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« Risposta #2 inserito:: Luglio 24, 2007, 06:10:21 pm » |
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Erdogan, un vincitore post-islamico Gabriel Bertinetto
Alcuni commentatori già appiccicano a Recep Tayyip Erdogan l’etichetta di post-islamico. Leader di un partito nato solo dieci anni fa sulle ceneri di un’organizzazione inquinata da tendenze integraliste, il trionfatore delle elezioni turche sarebbe ormai secondo alcuni approdato sulle sponde della democrazia e del pluralismo di stampo occidentale.
A sostegno del positivo giudizio su Erdogan vengono evocate le importanti dichiarazioni distensive da lui rese domenica sera davanti ai militanti in festa per la vittoria nella sede dell’Akp (Giustizia e sviluppo) ad Ankara. «State certi che chiunque abbiate scelto, i vostri voti contano anche per noi -ha detto il premier-. Rispettiamo la vostra opzione, abbiamo valori comuni e obiettivi che ci uniscono tutti».
Parole rivolte all’altra metà del Paese, che ha risposto numerosa al richiamo delle forze d’opposizione, le quali della conversione laica di Erdogan e dei suoi uomini non si fidano affatto. Forze che trovano appoggi ed incoraggiamenti nei centri di potere tradizionalmente legati ai principi fondanti della Repubblica «kemalista», in particolare la rigida separazione tra politica e religione.
Non a caso, rivolgendosi materialmente ai seguaci acclamanti, ma idealmente lanciando il messaggio di conciliazione soprattutto ai milioni di assenti e di dissenzienti, il primo ministro ha citato il nome, riverito dall’establishment laico, di Mustafa Kemal Ataturk, padre della patria repubblicana. «Non devieremo dai valori fondamentali della Repubblica, ne saremo anzi i custodi». Frasi che avremmo potuto ascoltare dai sospettosi e vigili ufficiali delle forze armate, sempre pronti a rivendicare il ruolo loro riconosciuto dalla Costituzione turca, come «tutori» dei caratteri secolari dello Stato.
Del resto segnali di una propensione a passare il guado e recidere i legami con ambienti e posizioni integraliste, si potevano cogliere ultimamente nell’attenta selezione dei candidati alle parlamentari. Fuori molti elementi vicini ai circoli ed alle confraternite religiose, e vari personaggi legati al presidente uscente del Parlamento Bulent Arinc o all’ex-portavoce governativo Cemil Cicek, protagonisti di battaglie ideologiche di stampo islamista. Dentro molti laici dal profilo politico vicino a quello che Erdogan tenta da tempo di disegnare per l’Akp, cioè quello di una forza democratica conservatrice, di centrodestra liberale. E spazio perfino a transfughi della sinistra, come Ertugrul Gunay, ex-dirigente del più laico dei partiti turchi, il Chp (Partito repubblicano del popolo), fondato precisamente da Ataturk, ed evoluto dal nazionalismo originario verso una commistione di kemalismo e socialdemocrazia.
Ci si chiede allora dov’è l’Erdogan che nel 1999 finiva in prigione e perdeva temporaneamente i diritti politici per avere inneggiato all’Islam militante e militare: «Le moschee sono le nostre caserme, i minareti le nostre baionette, le cupole sono elmi, i fedeli sono soldati». Non era farina del suo sacco. Erano i versi di un poema nazionalreligioso del primo novecento, ma lui li aveva letti durante un raduno pubblico, e tanto bastò perché un tribunale speciale lo incriminasse per incitamento all’odio confessionale.
Allora Erdogan era il sindaco di Istanbul e apparteneva al Refah (Prosperità), partito islamico che la pressione dei «tutori» in divisa della Repubblica laica aveva costretto due anni prima ad abbandonare il governo. Necmettin Erbakan, premier dell’epoca, aveva dovuto piegarsi e rassegnare le dimissioni. Il Refah fu sciolto, ma l’ala meno intransigente, i cui membri amavano definirsi «islamici modernisti», decise di riprovarci e dar vita ad un nuovo partito.
Erdogan era tra loro e fu tra i primi a lanciare l’idea di un parallelismo fra il progetto politico del neonato Akp con l’esperienza europea dei partiti di massa di tradizione cristiana. «Siamo democratici-musulmani», ripeteva, in cerca di comprensione e solidarietà in Occidente, e cercando di smussare la diffidenza dei laici di casa. Qualche tempo dopo ancora coniò una nuova formula in cui il termine «islamico» non compariva nemmeno più, come attributo qualificante la nuova organizzazione. L’Akp diventava un partito «democratico-conservatore».
Il dubbio sulle vere inclinazioni e tendenze di Erdogan e dei suoi ovviamente rimane. Anche perché i loro comportamenti su certe materie, nei quattro anni in cui hanno governato, sono stati contradditori ed altalenanti. Erdogan non mancava di far rilevare il paradosso per cui le sue due figlie che studiano negli Stati Uniti, possono andare al college con il capo coperto, mentre in Turchia questo è severamente vietato. Né ha mai ceduto alle proteste di chi vede nel copricapo di foggia islamica ostentato in pubblico da sua moglie una sfida alla laicità che le sarebbe imposta dal suo ruolo semi-ufficiale. Questo sarebbe stato poco, se non si fosse accavallato ad intermittenti campagne dell’Akp per una revisione della legge che proibisce di vestire simboli confessionali negli uffici statali e nelle università, e per innalzare lo status giuridico delle scuole coraniche.
Ecco, se c’è una ragione per non accantonare definitivamente gli interrogativi sulla natura dell’Akp, essa sta nei sussulti integralisti che periodicamente ne scuotono le membra. Al punto che l’apparentemente legittima rivendicazione del diritto ad eleggere in Parlamento il capo di Stato fra le fila dei propri dirigenti è stata interpretata come il tentativo di mettere le mani su tutti gli apparati dello Stato al fine di stravolgerne la fisionomia istituzionale. Avendo mancato seppure di poco il traguardo dei due terzi dei deputati, Erdogan non avrà nemmeno in questa legislatura i numeri per cercare la prova di forza nell’elezione presidenziale. Ma sicuramente l’immagine di post-islamico non è consolidata dall’evocazione della propria intenzione a ritentarci, che ha pensato bene di mettere a verbale proprio alla vigilia del voto.
Pubblicato il: 24.07.07 Modificato il: 24.07.07 alle ore 13.51 © l'Unità.
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