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Autore Discussione: I doveri di un giudice  (Letto 2722 volte)
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« inserito:: Gennaio 30, 2009, 02:50:53 pm »

I doveri di un giudice


di Giovanni Bianconi


Ha impiegato quasi un mese Luigi De Magistris — giudice del tribunale del Riesame di Napoli, ma più famoso per essere l’ex pubblico ministero di Catanzaro rimosso da sede e funzioni, per motivi disciplinari, dal Consiglio superiore della magistratura— a scrivere i motivi per cui l’imprenditore Alfredo Romeo è rimasto in carcere. Era il tempo evidentemente necessario a studiare tutte le carte e spiegare, nei minimi dettagli che hanno richiesto 106 pagine, quella decisione.

Nel frattempo però avrà fatto anche altro, e certamente avrà seguito la vicenda tornata alla ribalta delle cronache sul cosiddetto «archivio Genchi», dal nome del consulente tecnico di cui proprio lui s’è servito per le sue inchieste calabresi, fino al momento in cui gli sono state sottratte. Vicenda che quindi lo coinvolge personalmente. Una settimana fa il dottor De Magistris ha saputo di essere stato convocato, per dare spiegazioni sul lavoro di Genchi, dal comitato parlamentare per la sicurezza presieduto dal senatore Francesco Rutelli. Il quale ha pubblicamente annunciato che l’organismo da lui guidato svolgerà un lavoro «equilibrato e severo» per accertare quello che c’è (se c’è) dentro e dietro l’«archivio Genchi»; che poi potrebbe chiamarsi Genchi-De Magistris, visto che il materiale arrivato in Parlamento è figlio del lavoro congiunto del magistrato che delegava e del perito che acquisiva dati, li elaborava e ne chiedeva altri, e poi il magistrato delegava di nuovo, e così via.

Dunque il giudice sapeva di doversi presentare davanti a Rutelli quando ha scritto (o ha lasciato scritto, se l’aveva fatto prima), nelle motivazioni sull’imprenditore Romeo tenuto in carcere con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione e turbativa d’asta, che quest’ultimo aveva un «rapporto, che presenta aspetti francamente poco chiari, con l’allora ministro Francesco Rutelli». O quando, qualche riga sopra, ha definito «consolidati » i rapporti dello stesso Romeo «con i parlamentari Rutelli e Lusetti, entrambi del Partito democratico, e con l’onorevole Bocchino del Pdl». Mettendo sullo stesso piano il primo (ascoltato su sua iniziativa in qualità di testimone nell’inchiesta napoletana, di cui non risultano al momento contatti diretti con l’imprenditore inquisito) con gli altri due che invece sono indagati e per i quali la Procura ha chiesto l’arresto, considerandoli «sodali » di Romeo nella presunta associazione per delinquere.

Letti alla luce di ciò che è accaduto negli ultimi giorni, gli accenni di De Magistris a Rutelli appaiono, con la stessa franchezza rivendicata dal giudice, generici e un po’ gratuiti. Inopportuni e fuori luogo. Perché possono far pensare a un’accusa buttata lì, en passant, senza che ce ne fosse motivo. Con la conseguenza che tutti possono immaginare chissà quale motivo; compreso il tentativo di delegittimare uno dei suoi «controllori». Sospetto talmente inquietante che un magistrato non può permettersi di suscitare. Sulla vicenda del cosiddetto «archivio Genchi» è bene che non si sollevino ulteriori polveroni e si faccia chiarezza, nell’interesse di tutti; a cominciare dal consulente e da De Magistris, che ritengono di aver svolto il loro lavoro nel pieno rispetto di regole e garanzie. Bisogna accertare tutto senza strumentalizzazioni e senza scandalismi, ma anche senza gettare ombre preventive e apparentemente pretestuose su chi quegli accertamenti è chiamato a svolgere.

30 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 31, 2009, 11:46:01 am »

Il Servizio che non c'è


di Vittorio Grevi


Forse mai come quest'anno il tema dominante dell’inaugurazione dell'anno giudiziario è stato quello dell’eccessiva dilatazione dei tempi del processo, in contrasto con la previsione costituzionale che ne impone la «ragionevole durata ». Un difetto di efficienza su cui si è ampiamente soffermata la relazione del primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, che vi ha ravvisato la principale causa della diffusa crisi di fiducia dei cittadini nella giurisdizione. Se la giustizia deve essere intesa come un «servizio essenziale» per la collettività (cioè, secondo una felice formula del presidente Napolitano, come un «servizio da rendere ai diritti ed alla sicurezza dei cittadini»), è chiaro che così non si può andare avanti.

Occorre, invece, procedere con decisione sulla strada delle riforme, ma con la consapevolezza che le più urgenti sono quelle dirette ad incidere, per l'appunto, sulla efficienza degli apparati giudiziari e sulla celerità dei ritmi processuali. E, allo scopo, non sono necessarie riforme di natura costituzionale, essendo sufficiente intervenire con intelligenza mediante leggi ordinarie. Purché, come si dirà tra breve, si tratti di riforme frutto di larghe intese. In questa prospettiva il presidente Carbone, dopo avere stigmatizzato il sempre più preoccupante verificarsi di fenomeni distorti di «abuso del processo », ha anzitutto valutato con favore alcune proposte governative volte ad introdurre rilevanti modifiche, in funzione acceleratoria, nel tessuto del processo civile. Quanto al processo penale, fermo restando sullo sfondo il grave problema della irrazionale distribuzione delle sedi giudiziarie (sulla questione ha insistito anche il vicepresidente del Csm, Mancino), Carbone non ha mancato di toccare alcuni punti specifici di grande attualità.

Così, per esempio, ha auspicato la previsione di meccanismi deflattivi volti a dare concretezza al principio di obbligatorietà dell'azione penale; ha rivendicato al pubblico ministero il potere di direzione delle indagini, ovviamente in rapporto a specifiche ipotesi di reato; ha rimarcato l'esigenza di una revisione della disciplina della prescrizione in senso differenziato, anche allo scopo di non scoraggiare l'accesso ai riti speciali (patteggiamento e giudizio abbreviato). Circa il tema delle intercettazioni telefoniche — la cui natura di strumenti «essenziali», e spesso «indispensabili », ai fini delle indagini, è stata sottolineata dal procuratore generale Esposito — il presidente Carbone ha invece preferito porre l'accento sul rischio di una loro «abnorme e poco giustificata reiterazione nel tempo ». Si tratta di un profilo assai delicato, oggi al centro del dibattito politico intorno ad un emendamento ministeriale che, riducendo di molto il concreto impiego di tale strumento investigativo, certo non si colloca nell'ottica della efficienza delle indagini. È questa una delle proposte di riforme all’orizzonte, sulla quale sarà bene riflettere a mente fredda operando un meditato bilanciamento degli interessi in gioco, e senza intenti punitivi verso la magistratura.

Anche perché l'esigenza di tutela della dignità delle persone, soprattutto di quelle estranee alle indagini (di cui ieri si è preoccupato il ministro Alfano), si realizza soprattutto nel senso di evitare alle stesse la «gogna mediatica», costituita dalla arbitraria pubblicazione delle loro conversazioni intercettate. In ogni caso, come ha ricordato Carbone al termine del suo discorso, le riforme in materia di giustizia vanno realizzate non in termini di «scontro» tra poteri dello Stato, bensì quale momento «di incontro e convergenza». Occorre, in sostanza, per riprendere il monito del presidente Napolitano, che si tratti di «riforme condivise»: anzitutto tra le forze politiche, ma anche tra gli stessi studiosi ed operatori del settore, ivi compresi avvocati e magistrati. E, per quanto riguarda i magistrati, occorre che gli stessi (rinunciando ad eventuali tentazioni di protagonismo mediatico o di appartenenza correntizia) si collochino responsabilmente in una dimensione di serena cooperazione con le altre istituzioni dello Stato, con l'unico scopo di contribuire al buon funzionamento del «servizio giustizia».

31 gennaio 2009
da corriere.it
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