti europei: utilizzare gli anni di opposizione per prepararsi a governare.

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« Risposta #1 inserito:: Luglio 21, 2008, 07:14:57 pm »

21/7/2008
 
Riforme e modello Prodi
 
 
 
 
 
ANDREA ROMANO
 
Con l’intervista a Pier Ferdinando Casini, pubblicata ieri dalla Stampa, è ormai chiaro il panorama di tutto ciò che non rientra nell’orbita politica del centrodestra. Un’opposizione unitaria a Berlusconi non esiste né è ragionevole immaginare che possa miracolosamente costituirsi entro questa legislatura. Troppo distanti le posizioni di ciascun partito, piccolo o grande che sia, sulle principali questioni della vita italiana. E troppo diverse le aspirazioni di ciascun leader sul breve e medio periodo. Colpisce, ad esempio, la nettezza con cui Casini ha liquidato come una «ingenua furberia» il tentativo di D’Alema di ammiccare alla Lega o a Tremonti per mettere in crisi la maggioranza e come una «battuta ottimistica» la profezia di Veltroni sulla fine del berlusconismo.

Ma, soprattutto, non si intravede alcuna figura interna a questi partiti che possa ritenersi capace di ricondurre a unità ciò che è destinato a rimanere politicamente separato. E allora vale la pena domandarsi se presto o tardi il centrosinistra non sarà costretto a replicare quello che fu nel 1996 il «modello Prodi». Ovvero la scelta di una figura esterna che abbia un mandato federativo. Una personalità che faccia perno sulla propria leadership per dare visione e omogeneità a un cartello di entità diverse. Si dirà che in questo modo è destinata a perpetuarsi l’anomalia italiana di partiti incapaci di esprimere per via normale un candidato alla guida del governo. E si lamenterà tra l'altro il fallimento della «vocazione maggioritaria» che avrebbe avvicinato il Pd a quanto viene fatto dai grandi partiti occidentali.

Tutto vero. Ma guardiamo a ciò che di altrettanto vero sta accadendo nel centrosinistra reale, non in quello immaginario. Di Pietro sta benissimo dov’è, impegnato a godere i frutti della rendita di posizione dell’intransigenza antiberlusconiana che Veltroni gli ha regalato con l'alleanza elettorale.
Casini, al contrario, ha appena chiarito di voler incalzare Berlusconi su alcune fondamentali riforme mentre è impegnato a dare alla sua Udc una convincente ragione per restare all’opposizione. Vedremo poi se e come Rifondazione si riprenderà dal trauma del voto con la nuova guida di Vendola. Quanto al Pd, siamo al festival dei solisti. O meglio, per riprendere quanto scritto ieri da Goffredo Bettini sull’Unità, a una «fase di sospensione, un presunto contrasto nel gruppo dirigente su punti non secondari della nostra strategia». È una formulazione in pura neolingua orwelliana che non nasconde il vero punto politico: «Da soli non rivinceremo mai». L’autocritica del principale ideologo del veltronismo è piena e totale. La vocazione maggioritaria può essere serenamente archiviata in attesa di tempi migliori. Tutto questo mentre il Pd non sembra avere alcuna intenzione di accennare nemmeno un passo per preparare un candidato leader diverso e più appetibile di Veltroni, neanche di qui a qualche anno, condannandosi di fatto a una nuova subalternità.

È in questo quadro la vera ragione per cui il centrosinistra sarà costretto a cercare all’esterno del proprio perimetro una figura in grado di guidarlo alla prossima sfida per la guida del Paese. Nel 1996 il nome di Prodi nacque da una precisa cultura politica, quella della sinistra democristiana, che con lui ha espresso la sua ultima stagione di vitalità. Oggi si tratterà necessariamente di guardare al paese reale, quello da cui il Pd ha scelto di distanziarsi con il proprio elitarismo, cercando una figura in grado di dare un autentico valore aggiunto a un campo di forze diverse e tutte minoritarie. I volti possibili sono pochi ed è ancora prematuro lanciarsi nella giostra dei nomi. Ma quello che già oggi è possibile fare è lavorare affinché quel candidato non sia ancora una volta un profeta disarmato. E dunque mettere in cantiere una riforma elettorale che dia al capo del governo gli strumenti indispensabili per guidare la propria coalizione, indipendentemente dal numero di soggetti politici che lo sostiene. Sarebbe, questa sì, una riforma che potrebbe essere condivisa dai due poli con effettivi benefici per la futura salute della politica italiana.

 
 
ANDREA ROMANO 

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« Risposta #2 inserito:: Luglio 27, 2008, 11:04:43 am »

26/7/2008
 
Effetto Obama
 
 
 
 
 
ANDREA ROMANO
 
Negli stessi giorni dell’incoronazione europea di Barack Obama, la brutale sconfitta di Gordon Brown a Glasgow conferma che una fase si è chiusa per sempre nel nostro immaginario politico mentre un’altra sta per aprirsi.

Per una leadership che tramonta trascinando con sé il fascino più che decennale della Terza Via, una nuova fonte di carisma politico si affaccia sul Vecchio Continente e costringe tutti - a destra come a sinistra - ad aggiornare i propri modelli di riferimento.

Perché è sempre possibile che alla prova del voto di novembre Obama si riveli una specie di Woody Allen, e dunque un grande successo europeo che in patria non riesce a forzare i limiti di minoranze illuminate, ma già il fatto che il suo arrivo tra noi sia da giorni la principale notizia internazionale segnala tutta la nostra sete di una nuova mitologia politica.

Dalla metà degli Anni Novanta quella mitologia è stata incarnata sia in positivo che in negativo dalla Terza Via di Clinton e Blair. Sostenitori e detrattori hanno tarato su quel modello i riferimenti ideali delle proprie strategie. Quintessenza della capacità di innovazione, sintesi virtuosa di centro e sinistra, luogo del coraggio delle convinzioni e del pragmatismo delle soluzioni. O al contrario palude dell’opportunismo e di una modernità moralmente inquinante. Su queste coordinate in Europa si è stati blairisti o clintoniani a destra come a sinistra, ben oltre l’uscita di scena di Bill Clinton e le dimissioni di Tony Blair. Tanto che un sincero conservatore come Sarkozy ha potuto giocare a lungo la carta del blairismo in versione francese e ancora pochi giorni fa Silvio Berlusconi si è autoproclamato erede unico di Blair sul trono della leadership europea.

Da oggi la Terza Via può essere serenamente sistemata tra i modelli del passato. E non solo per la parabola discendente di Gordon Brown, che con ogni probabilità dovrà chiudere già in autunno la propria breve e sfortunata esperienza al numero 10 di Downing Street. Per decenni la Scozia è stata una sorta di Emilia rossa in versione britannica e la perdita del seggio blindatissimo di Glasgow Est rappresenta per i laburisti una catastrofe simbolica da cui sarà difficile riprendersi. Il Labour è in crisi per lo stile appannato e confuso che Gordon Brown ha portato al governo, dopo i fuochi d’artificio di Tony Blair, ma soprattutto perché colpito al cuore dal proprio stesso successo. Gran parte del progetto neolaburista si è tradotto in realtà, in oltre un decennio di buona politica che ha cambiato volto alla Gran Bretagna e costretto gli avversari ad imitare con ottimi risultati la formula della triangolazione tra destra e sinistra che aveva già permesso a Blair di conquistare i ceti medi. Un progetto di governo che dunque si conclude per consunzione fisiologica.

E una mitologia che tramonta consegnando a Barack Obama lo specchio dell’immaginario politico europeo, ancora una volta a destra tanto quanto a sinistra. Se Sarkozy si è affrettato a dichiarare la propria amicizia per il candidato democratico, auspicandone la vittoria elettorale, è certo che di qui a novembre assisteremo ad una moltiplicazione dell’effetto Obama sulla nostra politica. Al netto di ogni inevitabile provincialismo, è un fenomeno da salutare con sollievo. L’Europa che torna ad acclamare in massa la bandiera statunitense, come ha scritto ieri Maurizio Molinari, è finalmente pronta ad archiviare gli anni del velleitarismo antiamericano.

E forse è anche capace di giocare quel ruolo non solo retorico e vanaglorioso nella gestione delle minacce alla sicurezza mondiale che lo stesso Obama ha chiesto con forza a Berlino. Già questo sarebbe un beneficio straordinario che la nostra politica potrebbe ricevere dalla nuova mitologia di importazione, qualunque sia il risultato del voto di novembre per la Casa Bianca.

 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 26, 2008, 11:03:59 am »

Andrea Romano.


Quando la retorica contro il "regime" banalizza Hitler e Mussolini

Risposta alla replica di Massimo Giannini


Confesso di non aver letto l'ultimo libro di Massimo Giannini. Non ho avuto cuore a comprarlo perché ho stima di lui (soprattutto come autore di libri, e Giannini lo sa avendomi avuto come editor del suo bel volume einaudiano su Carlo Azeglio Ciampi). Non ho voluto rischiare di cambiare idea leggendo un libro che porta come sottotitolo "Il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo", e ho preferito rimanere al Giannini giornalista. Tendo infatti a prendere sul serio le parole. E il fascismo è il fascismo, non è qualcosa che gli somiglia da vicino o da lontano. Ho dunque preso sul serio le parole che Giannini ha usato nell'anticipazione pubblicata dal suo stesso quotidiano il 15 novembre, laddove scrive che «il berlusconismo ha davvero alcuni tratti in comune con il fascismo... come sovrastruttura politica, sociale e culturale incline ad un autoritarismo e un plebiscitarismo che oggi possono spaventare molti di noi ma che incontrano il favore della gente». Parole serie, niente affatto bacate né stupide o disinvolte. Parole serie che per birbante coincidenza arrivano negli stessi giorni in cui Antonio Di Pietro equipara Silvio Berlusconi prima a Jorge Videla e poi ad Adolf Hitler, non distinguendosi né potendo distinguersi da quelle.

Perché il punto è proprio qui, al di là di Massimo Giannini a cui non posso che ribadire la mia amichevole stima. Il punto è nei danni che la «retorica del regime pseudo-fascista berlusconiano» ha inflitto alla qualità della nostra discussione pubblica. Devastandone la capacità di distinguere e giudicare. Lasciandoci in balia di un pastone dove tutto è uguale a tutto. E in quel tutto, il Novecento viene usato come combustibile di una escalation irresponsabile. Prendiamo ancora Di Pietro e la sua più recente uscita su Berlusconi-Hitler, aggravata dal paragone tra i magistrati italiani e il popolo ebraico. Per qualunque persona di buon senso (e sicuramente anche per Giannini) si tratta di un'infamia senza pari. Non certo per l'offesa che rivolge a Berlusconi, ma per la disinvoltura con cui travolge la nostra percezione del nazionalsocialismo e della Shoah.

Eppure su Repubblica di ieri non c'è una riga, non una battuta né un commento nemmeno brevissimo di una delle tante ottime firme di quella testata che denunci quell'infamia e che inchiodi Di Pietro alle sue parole. Non c'è una parola perché la retorica del regime pseudo-fascista non consente distinzioni. E una volta infranta la cortina dell'allarme fascismo non resta che avanzare, inevitabilmente, fino al sacrario dell'hitlerismo. Sono convinto che quello di Di Pietro non sia il pensiero né di Repubblica né di Massimo Giannini. Ma il mondo progressista e antiberlusconiano che, come ha fatto Giannini, ricorre a quella retorica si priva della possibilità di distinguersi dal dipietrismo, molto più efficace nel confezionare immagini contundenti con quel materiale simbolico, lasciando la sola destra berlusconiana a denunciare l'infame accostamento tra la democrazia repubblicana e il nazionalsocialismo.

Perché la nostra resta una democrazia, caro Giannini. Una democrazia che nell'ultimo quindicennio ha conosciuto un'alternanza perfetta tra il centrodestra berlusconiano e il centrosinistra. Con lunghi periodi di governo dell'uno e dell'altro, con risultati politici efficaci o meno efficaci, con alcuni leader che hanno scalzato Berlusconi dal potere e altri che non ci sono riusciti. Non è un sofisma accademico ricordare invece cos'è stato qualsiasi fascismo (e quello italiano di sicuro) nel corso del Novecento. Non solo la triade Dio-Patria-Famiglia recentemente rinnovata da Mara Carfagna o da Giulio Tremonti, non solo il turpiloquio politico di Berlusconi né la sua insofferenza per le istituzioni di garanzia. Il fascismo è stato violenza, censura, guerra e repressione applicate in misura abbondante e sistemica a buona parte d'Europa.

Una sola cosa mi è poco chiara nella replica di Giannini. Là dove mi chiede perché non scrivo mai sulle nefandezze di Berlusconi. Non mi è chiara innanzitutto perché non è vera, avendone scritto anche su questo giornale nei due mesi della mia collaborazione e regolarmente nei miei commenti per la Stampa. Ma soprattutto mi ricorda la critica che recentemente è venuta da Eugenio Scalfari (sull'Espresso del 13 novembre) all'indirizzo di quei «giornalisti con il bollino blu» che indeboliscono la propria indipendenza di giudizio proclamandosi di sinistra ma esercitandosi soprattutto nella critica della sinistra. Non so se è questo il senso della domanda di Giannini. Se così fosse sarei in ottima compagnia, nonostante la scomunica di Scalfari (che pure ha portato per anni quel «bollino blu» bene in alto sulla manica). È da quando esiste una sinistra moderna che esistono giornalisti di sinistra che si esercitano nella sua critica. È questione di passione per il proprio mondo, simbolico o politico o culturale che sia. E anche di esercizio di quella facoltà di critica che rappresenta (ma devo davvero ricordarlo a Massimo Giannini?) la sostanza della libera stampa, per chi legge e per chi scrive. Naturalmente fintanto che un qualche fascismo non arrivi a toglierla di mezzo.


da andrearomano.ilcanocchiale.it
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« Risposta #4 inserito:: Dicembre 18, 2008, 12:03:15 am »

Un cadavere collettivo da sgombrare


Dopo il tonfo d’Abruzzo sulla strada del PD c’è un cadavere da sgombrare, ma non è quello del solito Veltroni.
È il corpo inerte e collettivo di quello che dovrebbe essere un gruppo dirigente, se solo mostrasse di reagire agli eventi come un qualsiasi essere vitale. Al vertice del PD si attende invece il compiersi della catastrofe nella più totale passività, perché ognuno è convinto di poter ricavare il proprio piccolo tornaconto dal corso naturale degli eventi.

Entro un anno, forse meno, Veltroni sarà accompagnato alla porta ma potrà dire di essere stato proditoriamente sconfitto dalla “vecchia politica”. D’Alema avrà insediato alla guida dei resti del PD un suo fedele, se non sarà diventato lui stesso il capo di una nuova, piccola formazione di postcomunisti vecchi e nuovi. Rutelli sarà uscito dalla sezione italiana del PSE per riunirsi con popolari e centristi, e via di questo passo. Naturalmente questo venerdì, alla riunione della Direzione, ascolteremo riflessioni completamente diverse. Da Veltroni la fantasia del Lingotto 2, da D’Alema la litania del “solido investimento” su Veltroni, da Rutelli chissà. Ma fuori dalle stanze nelle quali si reciterà l’ennesimo episodio di una fiction ormai surreale, resterà di fronte agli occhi di qualsiasi elettore o simpatizzante lo spettacolo di un partito che si avvia a frantumarsi entro pochi mesi.

Un cadavere collettivo da sgombrare, dunque, per impedire che la storia del Partito democratico resti quella brevissima di un esperimento di giustapposizione oligarchica naufragato dopo pochi mesi. Sì, ma chi dovrebbe provvedere alla rimozione? Nei partiti normali, quelli dove si coltiva con cura la crescita delle nuove leve, sono gli aspiranti dirigenti che ad un certo punto sollevano di peso i responsabili dei fallimenti. Nel PD nostrano dobbiamo invece ascoltare la predica sul “rinnovamento dei dirigenti” venire ieri da D’Alema e oggi da Goffredo Bettini, colui che per vent’anni ha presidiato immobile la sinistra romana e che più di recente ha scolpito le regole auree della catastrofe veltroniana. Cominciasse da se stesso a rinnovare i dirigenti, viene naturalmente da dire. Ma un secondo dopo occorre pensare a soluzioni pratiche e realistiche, che facciano immaginare un esito diverso dall’autodistruzione del PD programmata per il giorno dopo le elezioni europee.

Quella soluzione esiste e Veltroni la conosce benissimo. Consiste nell’annunciare già oggi che il prossimo candidato premier espresso dal PD non sarà lui né D’Alema, né Rutelli né qualsiasi altro esponente di un gruppo che ha da tempo esaurito la propria capacità di apprendimento e innovazione. E nel dare a questo PD un anno di tempo per discutere a fondo della propria linea e soprattutto della persona che dovrà incarnarla. Perché nella politica occidentale non esistono leader per tutte le stagioni né linee che possano essere disgiunte da una leadership in grado di difenderle e rappresentarle. Sarebbe un anno per permettere al PD di trovare una guida adeguata, affidando al conflitto politico aperto la funzione di far emergere alla luce del sole quella personalità che certamente esiste tra i molti suoi dirigenti nazionali e periferici. Un anno che potrebbe essere impiegato molto più utilmente che non alternando all’infinito, come avviene in queste settimane, un conflitto impolitico e tribale all’esortazione bacchettona e stucchevole a “non farsi del male”. Un anno, infine, che gli stessi Veltroni e compari potrebbero utilizzare per dedicarsi al confronto politico liberi dall’ingombro della leadership. Non gli si chiede di andare in pensione (anche se non sarebbe un’idea poi così pessima) ma di dedicarsi alla politica dalle seconde file, come qualsiasi ex prim’attore rimasto notabile disarmato.

Sarebbe una scelta ragionevole e realistica per qualsiasi gruppo dirigente che volesse garantire un futuro al partito che si trova a guidare. Ma c’è un solo, grande impedimento. Rischia di non esserlo affatto per chi ha ormai fatto della propria sopravvivenza l’unico criterio di ragionevolezza. Ed è appunto questa la ragione per cui discutiamo di cadaveri da sgombrare, invece che di prospettive politiche.

17/12/2008

da andrearomano.ilcannocchiale.it
dal Riformista
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 26, 2009, 10:07:41 am »

Andrea Romano.

Il 25 aprile di Berlusconi


La posta in gioco di questo 25 aprile è la piena assimilazione democratica del berlusconismo. Perché qualunque sia la motivazione che spinge il Cavaliere a partecipare formalmente alla cerimonia di Onna, quella che si presenta oggi è l’occasione per completare l’istituzionalizzazione del fenomeno politico che nel bene e nel male ha impresso il suo marchio alla lunga transizione italiana. E dunque la possibilità di saldare quel divario tra consenso e legittimità che resiste al passare del tempo e al succedersi delle vittorie elettorali, privando da ben quindici anni il berlusconismo di un pieno riconoscimento democratico.

Come sappiamo, ciò è accaduto e continua ad accadere grazie all’effetto convergente sia delle pulsioni di autoesclusione ancora diffuse in campo berlusconiano (eco sempre più debole dell’originaria spinta ribellistica del 1994) sia della rappresentazione del berlusconismo come escrescenza barbarica e quindi estranea al perimetro della presentabilità democratica. Ma quest’ultima fonte di eccezionalismo è assai più resistente del sovversivismo proto-berlusconiano, che è andato declinando soprattutto in ques’ultima fase compassionevole e consensuale dell’egemonia del centrodestra. E si alimenta anche a canali simbolici estremamente raffinati, come lascia pensare il programma di un’iniziativa di valore come la Biennale Democrazia in corso in questi giorni a Torino.

Il cartellone presenta dibattiti e incontri di grande qualità, con relatori di primissimo livello provenienti dai più diversi ambienti accademici e intellettuali. Eppure manca del tutto la voce della cultura politica riconducibile al berlusconismo, mentre sono presenti studiosi che originano da ambiti diversi della destra post-MSI come Marco Tarchi e Alessandro Campi o intellettuali come Franco Cardini e Domenico Fisichella certamente di area conservatrice ma da tempo in conflitto con gli orientamenti politici prevalenti nel centrodestra. Tolti gli eretici e i post-missini, nel primo festival nazionale dedicato al tema davvero imponente della democrazia non si trova una sola voce che possa dirsi culturalmente se non ideologicamente berlusconiana. Segno della tenace difficoltà a riconoscere lo status di piena presentabilità democratica al fenomeno politico che ha raccolto e continua a raccogliere il consenso di almeno la metà degli elettori italiani.

La questione non ha niente a che fare con le regole del galateo bipartisan, ma chiama in causa l’immagine del berlusconismo che sopravvive nella nostra percezione pubblica. E la domanda che occorre farsi proprio oggi, in occasione del 25 aprile, non è tanto quale sia il fondamento politico della rappresentazione barbarica del berlusconismo. Ma piuttosto se tale rappresentazione sia utile alla buona salute della nostra democrazia, nel momento in cui il berlusconismo ha probabilmente raggiunto il massimo storico dei suoi livelli di consenso e di forza politica. L’idea che una parte rilevante se non maggioritaria del paese, dei suoi elettori e della sua società civile, continui a subire i postumi dell’originario stigma di illegittimità concorre a prolungare una transizione già patologicamente dilatata e indebolisce il terreno sul quale lo stesso centrosinistra dovrà prima o poi tornare a misurarsi per riconquistare la maggioranza degli italiani. Perché dovrà farlo riconoscendo piena legittimità non tanto a Berlusconi quanto agli elettori berlusconiani anche in termini simbolici, e dunque includendovi non solo le motivazioni “basse” che ne giustificherebbero il voto (il bisogno di sicurezza, l’insofferenza verso l’eccessivo carico fiscale, etc.) ma anche le ragioni più “alte” di appartenenza. Come può appunto essere il sentirsi pienamente parte di una comunità democratica che nel 25 aprile festeggia ritualmente la libertà di tutti e di ciascuno.

Walter Barberis, sulla Stampa di giovedì, ha lucidamente ricordato la distanza che separa l’invocazione inevitabilmente ingannevole di una “memoria condivisa” (laddove “la memoria è soggettiva, individuale, risultato di sguardi particolari che non possono essere modificati”) e l’urgenza di quel “grande bisogno di verità, di una storia plausibile” che possa “dare prospettiva al paese senza patteggiamenti pelosi su come ricordare il nostro passato”. Ecco, di fronte al gesto che oggi Silvio Berlusconi compierà ad Onna si avverte lo stesso bisogno di colmare con franchezza e verità la distanza che separa gli appelli inevitabilmente retorici alla “riconciliazione nazionale” e la sopravvivenza reale che una buona parte di noi continua a garantire al marchio antidemocratico sul volto del berlusconismo. Perché il Cavaliere, di certo anche per ragioni di opportunità, realizza un altro passo nella costruzione di quel suo nuovo personaggio consensuale al quale ha affidato una futura agenda politica che punta dritta al Quirinale. Ma coloro che berlusconiani non sono difficilmente potranno limitarsi a chiedergli esami del sangue e prove di purezza, coltivando l’illusione di una superiorità genetica che la gran parte dell’elettorato non ha alcuna intenzione di riconoscere. Mentre il paese continua a covare una frattura tra mandato elettorale e legittimità democratica dagli effetti tutt’altro che salutari. 

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