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Autore Discussione: I Gattopardi padroni della crisi  (Letto 2390 volte)
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« inserito:: Gennaio 14, 2009, 08:44:04 am »

I Gattopardi padroni della crisi

di Giorgio Cremaschi, da Liberazione


Nel "Gattopardo" il nipote garibaldino così si rivolge allo zio, barone siciliano fedele ai Borboni, per convincerlo a schierarsi con i piemontesi: "Perché non cambi nulla bisogna che cambi davvero tutto". A questo fa pensare l'incontro di politici ed economisti europei, presenti tra gli altri Merkel, Blair, Tremonti, Sarkozy, dal quale è emersa una critica radicale al capitalismo finanziario e speculativo crollato nello scorso autunno. Cos'è il tutto che deve cambiare? La follia speculativa e il ruolo predominante della casta dei manager, il dominio della finanza sulla cosiddetta economia reale, del sistema bancario su quello delle imprese industriali. Cos'è però che deve restare? La sostanza della globalizzazione liberista, cioè la distruzione dello stato sociale ove c'era, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, la concorrenza salariale al ribasso, la precarietà e la flessibilità spinte all'estremo. Non una parola finora, tra tante critiche e autocritiche dei governanti, è stata rivolta alle condizioni del lavoro. La flessibilità è sempre la via maestra dello sviluppo e il salario resta sempre il nemico del sistema: guai a dire semplicemente "più salario". Anche quando si parla di una maggiore giustizia sociale, al massimo si pensa a un po' di esenzioni fiscali, e qualche elargizione per i disoccupati e i più poveri. La riduzione degli orari di lavoro, per contenere i licenziamenti, deve avvenire riducendo i salari e nessuno, ma proprio nessuno, pensa di mettere in discussione i contratti precari in quanto tali. Il rappresentante italiano nella Banca Europea, Bini Smaghi (successore di Padoa Schioppa, evidentemente il doppio cognome è indispensabile per accedere a quegli incarichi), ha proposto di finanziare le indennità per i disoccupati con l'aumento dell'età pensionabile. L'obiezione che sarebbe più sensato far andare prima in pensione e assumere così più disoccupati, invece che produrne ancora di più con l'allungamento del tempo di lavoro, è considerata ideologica. E a proposito di pensioni, è ideologico dubitare che non sia più vera la favola dei fondi. Quella secondo la quale ciò che manca nella pensione pubblica, può essere sostituito dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci che avverrebbe con i fondi pensionistici privati.
Ma se Borse e mercati crollano, come faranno i fondi a mantenere le loro promesse? Non lo faranno, ed infatti ai lavoratori della General Motors, in cambio dei possibili aiuti di stato, viene chiesto di rinunciare a gran parte della pensione aziendale, per ridurre il costo del lavoro.
Qui sta il punto. Le critiche al capitalismo liberista si fermano sulla soglia dei rapporti di lavoro, dei salari, delle condizioni e della dignità concreta dei lavoratori. Ai quali anzi vengono richiesti nuovi sacrifici, questa volta non in nome di promesse di guadagni magici, ma secondo la più antica favola di Menenio Agrippa. E chi non ci sta, chi prova a collegare la sua condizione di sfruttamento con il capitalismo in crisi, è un nemico da stroncare ed allontanare e le lacrime di coccodrillo degli imprenditori coprono una prepotente crescita dell'autoritarismo aziendale. Si licenziano i precari dalla sera alla mattina. Si licenziano delegati, come alla Maserati, si impongono continui peggioramenti delle condizioni di lavoro, si distribuiscono provvedimenti disciplinari e minacce continue. Cresce in ogni luogo di lavoro la paura, che galleggia ancor di più nel brodo della dilagante cassa integrazione, che aggiunge dramma sociale al degrado. Le ragioni della dignità del lavoro sono calpestate e coloro che le sollevano sono considerati e trattati come nemici dell'azienda e dell'economia. Alla fine avremo un capitalismo più regolato nei piani alti e ancor più feroce e ingiusto in quelli bassi.
Qual è il ruolo assegnato al sindacato in tutto questo? In Italia ne abbiamo avuto un primo saggio nella vicenda Alitalia. Chi ha firmato, il sindacalismo confederale, non ha contato nulla, è stato messo all'angolo in un ruolo ridicolo e impotente. Chi non ha firmato è stato posto alla gogna riservata ai nemici della nazione. Del resto le parole sono sempre chiare. Oggi al sindacato non si chiede più soltanto collaborazione, ma complicità. Il maxiaccordo sul sistema contrattuale, rispetto al quale destra e sinistra, Confindustria e grandi giornali, premono per l'adesione della Cgil, dovrebbe sanzionare tutto questo. Si dovrebbe finalmente abbandonare le rigidità del contratto nazionale e accettare flessibilità e sfruttamento, azienda per azienda, territorio per territorio, nel nome della comune lotta per la produttività. I lavoratori perderebbero definitivamente il diritto a rivendicare aumenti salariali "a prescindere", come ha detto il segretario della Cisl, e potrebbero solo sperare di guadagnare di più lavorando di più. E il sindacato, complice di tutto questo, ne verrebbe premiato con l'accesso a fondi, Enti, ruoli economici, ai quali il capitalismo riformato promette di lasciare spazio.
Se vogliamo che qualcosa cambi davvero nel sistema economico e sociale, bisogna allora prima di tutto impedire, anzi rovesciare, la soluzione gattopardesca. Bisogna ripartire dai salari, dalle condizioni di lavoro, dagli orari, dalla salute e dai diritti. Bisogna costruire un nuovo antagonismo sindacale e sociale che rifiuti le compatibilità che servono a salvare la sostanza profonda del sistema che ci ha portato alla crisi. Solo dalla rottura di questo disegno possono partire un'altra politica economica e un diverso sviluppo fondato sulla giustizia e l'uguaglianza.

(13 gennaio 2009)
da temi.repubblica.it/micromega-online
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