LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 12:42:27 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: In Brasile scomparsa una tribù ogni due anni.  (Letto 2720 volte)
Admin
Utente non iscritto
« inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:20:48 am »

Nel 1969 un reportage mise il mondo di fronte alla verità

Ma il genocidio continua

La strage dei popoli indigeni non si è mai fermata

In Brasile scomparsa una tribù ogni due anni.

Il loro mondo minacciato da allevamenti, strade e dighe



di Alessandra Coppola e Stefano Rodi

“GENOCIDIO”. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis (che, giovane ufficiale sbarcato in Italia con gli americani durante la Seconda guerra mondiale, già aveva esercitato il suo istinto giornalistico nei resoconti di “Napoli '44”) si immerge nelle carte di un'inchiesta della procura generale brasiliana e ne porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una “tropical Gomorrah”, scrive in un passaggio Lewis: “La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c'erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine”.


"NO CONTACT"
I popoli sconosciuti sempre in fuga

Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant'anni esatti da quell'articolo choc che provocò grande reazione e la nascita una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, Survival, non abbastanza è cambiato.

Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, fa il punto: «Un progresso importante c'è stato: è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. Se negli anni Sessanta l'assimilazione o l'estinzione dei popoli indigeni era data per scontata, un inevitabile sebbene doloroso prezzo da pagare per il cosiddetto progresso, oggi è riconosciuta l'inalienabilità dei diritti dei nativi ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione ancora imperante che si tratti di popoli rimasti indietro, primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati”.

DALLA SPERANZA ALLO STERMINIO - Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo “Genocidio”: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, ecc... I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l'estinzione. La vita della tribù che ruota intorno al fiume Yuruena e ai suoi affluenti, per la pesca ma anche per il sostentamento culturale e identitario, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato cioè colui che firma il via libera al progetto delle dighe. Senza valutazione di impatto ambientale, è ovvio, e senza consultare gli Enawene Nawe.

TERRE USURPATE - La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Maranhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal contatto violento con i cacciatori di legna, gli operai addetti al disboscamento, il mondo “civilizzato” che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa.

LA POLITICA Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. “A violare i diritti dei popoli indigeni sono i governi di destra come di sinistra – spiega Francesca Casella - dei Paesi ricchi come di quelli in via di sviluppo. L'unica differenza la fa la volontà politica”. A volte c'è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate. Anche l'Onu (il 13 settembre 2007) ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. “Leggi molto precise li tutelano – continua la direttrice di Survival -. Il problema è che non sono rispettate: per corruzione, interessi economici, o anche semplicemente inerzia, mancanza di volontà politica, perché la tutela dei nativi è considerata una questione secondaria rispetto ad altre emergenze”. Non è detto (ma si può sperare) che la presidenza progressista di Lugo aiuti gli Ayoreo del Paraguay a salvarsi dall'avanzata del disboscamento.

IN INDIA - Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell'Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la Vedanta, che progetta un'immensa miniera di bauxite. Per fermarli Survival sta cercando di fare pressione sugli azionisti di Vedanta, tra i quali anche le italiane Intesa Sanpaolo e Eurizon Capital SGR (già qualcuno, come il governo norvegese, la Martin Curie e il BP Pension Fund, ha disinvestito). Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per “salvaguardare le riserve protette”. Il governo dello Stato africano però ha un'idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell'Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell'area, ma l'amministrazione li ha ormai sfrattati – col pretesto di inserirli nella società – e rende impossibile il rientro: cementato l'unico pozzo d'acqua che dava sostentamento all'intera tribù, vietato riaprilo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c'è: diamanti. All'inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds. Spesso sono le riserve, a volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell'Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane.

LE GUERRE - Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. E' di questi giorni l'allarme per l'uccisione ancora da chiarire di 30 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni uccisi dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettere preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotà, Alvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcué, una delle leader del Consiglio indigeno del Cauca: il 16 dicembre scorso a un posto di blocco l'auto sulla quale avrebbe dovuto viaggiare è stata bersagliata di colpi, ucciso suo marito. I soldati che hanno fatto fuoco hanno detto di aver ricevuto l'indicazione che di lì sarebbe passata una pericolosa terrorista.

COLOMBIA - Laura Greco, uno dei fondatori dell'organizzazione italiana A Sud, lavora anche Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «Noi portiamo avanti una campagna permamente sui popoli originari e la difesa dei loro diritti e territori. In Colombia - spiega Laura - in particolare lavoriamo da anni denunciando le azioni ed omissioni criminali del governo e delle autorità locali che permettono o comunque non fanno nulla per impedire il genocidio in atto». A Sud cerca anche di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori – spiega Laura - Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l'alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l'amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotà. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava “genocidio”.

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #1 inserito:: Febbraio 28, 2009, 10:21:43 am »

I pensieri dei popoli indigeni

Alcune della frasi pronunciate da rappresentanti dai popoli indigeni



"Se avessi saputo come si comportano i Cojñone (bianchi), non sarei mai uscito dalla foresta".
Uomo Totobiegosode, Paraguay, 1997

“Quando l’ultimo albero sarà morto, quando l’ultimo fiume sarà stato inquinato e l’ultimo pesce sarà stato catturato, solo allora vi renderete conto che non si può mangiare il denaro”.
Detto degli Indiani Cree

"Per gli Innu i sogni sono visioni. Per gli uomini bianchi le visioni sono allucinazioni".
Jimmy Nui, Innu, Canada


“Tratta bene la Terra! Non è un’eredità dei nostri padri ma un prestito dei nostri figli”.
Antico detto masai, Kenia.

“In questa terra ci sono le nostre radici. Questa terra È l'origine dei nostri nonni, delle nostre madri e dei nostri padri, è l'origine dei nostri antenati sin dalla notte dei tempi. Come può il governo sostenere che non è la nostra terra?”
Uomo Penan, Sarawak

“Viviamo nel profondo della foresta, spinti ai margini da Bianchi che si avvicinano sempre di più. Siamo sempre in fuga. Amiamo la foresta perché è qui che siamo nati. Senza la foresta non siamo nessuno e non possiamo sopravvivere.”
To’o, uomo Awá, Brasile

"Di Amungme mi è rimasto solo il nome. Le montagne, i fiumi, le foreste, ora appartengono tutti al Governo e alla Freeport. Io non ho più nulla."
Leader Amungme.

“Non possiamo vivere senza Niyamgiri. Come può un pesce vivere senz’acqua?”
Suresh Wadaka, anziano Dongria Kondh, Orissa, India

“Il mito presuppone che noi non esitiamo più. Quest’idea è la cosa più difficile contro cui dobbiamo ancora combattere”.
Un membro dell’AIM (Movimento Indiano Americano), USA, 1972

“Noi abbiamo dato loro montagne ricoperte di foreste e valli ricche di selvaggina, e in cambio cos’hanno dato loro ai nostri guerrieri e alle nostre donne? Rum, cianfrusaglie e morte”.
Tecumseh, Shawnee, USA 1812

“Essere un Indiano significa vivere con la terra, con gli uccelli e con i pesci come fossero propri fratelli e sorelle. Significa considerare la terra una vecchia amica e un vecchio amico che hanno conosciuto tuo padre. Per noi Indiani, la nostra terra è veramente la nostra vita”.
Richard Nerysoo, Inuit

“In Unidad Indigena noi parleremo con la nostra voce secondo quello che realmente siamo: uomini, donne e bambini in carne ed ossa, con una nostra dignità, una nostra lingua, religione, legge... decisi e scrivere e organizzarci per difendere tutte queste cose da chi vuole continuare a toglierci ciò che è nostro”.
Unidad Indigena (giornale indigeno indipendente), Colombia, 1975

“La nostra lotta finirà solo quando noi avremo trovato, ognuno a proprio modo, il nostro posto tra i tanti popoli della terra. E quando questo momento arriverà, noi saremo ancora un popolo identificabile, indipendente e fiero...”.
Capo David Courchene, Canada, 1971

Prova per un attimo a immaginare... di vivere in una casa molto bella, dotata di tutti i comfort per le tue esigenze. Ad un certo punto arrivo io, vengo a casa tua e comincio a vendere i tuoi mobili e le tue cose. Dalla vendita io ricavo, diciamo, 1.000 dollari e te ne do uno. Ti dico come dovresti vivere a casa tua. Ti dico cosa dovresti pensare. Ti dico come dovresti sentirti e reagire alle situazioni e quando agisci uso i miei valori per giudicarti. Ti dico che adesso questa è casa mia. Dopo un po' ti suggerisco che potremmo "negoziare" qualche cambiamento a questo accordo, ma senza alterare il fatto che questa rimane casa mia e che io ne mantengo il controllo. La casa ovviamente è la nostra terra, la Nitassinan, e gli Euro-Canadesi sono coloro che l'hanno invasa e ne hanno preso il comando. Noi non abbiamo bisogno di immaginare una situazione simile: noi la stiamo vivendo.
Daniel Ashini, Innu, Canada

“Immagina di sentire un rumore… Non hai mai udito nulla di simile prima d'ora. È il rombo di un bulldozer. E poi… improvvisamente arriva, e sotto i tuoi occhi sventra la tua casa, la tua terra. Provi una sola emozione: paura. E il tuo istinto ti suggerisce una sola cosa: scappa, corri e non fermarti!”
Un uomo Ayoreo-Totobiegosode appena dopo il contatto, Paraguay.

“I Bianchi parlano continuamente del pianeta, ma non pensano che esso abbia un cuore e che respiri. Eppure è così. Non l’hanno mai guardato veramente da vicino, con i loro occhi. Sanno solo studiare sui libri e parlare di politica. Anche noi studiamo... andiamo nella foresta e l’osserviamo con attenzione. Loro, no. Il loro sapere è tutto su carta. Gli Yanomami si sono sempre presi cura di questa terra, da molto prima che arrivassero i politici. Ma noi non usiamo carta. La nostra carta sono i nostri pensieri; quello che possediamo, sono i nostri credo... Ci piacerebbe tanto che gli uomini bianchi capissero perché la conservazione di questa foresta è così importante per noi. Vogliamo che ci aiutiate a difendere le nostre terre, che lavoriate al nostro fianco per difendere il nostro modo di vivere... Io, Davi Kopenawa Yanomami, voglio aiutare gli uomini bianchi a imparare come costruire un mondo migliore insieme a noi, a beneficio di entrambi”.
Davi Kopenawa Yanomami, Brasile

“Viviamo in condizioni disumane, in case minuscole, sopraffatti da una miseria degradante. Non abbiamo niente da mangiare eppure il nostro popolo ha ancora la forza di cantare con gioia e con speranza… Noi non vogliamo denaro e ricchezza. Vogliamo solo terra a sufficienza per poter vivere come preferiamo.”
Marta Silva Guarani, Brasile

Non avremmo mai pensato che potessero arrivare così in tanti. Fino a cinque anni fa non c’era nessuno… Sono sempre più numerosi e, un ranch dopo l’altro, si stanno avvicinando sempre più alle rive del fiume. Questi inuti sono molto diversi da noi. Distruggeranno tutto e così non ci saranno più pesce né feste né antenati, e noi moriremo. Noi, gli Enawene Nawe, non distruggeremmo mai la foresta. Vogliamo che gli animali vivano e desideriamo tanto che la terra si conservi bella per sempre.
Kawari, un Enawene Nawe, parla con Fiona Watson di Survival, Rio Preto, settembre 2005


24 febbraio 2009(ultima modifica: 26 febbraio 2009)
da corriere.it
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!