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Autore Discussione: Gian Giacomo MIGONE -  (Letto 6359 volte)
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« inserito:: Ottobre 24, 2007, 06:32:56 pm »

Il mondo litiga, l’Europa tace

Gian Giacomo Migone


Esiste un’insufficiente consapevolezza, a Bruxelles come nelle altre capitali europee, di ciò che l’Europa non solo deve ma può fare, per evitare che nubi sempre più numerose e oscure si trasformino in una tempesta di cui è difficile prevedere le dimensioni e, soprattutto, la fine. Gli apprendisti stregoni che occupano tuttora le principali stanze del potere di Washington non sanno come, forse non vogliono, far rientrare nelle loro provette tutti gli spiriti maligni che hanno evocato - dalla Polonia alla Cina, passando per il Golfo Persico e Mosca - né la stagione elettorale si presta ad un così arduo esercizio, in cui lo stesso Dipartimento di Stato sembra tardivamente impegnato.

Come disse Tip O’Neill, non dimenticato presidente della Camera dei Rappresentanti, «All politics is local»: tutte le scelte, anche quelle geograficamente più remote, devono fare i conti con le reazioni degli elettori nelle località più remote dell’America profonda. In una stagione elettorale, come quella attuale - siamo ad un anno dalle elezioni presidenziali - tutto diventa possibile, in positivo e in negativo. Sono egregi e necessari gli sforzi diplomatici europei, come quelli in atto per rallentare le dinamiche di un intervento militare in Iran, rafforzare la componente civile di quello in Afghanistan, trovare una soluzione politica condivisa in Libano, evitare un intervento turco nel Kurdistan iracheno, incoraggiare l’apertura nei confronti di Mosca sullo scudo stellare (pur sapendo che Putin sta giocando la carta della riesumazione del conflitto est-ovest), tentare di evitare una Conferenza sul Medio Oriente che si risolva in una guerra senza frontiere ad Hamas, continuare nello sforzo di non appiattirsi sulla posizione di Washington nella trattativa commerciale con la Cina (anche se il blairiano Mandelstam si sta muovendo precisamente in quella direzione).

Si tratta di una nobile, anche necessaria, rincorsa di un’agenda, una scala di priorità, di volta in volta decisa e modificata a piacimento da Washington. Nobile e necessaria, ma non realistica, se rimane limitata entro i confini della diplomazia professionale. Essa può sortire qualche effetto solo se si interseca con la partita di politica interna che per un anno intero determinerà ogni scelta di politica estera della maggiore potenza mondiale. Non si tratta di «interferire», facendo il tifo per i democratici contro i repubblicani. Nelle scelte strategiche di politica estera una candidata sensibilissima agli umori variabili del Paese (e all’antica esigenza degli esponenti del suo partito di dimostrarsi macho almeno quanto i rivali repubblicani) come Hillary Clinton potrebbe non dimostrarsi tanto diversa da George W. Bush. Piaccia o no, sono questi umori variabili dell’elettorato americano a determinare in buona parte quale piega prenderanno gli eventi mondiali nei prossimi mesi e, forse, nei prossimi anni. Siamo costretti a rinviare ad altra data la nostra capacità, in quanto europei, di non subire passivamente l’agenda imposta da Washington. Ciò si verificherà nel momento in cui esisterà un’entità politica europea, in grado di agire nell’interesse e secondo i valori del quasi mezzo miliardo di persone che noi siamo, che non può essere regalata da Washington. Nel frattempo possiamo soltanto chiederci in quale modo gli sforzi diplomatici europei possano eventualmente (la formulazione è volutamente iperprudente) incrociarsi con la dinamica elettorale americana che condizionerà imminenti scelte di politica estera, di guerra e di pace, di una potenza per ora senza rivali, tuttavia sempre meno egemone, in quanto sempre meno capace di agire nell’interesse dell’insieme di cui fa parte (il pianeta) e in conformità con i propri valori.

Quale sia questa dinamica, questo condizionamento sulle future scelte di politica estera di Washington, quale dilemma presenti all’elettorato non è difficile prevedere. L’Amministrazione in carica è oggi in difficoltà su tutti i fronti. I suoi indici di gradimento non raggiungono un terzo dell’elettorato. Pesa soprattutto un giudizio ormai universalmente accettato, salvo dal presidente in carica e dai suoi più diretti collaboratori, sull’esito della guerra in Iraq e, di riflesso, sulla guerra al terrorismo che egli così ha definito e condotto. Però, attenzione, si tratta di un giudizio, soprattutto lo stato d’animo che ne deriva, non ancora consolidato, che può essere fortemente manipolato con parole e atti di chi detiene ancora formidabili leve, quelle della presidenza e dei centri di potere che finora l’hanno sostenuta. È ragionevole pensare che l’esito di quella guerra, le difficoltà riscontrate altrove, la stessa aggressività iraniana che ne costituisce una conseguenza diretta, consiglierebbero un rifiuto di altre avventure militari, una maggiore attenzione verso altri scenari e bisogni interni, una diversa politica economica. Su ciò scommettono un Congresso a maggioranza democratica (dimostratosi finora poco efficace), i candidati presidenziali democratici, mentre il Dipartimento di Stato tenta di adeguarvisi, nei limiti in cui gli è consentito dalla Casa Bianca.

Tuttavia, sarebbe un errore nascondersi che esiste un’altra possibilità, un altro modo di affrontare l’appuntamento elettorale (che qualcuno potrebbe addirittura confondere con l’appuntamento con la storia) dell’Amministrazione in carica; una possibilità che sembra, purtroppo, profilarsi nell’impostazione offerta, da Wasghinton e non sol

tanto da Washington, ai rapporti con l’Iran che stanno diventando, non a caso e con l’evidente complicità del presidente iraniano in carica, il punto focale della politica mondiale e della stessa campagna elettorale americana. Una possibilità che trova conforto in un’antica legge della politica, esasperata dalla mercurialità dell’opinione interna statunitense, secondo cui chiodo scaccia chiodo: una crisi dall’esito incerto, o decisamente negativo, come quella tuttora in atto in Iraq, viene cancellata da un’altra crisi che, per dimensioni e qualità, esalti il ruolo militare del comandante in capo, previa adeguata escalation di trattative senza esito, sanzioni radicalizzanti ma inadeguate a sortire un risultato a quello del conflitto armato. Con tutte le conseguenze che ne derivano in un mondo in rapida trasformazione, con il difficilissimo compito di sopportare tensioni inedite di natura culturale e sociale. È una partita ancora aperta, che condiziona esiti elettorali ma ne travalica gli schieramenti, perché esistono modelli alternativi, alla portata della stessa Casa Bianca, come quelli libico e nordcoreano, coerenti con l’obiettivo sacrosanto della non proliferazione. Il quale, tuttavia, nel medio e lungo periodo, esige il rispetto della prima parte del trattato (che prevede misure di disarmo da parte dei detentori dell’arma nucleare, come a suo tempo osservò il non dimenticato senatore William Fulbright).

In che modo è possibile incidere su queste dinamiche in atto, a cominciare da quelle scatenate dalla competizione elettorale in pieno corso di svolgimento negli Stati Uniti? Occorre, innanzitutto, la piena consapevolezza delle responsabilità che incombono sugli alleati europei di Washington. Per quanto indeboliti dalle divisioni tra loro, accentuate dal riorientamento, duraturo o meno, della diplomazia francese, essi sono gli unici a poter comunicare credibilmente per comunanza di alcuni valori con settori significativi dell’opinione pubblica americana. C’è un solo modo per usare questa risorsa: affiancare ai giusti accorgimenti diplomatici una trasparente comunicazione sui dati di fondo della crisi decisiva in questa fase. Affermare con chiarezza i costi politici, in ogni scacchiere del globo ma soprattutto per la sicurezza strategica di Israele, di un’avventura militare contro l’Iran. In alternativa, proporre con forza a Washington una trattativa espliciti con Teheran su tutto il contenzioso, non solo quello nucleare, rinunciando a pregiudiziali che, invece, devono costituire uno degli esiti della trattativa medesima (la rinuncia volontaria da parte dell’Iran all’arricchimento dell’uranio che il trattato non esige, ma non al nucleare civile). Rifiutare con fermezza sanzioni fuori dall’Onu, sicuramente inefficaci se non universali, in sede di Unione Europea o altrove (altro che entità numerica della rappresentanza di singoli stati in sede di Parlamento europeo!). Considerare visite di statisti europei a Washington, come quelle imminenti dei presidenti Napolitano e Prodi, come occasioni preziose di comunicazione e spiegazione di simili propositi, in nome di valori comuni oggi più che mai bisognosi di conferma nei fatti.

Pubblicato il: 24.10.07
Modificato il: 24.10.07 alle ore 8.45   
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 29, 2007, 11:59:58 pm »

Il Kosovo, l’America e il silenzio

Gian Giacomo Migone


Scrive Igor Fiatti, collaboratore dell’Associated Press: «Camp Bondsteel, la più grande base americana costruita all’estero dai tempi del Vietnam, è quasi stata completata nella provincia jugoslava del Kosovo. È localizzata vicino a oleodotti e corridoi energetici di vitale importanza, al momento ancora in costruzione, come ad esempio l’oleodotto transbalcanico, sponsorizzato dagli Stati Uniti. Grazie al coinvolgimento nella costruzione della base alcune società appaltatrici del ministero della Difesa, come ad esempio la «Brown and Root Services» (Società affiliata della compagnia petrolifera «Halliburton Oil»), stanno guadagnando una fortuna. «Secondo Alvaro Gil Robles, commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Camp Bondsteel sarebbe anche stato utilizzato come «sito nero» della Cia per le così dette extraordinary renditions, esportazione di pratiche di tortura nei confronti di presunti terroristi.

Forse più grave del fatto in sé, che può essere variamente valutato, è il silenzio che lo circonda, in tutto l’Occidente (le fonti di Fiatti sono una rivista specializzata per ingegneri americani e due articoli di Le Monde, pubblicati il 25 e 26 novembre 2005) ma soprattutto in Italia, che non consente un dibattito informato sui destini di quella parte dell’ex Jugoslavia che a suo tempo provocò un intervento militare della Nato e che nelle prossime settimane potrebbe determinare un’ennesima crisi internazionale.

Se l’esistenza di un’importante base militare americana, strategicamente collocata, spiega l’insistenza di Washington su un’indipendenza più o meno incondizionata (su ciò ancora si negozia) del Kosovo, è altrettanto rilevante sottolineare come quello Stato in fieri, malgrado la presenza di un contingente militare della Nato (2000 soldati sono italiani, con un ulteriore battaglione in preparazione come rivelato da l’Unità, 23 novembre) sia in balia della criminalizzata, della droga e del nazionalismo più estremo. Dopo la sua morte e quanto di partecipazione democratica aveva costruito Ibrahim Rugova, resta partito di maggioranza relativa quello di Hashimi Thaci, a suo tempo leader dell’Uck, incoronato freedom fighter da Madeline Albright, con rapporti con la perdurante violenza nei confronti della minoranza serba che sarebbe generoso definire ambigui.

Quando portai nel Kosovo la Commissione Affari Civili dell’Assemblea Parlamentare della Nato che allora presiedevo - era l’autunno del 1998, fummo i primi parlamentari a giungere a Pristina e nei luoghi sacri dell’ortodossia serba, dopo la guerra - la singola anziana di estrazione serba non poteva recarsi al mercato senza essere accompagnata da due soldati del Kfor. Persino Bertrand Kouchner, oggi ministro degli Esteri francese, allora Alto Rappresentante dell’Onu, che aveva sposato la linea del «tout va très bien, madame la marquise», ammise che la maggioranza albanese discriminata da Milosevic si era in gran parte trasformata in persecutrice della minoranza serba. Quando chiedemmo a Thaci cosa pensasse della violenza politica ne negò l’esistenza, asserendo che in Kosovo, dopo l’intervento liberatorio della Nato e del suo Uck, vi era più soltanto un tasso fisiologico di criminalità. Ebbi occasione di rispondergli che quando in Italia troviamo un siciliano che neghi l’esistenza della mafia, pensiamo che vi appartenga. Non ho esperienze più recenti, ma tutti coloro che tornano dal Kosovo presentano un quadro analogo, dopo quasi dieci anni di presenza della Nato. Occorrerebbe una riflessione non solo sugli interventi militari, bensì sulla capacità nostra di mutare dall’esterno una sistuazione, condizionata da una catena di eventi di lunghezza plurisecolari.

Che fare, alla vigilia delle decisioni (o delle non decisioni, perché la Russia sembra decisa ad esercitare il proprio diritto di veto nei confronti di ogni ipotesi di indipendenza) del Consiglio di sicurezza dell’Onu? Innanzitutto occorre mettere sul tavolo della diplomazia e dell’opinione pubblica tutto ciò che è stato trascurato o volutamente occultata: gli interessi strategici americani (ma sono soltanto americani), la violenza nei confronti della minoranza serba, la natura criminosa della situazione di fatto attuale. In tal modo si può rendere più difficile una dichiarazione unilaterale di indipendenza, magari suffragata da un riconoscimento da parte di Washington e di alcune capitali di un’Europa ancora divisa. Poi occorrerà ridiscutere il “piano Ahtisaari”, magari rafforzato nelle sue garanzie nei confronti della minoranza serba, come del resto sta avvenendo in questi giorni. È particolarmente importante che Londra, sotto la nuova leadership di Gordon Brown, cessi di agire come la mosca cocchiera dell’alleato americano e si renda disponibile a una mediazione europea, anche nei confronti di Belgrado. Perché di territorio europeo si tratta ed è l’Unione Europea soltanto a disporre delle carote necessarie per placare gli animi nei Balcani (ammissione nell’Ue e conseguente sviluppo economico).
g.gmigone@libero.it

Pubblicato il: 29.11.07
Modificato il: 29.11.07 alle ore 8.38  
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« Ultima modifica: Luglio 09, 2011, 05:28:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 01, 2008, 06:04:36 pm »

La solitudine di McCain

Gian Giacomo Migone


La rinuncia di Rudy Giuliani, dopo la sua sconfitta nelle primarie della Florida, sottolinea ulteriormente le difficoltà che incontrano i repubblicani nella corsa presidenziale americana. Mike Huckabee non riesce ad oltrepassare i confini ristretti del voto conservatore di stampo religioso. Mitt Romney esce dalla Florida con l'etichetta di eterno secondo, salvo un suo improbabile sfondamento nel così detto grande martedì prossimo venturo. Resta sul campo il settantaduenne John McCain, malgrado un vento che sembra favorire il protagonismo giovanile. Insomma, tutto sembra consolidare la previsione secondo cui l'esito disastroso della presidenza Bush avrebbe ridotto la campagna elettorale del 2008 ad una corsa tra contendenti democratici. I quali, peraltro, ormai sono soltanto due, dopo la rinuncia di Edwards.

Quale scenario potrebbe rimettere in discussione questo quadro, piuttosto consolidato? Innanzitutto, sarebbe un errore sottovalutare la candidatura di McCain ove la sua leadership in campo repubblicano fosse rafforzata da successi nei grandi stati che non sono ancora entrati in lizza (in particolar modo a New York e in California, ove Giuliani lascia un vuoto da riempire). Ad un tempo eroe di guerra e personaggio estraneo ad un establishment che sembra costituire il bersaglio preferito dagli elettori di ogni collocazione in questa tornata, John McCain è l'unico candidato repubblicano capace di intercettare la richiesta finora più diffusa: quello del cambiamento. Forse più di stile, di linguaggio e di libertà di scelta, che di sostanza politica.

Se poi tra i democratici dovesse prevalere la candidatura più conforme alle aspettative degli interessi tradizionalmente più forti, nella società come nella capitale federale, quella di Hillary Clinton, egli potrebbe apparire come il più giovane, malgrado il decennio abbondante a suo sfavore; il suo straight talk, parlare chiaro, rinfrescante, rispetto ad un'aspirante donna di stato che prima dice si alla guerra in Iraq, poi no, per concludere con un forse.

Infine, uno scontro finale tra la Clinton e uno qualsiasi dei candidati repubblicani determinerebbe le condizioni ideali per un'entrata in lizza del sindaco di New York, Bloomberg, che darebbe vita ad una terza ipotesi esplicitamente orientata in senso ostile ad una gara di routine tra due candidature moderate e potenzialmente più capace di incidere negativamente sul risultato dei democratici. Non a caso si vocifera di un patto tra Obama e Bloomberg che non scenderebbe in campo se il candidato democratico fosse il senatore dell'Illinois.

In parole povere, è probabile che il prossimo presidente degli Stati Uniti sia un democratico, ma è sicuro che soltanto l'esito della corsa tra democratici potrebbe offrire un'apertura, un ulteriore chance ai repubblicani. Nel frattempo si addensano le nubi di una tempesta recessiva che, oltre a qualche evento internazionale imprevedibile, potrebbe sconvolgere il panorama qui analizzato.

g.gmigone@libero.it


Pubblicato il: 31.01.08
Modificato il: 31.01.08 alle ore 8.38   
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 11, 2008, 06:09:49 pm »

Il peso dell'apparato

Gian Giacomo Migone


Ora i problemi posti dalle elezioni americane si riducono ad un solo interrogativo, essenziale: i Democratici intendono eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti, capace di sfidare il declino sussultorio della più grande potenza mondiale, o preferiscono lasciare le cose come stanno, in una condizione di subalternità morale, politica e culturale che li affligge, fin dall’epoca di Ronald Reagan?

Certo, è possibile che le più recenti vittorie di Barack Obama (particolarmente importante quella nello stato di Washington, bianco e ipermoderno) inneschino un effetto valanga che gli consenta di giungere alla convention di Denver con una maggioranza autosufficiente.

È assai più probabile che lo stallo, modificato ma di poco, perduri e che i 796 superdelegati (governatori, sindaci di grandi città, senatori, deputati, donne e uomini di apparato) costituiranno l’ago della bilancia. Lo status di delegati di diritto, privi di vincoli giuridici di rappresentanza, consente loro una libera scelta individuale che possono esercitare all’ultimo momento, nel voto alla convention, oppure anticipare con una dichiarazione d’investitura a favore della Clinton o di Obama. Da cui l’incertezza nel conteggio attuale dei delegati che deriva dalle oscillazioni dei loro intendimenti, ridotti al fatidico dilemma: la presidenza o lo status quo?

Costoro preferirebbero la presidenza e uno status quo che ha così generosamente premiato le loro carriere. Purtroppo per loro, la questione non si pone in questi termini. Perché? Le ragioni sono varie e puntano tutte nella direzione di una scelta netta. I sondaggi d’opinione danno Obama chiaramente vincente sul candidato repubblicano (John McCain, malgrado le persistenti manifestazioni di forza da parte di Mike Huckabee), mentre Hillary Clinton riesce soltanto a raggiungere uno stentato pareggio. Al di là dei sondaggi, espressione di dati complessivi su base nazionale che non tengono conto delle complessità del sistema elettorale, conta soprattutto il fatto che Obama è più debole della Clinton in grandi stati «blu», comunque tendenzialmente democratici (New York, Massachusetts, anche California), mentre è il solo in grado di contendere a McCaine gli «stati rossi» che, ad esempio, John Kerry non riuscì a scalfire. E, senza alcuni dei quali, si ripeterebbe una vittoria repubblicana. Non a caso i repubblicani sin dall’inizio si augurano una candidatura di Hillary Clinton perché più facile da sconfiggere che non Obama, soprattutto da un candidato poco washingtoniano, perciò capace di intercettare il vento innovativo, se non proprio antipolitico, che spira negli Stati Uniti e in buona parte dell’Occidente.

Proprio quel vento che riempie le vele di Barack Obama. Molti commentatori hanno sottolineato come le presidenziali americane ormai (ma perché soltanto ormai?) siano un confronto tra personalità più che tra programmi. Vero, ma fino a un certo punto. Certo che contano genere, colore della pelle, retorica, carisma ma ciò che oggi orienta l’elettorato americano, determinando una partecipazione senza precedenti alle primarie, è una valutazione della capacità e della volontà di cambiamento dei singoli candidati. Ciò che suscita entusiasmo nei confronti di Barack Obama non sono i suoi pronunciamenti programmatici (rari ma molto significativi, come la disponibilità a negoziare con le forze avverse agli Stati Uniti nel mondo, prima di combatterle), bensì la sua relativa indipendenza da poteri forti che condizionano qualunque presidente, anche democratico. George W. Bush scomparirà dalla scena ma non gli interessi che lo hanno guidato. Sono i milioni di finanziatori e le masse solitamente restie a votare di giovani, di americani di origine africana, e di intellettuali tradizionalmente rinchiusi nei loro ghetti, mobilitati da Obama a renderlo diverso da Hillary Clinton, al punto di farla apparire come una minestra riscaldata della presidenza di suo marito. L’estremismo al potere, rappresentato dall’attuale presidente, ha reso più difficile ai democratici limitarsi a «tenere» un’area di centro che non contesta nelle sue premesse la politica avversaria; una posizione culturalmente, prima che politicamente, subalterna che, se anche vincesse di misura, della vittoria non sa cosa fare (quella congressuale del 2006 è tipica al riguardo).

La risposta dei delegati democratici dovrebbe essere semplice: quella del candidato che offre le migliori possibilità di sconfiggere gli odiati repubblicani. Eppure potrebbe non essere così perché quello stesso candidato costituisce un rischio anche per coloro che dovrebbero incoronarlo proprio a causa delle energie che ha messo in moto e dello sconvolgimento di poteri, politici e societari, che potrebbe determinare. Se, invece, la forza di Obama dovesse assumere proporzioni tali da trascendere o piegare quei 796 grandi delegati, resterebbero i pericoli a cui a suo tempo si espose Bob Kennedy.

g.gmigone@libero.it

Pubblicato il: 11.02.08
Modificato il: 11.02.08 alle ore 8.17   
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 22, 2008, 11:50:34 pm »

Ora Obama fa paura

Gian Giacomo Migone


L’esito delle primarie dell’Oregon e del Kentucky, conclusesi con un ulteriore pareggio, spostano di poco i rapporti di forza vigenti tra Barack Obama e Hillary Clinton, anche se il numero dei delegati favorevoli al senatore dell’Illinois è ormai molto vicino al quorum della maggioranza assoluta necessaria per conseguire la nomination democratica. Più significativo appare l’attacco indiretto sferrato nei giorni scorsi dal presidente Bush, cui si è subito associato il candidato repubblicano John McCain, a Barack Obama in quanto definisce doppiamente la campagna elettorale negli Stati Uniti. Da una parte il Presidente degli Stati Uniti riconosce il senatore dell’Illinois come portatore dell’alternativa alla sua politica estera.

In tal modo costringendo il candidato repubblicano, John McCain, ad allinearsi sulle sue posizioni, mentre Hillary Clinton, ormai offuscata dallo scontro in atto, si vede costretta a solidarizzare con il suo rivale in campo democratico, pur proseguendo la prova di forza delle primarie (restano soltanto quelle di Portorico e del Montana). Dall’altra, la sede dell’attacco (il Knesset ovvero il Parlamento dello Stato d’Israele), in spregio ad ogni regola di politica interna ed estera, e il suo contenuto (paragonare Obama agli appeasers che cedettero a Hitler, per la sua dichiarata disponibilità a discutere con gli avversari della politica mediorientale statunitense) imposta una campagna elettorale nei termini di un conflitto di dimensioni globali sulla politica estera degli Stati Uniti.

La Clinton e lo stesso McCain sono le prime vittime della nuova fase della campagna impostata da Bush. Da parte sua Obama si è visto costretto a togliersi the kid gloves, i guantini del ragazzo beneducato, per indossare quelli da pugilato, per rispondere a tono al presidente in carica.

Ma cerchiamo, innanzitutto, di comprendere le motivazioni dell’inquilino della Casa Bianca. Impopolare quanto si vuole (per causa sua i repubblicani hanno appena perso un seggio sicuro nello stato ultraconservatore del Mississippi), egli dispone dei poteri e della piattaforma mediatica offerti dalla sua carica, con la possibilità di usarli a fini di politica interna. Scopo principale di Bush è innanzitutto quello di salvaguardare l’eredità della sua politica estera e la continuità degli interessi che essa sottende; solo in seconda battuta quello di amministrare le ambizioni del suo partito, anche disposto a compromettere le sue possibilità di conservare la presidenza e di non subire un tracollo in Congresso. In questo senso la principale vittima della sua uscita di fronte al Knesset è John McCain. Il candidato repubblicano, che finora ha goduto della rendita di posizione offerta dalla violenza e dalle incertezze derivanti dallo scontro interno democratico, si è visto costretto d’un tratto a sterzare bruscamente nella direzione delle posizioni presidenziali, rendendo quantomeno problematici e poco credibili i suoi sforzi, anche recenti, di prendere le distanze dalla politica di Washington, dalle pratiche incostituzionali della Casa Bianca, con le critiche alla tortura e alle forme più spietate di conduzione della così detta guerra al terrorismo. Insomma, da tutto ciò che qualificava la candidatura di McCain come quella di un maverick, un irregolare della politica visto con sospetto dai neoconservatori; risorsa preziosa in un’epoca segnata dal risentimento diffuso nei confronti della politica professionale, anche negli Stati Uniti, sia contro la odiata “politicante” Clinton che contro l’“antipolitico” Obama. In tal modo il Presidente prende atto o, addirittura, sceglie il suo avversario democratico. Poiché la gara democratica stava già prendendo questa piega, il Presidente decide di prendere il toro per le corna schierando per primo tutta l’artiglieria neoconservatrice contro il candidato più incompatibile. In altre parole, d’ora innanzi ci sono tutte le premesse per una lotta senza quartiere contro un avversario dipinto come filomusulmano, antiisraeliano se non proprio antisemita (non è casuale la scelta del Knesset e del richiamo a Hitler per sferrare la prima bordata), forse persino filocomunista, visto che McCain, nella scia del Presidente lo ha appena accusato di arrendevolezza nei confronti del neodittatore cubano. Insomma, pacifista in quanto vile nei confronti del nemico, unamerican, non americano. McCain ha scelto la convention della American Rifle Association, la temibile lobby delle armi, cuore dell’americanismo di stampo reazionario, per rinnovare critiche purtroppo già formulate da Hillary Clinton ad Obama, accusandolo di essere non solo nemico delle armi e degli armamenti, ma di non credere nei valori americani del coraggio virile, della caccia, della religione e, perciò, delle armi. Insomma un individuo, per indole e per valori elitari, inidoneo ad assicurare la sicurezza nazionale in quanto Comandante in Capo e anche solo a comprendere e rispettare l’americano medio.

Il generale “serrate i ranghi” dei democratici guidati dalla presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi, è il sintomo di una gara democratica che volge al suo termine. Giungono i primi segnali di trattative tra i due candidati che potrebbero avere come posta in gioco, oltre che la vicepresidenza, un posto alla Corte Suprema, come opportunamente suggerito dal Washington Post, nel timore di un ticket eccessivamente innovativo (un nero e una donna in un solo colpo) o, peggio ancora, un pasticcio riguardante la piattaforma politica dei democratici. Restano ancora delle incognite, perché la tenacia di Hillary Clinton, the comeback “kid”, la ragazzina che non si arrende, è grande. È anche importante capire che i democratici non sono soltanto divisi da un conflitto tra due forti personalità che, invece, sottendono differenze politiche più profonde di quelle pubblicamente dichiarate. Tuttavia, per farle emergere, Hillary sarebbe obbligata ad avvicinarsi al presidente in carica, tornando ad una tradizionale quanto perdente strategia di conquista del centro, piuttosto che far emergere e rappresentare nuovi settori di elettorato. Anche per questo è importante osservare come risponde Obama alla strategia presidenziale, sicuramente ispirata dal mitico Karl Rove, di cui McCain e lo stesso partito repubblicano sono almeno per ora ostaggi. Egli non può che ripagare il Presidente con la stessa moneta da lui usata. L’accusa di Obama al presidente Bush è quella di avere ipocritamente coltivato e manipolato la paura dei cittadini, traducendola in capitale politico, senza riuscire a combattere con efficacia il terrorismo come ampiamente dimostrato dalla guerra irachena. Qui Obama e i democratici possono poggiare piedi sulla terraferma. Non si tratta soltanto della perdurante impopolarità della guerra irachena e di quella crescente per quanto sta avvenendo in Afghanistan. In un caso come nell’altro gli alleati d’ieri sono diventati gli avversari di oggi. La liquidazione del regime sunnita ha aperto le porte della penisola araba agli sciiti ai loro protettori iraniani, come i talebani e persino la minoranza pashtun, da alleati contro il passato regime sovietico, sono stati trasformati in nemici di popolo in Afghanistan.

Più delicata è la questione dei negoziati. Nei mesi scorsi Obama è stato criticato, anche dal cospicuo partito mediatico a lui favorevole o non ostile, di non avere assunto posizioni di rilievo in materia di politica estera. In realtà una cosa importante egli l’ha detta, dicendosi disposto a usare ovunque la forza necessaria per tutelare la sicurezza degli Stati Uniti, ma sottolineando parimenti la necessità di negoziare direttamente con i nemici, quando necessario. La militarizzazione della politica estera dell’Amministrazione si fonda precisamente sulle pregiudiziali all’uso di qualsiasi forma di soft power. Se l’obiettivo del negoziato - ad esempio la rinuncia all’acquisizione di armi nucleari da parte iraniana o il riconoscimento dello stato di Israele da parte di Hamas - ne diventa la condizione è evidente che esso non decolla. Riuscirà Obama a “mantenere il punto” in proposito, distinguendo il giudizio sui suoi nemici-interlocutori dalla necessità di negoziare con essi o sarà invece costretto a imboccare la strada delle pregiudiziali su cui cercano di spingerlo Bush, Rove e McCain?

E come affrontare il nodo dei rapporti con Israele, allontanandosi da una condizione in cui è la coda (Gerusalemme) ad agitare il cane (Washington), secondo le accuse di una minoranza, per l’appunto, di ebrei americani? Più difficile ancora, riuscire a mantenere un profilo critico della militarizzazione della politica estera americana, in qualche modo collegato al declino del suo potere relativo, in quanto è proprio sul terreno militare che essa riesce, pur con qualche scricchiolio di cui è sintomo il continuato ricorso a mercenari in Iraq, tuttora ad esercitare una leadership incontrastata. Per non parlare della difficoltà di gestire, ovviamente senza proclamarlo, un concetto indigesto come questo, del declino dell’egemonia americana (ormai discusso da una rivista di establishment come Foreign Affaire) di fronte ad un elettorato comunque intriso di sentimenti patriottici se non nazionalisti. Qui occorre un salto di qualità come quello di cui Obama è stato capace con il suo storico discorso sul razzismo americano; cioè tale da restituire ai democratici quello che gli Americani chiamano il moral and political highground, la superiorità politica e morale in un dibattito radicalizzato come quello della campagna elettorale americana. L’alternativa non è allettante. È quella di inseguire l’orso nella sua tana, come hanno fatto con sfumature variegate Mondale, Gore e Kerry. E che sta facendo Hillary Clinton. Ci vuole un’enorme coraggio per sfidare l’accusa di debolezza, in politica come nella vita di tutti giorni. Ce la farà Barack Obama?

g.gmigone@libero.it



Pubblicato il: 22.05.08
Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.02   
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 05, 2008, 03:38:05 pm »

Se l’Europa disinnesca la guerra fredda


Gian Giacomo Migone


Non inganni il poco di fatto, emerso dal vertice straordinario dell’Unione Europea dedicato alla Georgia, se non la decisione di sospendere i negoziati per il rinnovo del partenariato con Mosca. Il comunicato finale afferma, tuttavia, che «non esiste alternativa ad una relazione forte» con la Russia, però fondato sul rispetto del diritto internazionale.

Il fatto sorprendente di questa ripresa di fiamma della guerra fredda è che l’Unione Europea sia stata in grado di resistervi, almeno in questa prima fase, avendo abbozzato una propria politica in proposito. Ancora una volta ha funzionato la leadership franco-tedesca, pur con qualche sfumatura diversa all’interno dei due governi, con l’appoggio attivo della Spagna e più imbarazzato dell’Italia, isolando le suggestioni provenienti da Washington nei confronti del Regno Unito e di alcuni (ma non tutti) Stati del centro-est europeo.

Alcuni fatti parlano chiaro. In primo luogo gli stessi membri europei hanno salvato la Nato da una crisi forse irreversibile resistendo con fermezza alle pressioni di George W. Bush che avrebbe voluto l’adesione immediata dell’Ucraina e della stessa Georgia. Proprio alla vigilia di eventi che avrebbero costretto l’Alleanza a scegliere tra la violazione del trattato, che impone la difesa collettiva di ogni Stato membro, e uno scontro armato con la Russia (essendo escluso da tutti, tacitamente anche da Washington, che l’appartenenza della Georgia alla Nato avrebbe di per sé dissuaso Mosca dall’attacco).

In secondo luogo, Sarkozy, investito della presidenza a rotazione dell’Unione, ha fatto l’unica cosa che fosse possibile fare: negoziare una tregua in sei punti, solo in parte rispettata dalla Russia, che - secondo la Merkel - resta un punto di riferimento ancora riconosciuto dal governo di Mosca. Tutto ciò è avvenuto dopo una chiara condanna dell’invasione russa e del riconoscimento unilaterale dell’indipendenza dell’Abkazia e dell’Ossezia del Sud da parte di Mosca (anche il precedente del Kosovo, largamente condizionato dalla costruzione della base americana di Bond Steel, pesa come un masso sulla coscienza occidentale). Né è mancata, nella discussione dei leader europei, la doverosa disapprovazione per la provocatoria invasione voluta da Saakashvili delle regioni dissenzienti, quantomeno consentita dall’amministrazione Bush, senza però far mancare al governo di Tblisi i necessari aiuti umanitari al fine della ricostruzione del Paese. Mi rendo conto che qualcuno potrebbe sollevare dei dubbi su questo giudizio positivo sulla tenuta europea, per carità relativo alla complessità degli eventi. Non mancano mai i piagnistei sulla paralisi dovuta alle divisioni interne all’Europa, solitamente accompagnati dalla ormai trita citazione di un Kissinger degli anni Settanta che si chiedeva quale fosse il numero di telefono dell’Europa (ma nessuno si chiede mai se egli ne auspicasse o, piuttosto, ne temesse l’esistenza).

Nel caso della crisi in atto, per fugare questo tipo di obiezioni basterebbe confrontare il giudizio, sempre relativo, sulla diplomazia europea con i risultati ottenuti da Washington. Che, dopo avere offerto su un piatto d’argento a Mosca l’occasione per sfoggiare la propria assertività (eufemismo caro alle diplomazie) non è stata in grado né di sostenere il soft power europeo né di sostituirlo con il proprio vantato hard power, esponendo il proprio uomo (Saakasvili) e il suo regime ad un massacro prima militare e poi politico. Senza colpo ferire se non quello di aggravare le tensioni strategiche con Mosca, a cui la politica di Putin per altro tende, giocando sulle ansie storicamente giustificate della Polonia e stimolando Kouchner a minacce subito ritirate di sanzioni europee, con il solo risultato di aggravare ulteriormente le tensioni tra gli alleati europei e con l’Europa nel suo insieme.

Come è ovvio chn’est qu’un début come direbbero e, infatti dicono a Parigi. Ciò che è stato appena abbozzato deve essere consolidato. Attendiamo l’esito della prossima missioni di Sarkozy, Barroso, e Solana a Mosca. Purtroppo, in questa fase a Putin conviene la contesa con Bush ed entrambi hanno come obiettivo quello di suscitare e incrementare le divisioni europee, da bravi vedovi della guerra fredda in un mondo multipolare che con si configura più secondo le gerarchie del passato. Perché quel passato non torni, nemmeno in forma larvata, occorre maggiore autoconsapevolezza da parte dell’Europa, vera erede dei benefici della caduta del Muro, che ne ha consentito la riunificazione e, potenzialmente, un ruolo nella politica mondiale.

In questo come in altri casi, ad esempio l’Iran, gli interessi europei non coincidono sempre e necessariamente con quelli del nostro maggiore alleato, ma nemmeno con quelli della Russia di Putin. Ad esempio, le fonti energetiche, in attesa di quelle rinnovabili, costituiscono un vero problema, di cui non è vile accorgersi. La scarsezza di petrolio e gas europeo richiede un’adeguata diversificazione delle vie di accesso e di approvvigionamento - che siano arabe, latino-americane, centro asiatiche o russe - per sottrarsi ad antiche e nuove forme di sovranità limitata.

Né la sovranità, intesa come autogoverno e partecipazione alla soluzione di sfide globali, deve escludere, anzi presuppone, un impegno per il rafforzamento della legalità internazionale, di istituzioni e di diritti universali, che, oltre a costituire la ragion d’essere dell’Unione Europea, ne rappresentano il principale interesse, la condizione per far sentire la propria voce nel mondo. Meglio a fianco degli Stati Uniti, se il nuovo inquilino alla Casa Bianca avrà la forza e la capacità di correggere la rotta seguita finora dalla Casa Bianca, ad esempio resistendo alla tentazione di impiantare una propria base militare in Georgia.

È ovvia l’obiezione. Perché tutto ciò non sia relegato al libro dei sogni, occorre una massa critica sufficientemente univoca e compatta, che non offra varchi eccessivi al divide et impera altrui. Ancora una volta le vicende caucasiche dimostrano che nessuno Stato europeo è in grado di condizionare nemmeno affermare alcunché di significativo.

Solo se più unita, l’Europa può identificare alcuni indirizzi nei confronti della Russia. Se l’estensione di un’alleanza militare - perché tale resta la Nato che non è ancora stata ripensata in un mondo ormai multipolare - risulta oggettivamente provocatoria intorno ai confini della Russia, si può dire altrettanto di un allargamento dell’Unione Europea, che ha tutt’altra configurazione, fino ai suoi confini naturali? Non si tratterebbe di una risposta alternativa alla domanda di sicurezza e indipendenza di paesi come la Georgia e l’Ucraina, e non soltanto essi, legittimamente pongono? E, più specificamente, una proposta di unificazione dell’Ossezia del Sud con l’Ossezia del Nord, oggi sotto sovranità russa, non corrisponderebbe ad una comune risposta di indipendenza più difficilmente eludibile, da Tblisi ma anche da Mosca, che non ripetuti ukase occidentali diretti contro le iniziative di Mosca? Si tratterebbe di una linea di comportamento capace di unificare l’Unione Europea. Se ciò non fosse, in questi come in altri casi; se si ripetesse l’ostinazione reattiva con cui una parte degli Stati membri continua a rispondere, non mi importa se in positivo o in negativo, alle sirene delle due ex superpotenze, occorrerebbe imboccare con decisione la strada della cooperazione rafforzata per la politica estera europea, come in passato è avvenuto per l’istituzione dell’euro.

g.gmigone@libero.it



Pubblicato il: 05.09.08
Modificato il: 05.09.08 alle ore 8.29   
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« Risposta #6 inserito:: Ottobre 21, 2008, 03:42:19 pm »

Se l’Italia cade nella spirale afghana


Gian Giacomo Migone


Continua la spirale di sangue in Afghanistan, con la morte di trenta civili a seguito di un attentato talebano. Migliorano, invece, le condizioni dei sette soldati italiani feriti a causa di un attacco suicida che ha avuto luogo sabato, ad Herat, la zona presidiata dalle forze armate italiane sotto comando Nato, secondo un mandato di peace keeping delle Nazioni Unite. Quel mandato non comprende la “coalizione di volonterosi” a guida americana, impegnata a stanare al Qaeda, in realtà a combattere tutti coloro che danno loro conforto, vero o presunto. Non soltanto i Talebani, ma la minoranza pashtun, quasi un quarto della popolazione afgana, cospicuamente presente anche oltre il confine pachistano. Due missioni distinte, ma destinate ad accavallarsi sempre di più, soprattutto agli occhi di una popolazione con una lunga e fiera tradizione che, volta per volta, li ha portati a scacciare qualsiasi invasore con perdite.

I nostri soldati sono stati colpiti in una fase immediatamente successiva alla visita spettacolare a Washington del presidente del Consiglio italiano, in cui egli è stato ringraziato dal presidente Bush per avere ampliato la missione dei nostri militari in Afghanistan (non si sa ancora in che termini, se quelli da tempo annunciati, e con quale autorizzazione parlamentare). Inoltre, l’attacco si è verificato alla vigilia dell’arrivo di due aerei Tornado che, dopo ripetute sollecitazioni da parte del governo degli Stati Uniti e del segretario generale della Nato, il Governo e i comandi militari italiani hanno destinato al fronte (chiamiamo le cose con il loro nome) afgano, pur precisando che, almeno in un primo tempo, essi saranno destinati a compiti di ricognizione.

Ammesso che sia così, resta difficile pensare che la popolazione locale, ripetutamente colpita da attacchi aerei alleati, sia disposta a distinguere, oltre che tra missioni con uno status giuridico diverso, anche tra aerei che individuano i bersagli e altri che li colpiscono. Appena giovedì scorso, secondo quanto riferito da funzionari governativi afgani, in località Nadali un attacco aereo della Nato avrebbe lasciato sul campo almeno 25 vittime civili, soprattutto donne e bambine; secondo l’International Herald Tribune, per ironica coincidenza, nello stesso momento in cui i portavoce del comandante supremo americano in Afghanistan, generale David McKiernan, stavano spiegando ai media presenti la sua nuova strategia di salvaguardia della popolazione civile. Questa revisione, evidentemente non ancora operativa, è stata sollecitata da un altro incidente analogo, ma ancora più cruento (almeno novanta civili, secondo fonti governative afgane e dell’Onu, solo parzialmente smentite dal comando statunitense), nelle settimane precedenti.

Di fronte ad un contesto di questa gravità politica e militare, l’attacco ai nostri militari non può essere liquidato con una peraltro doverosa dichiarazione di solidarietà, che vorremmo vedere estesa a vittime inermi di volta in volta colpite, da parte di questa o quella autorità italiana.

Nè servono manifestazioni di virilità da parte del ministro della Difesa, del tipo: «la missione proseguirà come precedentemente programmato». Non è in discussione la virilità dell’onorevole La Russa, bensì la capacità del Governo cui egli appartiene di valutare nel suo complesso una situazione che si va deteriorando a vista d’occhio. Inoltre, come mi è già capitato di scrivere, affermazioni, da parte dei nostri alleati, che tendono a confondere vincoli costituzionali e sempre più opportuni dubbi sull’impostazione della presenza della Nato in Afghanistan con una presunta indisponibilità dell’Italia a condividere oneri e rischi andrebbero respinte al mittente. In questo modo si eludono, sia a Washington che a Roma, i problemi posti dalla guerra in corso.

Non soltanto noi, le voci di esponenti militari italiani raccolte da Toni Fontana su l’Unità di domenica, bensì l’intelligence estimate della Cia e il capo di Stato Maggiore della Difesa statunitense sostengono pubblicamente che l’impegno internazionale in Afghanistan si trova in una spirale negativa. Il comandante britannico sul campo, da parte sua, ha affermato che quella guerra non può essere vinta, nemmeno con quel incremento di truppe che, purtroppo, persino Barack Obama, nel calore della campagna elettorale, si è visto costretto a chiedere (le prove di virilità non hanno frontiere). Quanto al governo di Kabul che siamo chiamati a difendere, esso lamenta i continui attacchi alla popolazione civile e auspica trattative con i Talebani. Cresce soltanto la produzione e il traffico della droga mentre l’acuirsi del conflitto violento attira terroristi di tutto il mondo, secondo la ricetta irachena. Tutto ciò non dice qualcosa ad un Governo e ad un Parlamento (maggioranza e opposizione compresi) che sono chiamati a rispettare l’articolo XI della Costituzione, che esclude la guerra come strumento di soluzione dei conflitti, oltre che valutare la sempre più urgente ridefinizione della missione Afghanistan? Una missione attualmente assai più vicina all’esperienza vietnamita di quanto non sia mai stata quella dissennatamente vissuta in Iraq. Forse è giunto il momento di una valutazione congiunta da parte dei governi europei a vario titolo presenti in Afghanistan. È particolarmente importante che giunga agli Stati Uniti un segnale forte prima dell’insediamento di un nuovo presidente. La presenza della comunità internazionale in quel paese grande e lontano non ha più nulla a che vedere con ciò che l’aveva originariamente ispirata - la volontà di colpire i responsabili dell’attentato alle Due Torri e di contribuire a costruirvi una democrazia - ed è bene prenderne atto, prima che sia troppo tardi.

g.gmigone@libero.it

Pubblicato il: 21.10.08
Modificato il: 21.10.08 alle ore 10.48   
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