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« inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:20:48 am » |
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Nel 1969 un reportage mise il mondo di fronte alla verità
Ma il genocidio continua
La strage dei popoli indigeni non si è mai fermata
In Brasile scomparsa una tribù ogni due anni.
Il loro mondo minacciato da allevamenti, strade e dighe
di Alessandra Coppola e Stefano Rodi
“GENOCIDIO”. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis (che, giovane ufficiale sbarcato in Italia con gli americani durante la Seconda guerra mondiale, già aveva esercitato il suo istinto giornalistico nei resoconti di “Napoli '44”) si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e ne porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una “tropical Gomorrah”, scrive in un passaggio Lewis: “La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine”.
"NO CONTACT" I popoli sconosciuti sempre in fuga
Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, Survival, non abbastanza è cambiato.
Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Se negli anni Sessanta l'assimilazione o l'estinzione dei popoli indigeni era data per scontata, un inevitabile sebbene doloroso prezzo da pagare per il cosiddetto progresso, oggi è riconosciuta l'inalienabilità dei diritti dei nativi ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione ancora imperante che si tratti di popoli rimasti indietro, primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati”.
DALLA SPERANZA ALLO STERMINIO - Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo “Genocidio”: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, ecc... I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù che ruota intorno al fiume Yuruena e ai suoi affluenti, per la pesca ma anche per il sostentamento culturale e identitario, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato cioè colui che firma il via libera al progetto delle dighe. Senza valutazione di impatto ambientale, è ovvio, e senza consultare gli Enawene Nawe.
TERRE USURPATE - La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Maranhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal contatto violento con i cacciatori di legna, gli operai addetti al disboscamento, il mondo “civilizzato” che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.
LA POLITICA Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. “A violare i diritti dei popoli indigeni sono i governi di destra come di sinistra – spiega Francesca Casella - dei Paesi ricchi come di quelli in via di sviluppo. L'unica differenza la fa la volontà politica”. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate. Anche l'Onu (il 13 settembre 2007) ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. “Leggi molto precise li tutelano – continua la direttrice di Survival -. Il problema è che non sono rispettate: per corruzione, interessi economici, o anche semplicemente inerzia, mancanza di volontà politica, perché la tutela dei nativi è considerata una questione secondaria rispetto ad altre emergenze”. Non è detto (ma si può sperare) che la presidenza progressista di Lugo aiuti gli Ayoreo del Paraguay a salvarsi dall'avanzata del disboscamento.
IN INDIA - Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la Vedanta, che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli Survival sta cercando di fare pressione sugli azionisti di Vedanta, tra i quali anche le italiane Intesa Sanpaolo e Eurizon Capital SGR (già qualcuno, come il governo norvegese, la Martin Curie e il BP Pension Fund, ha disinvestito). Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per “salvaguardare le riserve protette”. Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati – col pretesto di inserirli nella società – e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprilo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds. Spesso sono le riserve, a volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane.
LE GUERRE - Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. E' di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 30 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni uccisi dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettere preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotà, Alvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcué, una delle leader del Consiglio indigeno del Cauca: il 16 dicembre scorso a un posto di blocco l'auto sulla quale avrebbe dovuto viaggiare è stata bersagliata di colpi, ucciso suo marito. I soldati che hanno fatto fuoco hanno detto di aver ricevuto l'indicazione che di lì sarebbe passata una pericolosa terrorista.
COLOMBIA - Laura Greco, uno dei fondatori dell'organizzazione italiana A Sud, lavora anche Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «Noi portiamo avanti una campagna permamente sui popoli originari e la difesa dei loro diritti e territori. In Colombia - spiega Laura - in particolare lavoriamo da anni denunciando le azioni ed omissioni criminali del governo e delle autorità locali che permettono o comunque non fanno nulla per impedire il genocidio in atto». A Sud cerca anche di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori – spiega Laura - Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotà. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava “genocidio”.
da corriere.it
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