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Autore Discussione: Cina Poche regole, imprenditori senza scrupoli, nessun rispetto per l'ambiente  (Letto 3049 volte)
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« inserito:: Agosto 16, 2007, 12:23:23 am »

ESTERI

Poche regole, imprenditori senza scrupoli, nessun rispetto per l'ambiente

L'Occidente non può più fare a meno dei prodotti low cost

L'ultimo scandalo del gigante asiatico

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


 PECHINO - Morire avvelenati dal made in China è l'ultima versione del "pericolo giallo", la più inquietante. È un crescendo di scandali per prodotti contraffatti, contaminati e nocivi. I milioni di Barbie e Batman ritirati dalla circolazione per la vernice al piombo che può intossicare i bambini occidentali (oltre che quelli asiatici, naturalmente) diventano il simbolo di una nuova paura cinese.

Prima era un dragone in grado di divorare interi settori industriali dei paesi ricchi, distruggendo posti di lavoro. Ora è in gioco un bene perfino più prezioso, la nostra salute e quella dei nostri figli. In questo passaggio avvenuto negli ultimi mesi c'è un salto di gravità nella percezione del rischio. Finché la superpotenza asiatica era "solo" un invincibile concorrente industriale, in Occidente si sentivano minacciati soprattutto i colletti blu, una classe operaia in declino, debole politicamente. Quando col made in China arrivano germi sulle nostre tavole o veleni nei giocattoli per bambini, nessuno è al riparo, anche i ceti medioalti avvertono il pericolo sulla propria pelle. E fanno bene ad avvertirlo perché il problema è reale.

Che qualcuno in America o in Europa abbia interesse a strumentalizzare gli allarmi per innalzare barriere protezionistiche, è francamente secondario. Neppure il governo di Pechino crede sul serio che siamo di fronte a una "montatura". Quello che sta accadendo è la dimostrazione - spettacolare e mostruosa - dell'impatto senza precedenti che l'ascesa cinese ha sulle nostre società. Un miliardo e 300 milioni di esseri umani fino a pochi decenni fa vivevano nell'isolamento e nella miseria: un povero gigante del Terzo mondo immobilizzato in un fallimentare esperimento comunista. Oggi la Repubblica popolare è il cuore industriale dell'economia globale, la fabbrica del pianeta, ormai l'unico produttore di molti beni essenziali della nostra vita quotidiana.

Quando una giornalista americana ha tentato di vivere per un anno senza mai comprare made in China, si è accorta che è impossibile, salvo regredire all'esistenza arcaica di Robinson Crusoe. In questa metamorfosi della società dei consumi, avvenuta a una velocità senza precedenti nella storia, ci sono le condizioni per un micidiale cortocircuito. La Cina porta con sé le urgenze di un paese dove ancora 700 milioni di abitanti delle campagne devono uscire dall'arretratezza; la produzione materiale è la sua priorità assoluta, a cui vengono sacrificati valori e vincoli. Le multinazionali occidentali vi hanno colto un'opportunità. L'immenso bacino di manodopera disciplinata, efficiente e a basso costo è diventato il nuovo "esercito di riserva" della forza lavoro mondiale.

La pressione competitiva cinese rimette in discussione conquiste che l'Occidente ha macinato in un secolo di storia, dai diritti sindacali alle tutele dei consumatori. È la logica implacabile di un'accumulazione primitiva che sembra essenziale per mantenere ritmi di sviluppo elevatissimi. Ogni anno dai dieci ai quindici milioni di contadini poveri si riversano nelle metropoli industriali cinesi. In questa fase molti di loro non chiedono aria pulita e neanche diritti. Si accontentano di un posto di lavoro nei cantieri edili e nelle fabbriche: garantisce comunque un tenore di vita molto superiore a quello delle campagne.

Denunciare adesso - di fronte al piombo nelle Barbie - un patto luciferino tra le nostre multinazionali e il nuovo impero cinese, è un'ingenuità. I consumatori occidentali hanno goduto vantaggi reali, il loro potere d'acquisto è stato innalzato, computer e telefonini sono ormai alla portata di tutti perché incorporano salari cinesi.
 
Scopriamo con orrore che i "terzisti" cinesi ingaggiati dalla Mattel, dalla Nokia o dalla Nike sono spesso pirati del capitalismo, criminali che non esitano a sacrificare vite umane per arricchire i loro conti offshore nei depositi esentasse di Hong Kong, Macao e Singapore.

Per rinfrescarci la memoria una buona lettura è il romanzo "The Jungle" dello scrittore americano Upton Sinclair. Uscito nel 1906, descriveva l'universo raccapricciante del "meatpacking" a Chicago, l'industria di trasformazione, conservazione e inscatolamento della carne.

L'America del primo Novecento non era meglio della Cina di oggi: una giungla, dominata dalla legge del più forte, senza rispetto per i lavoratori e ancor meno per i consumatori. Il problema è che oggi coesistono - nella stessa epoca e in un mondo dove le informazioni circolano istantaneamente - un gigante simile all'America del primo Novecento e anche l'America e l'Europa del XXI secolo. Vivendo in simbiosi con lei noi non siamo disposti a concedere tempo alla Cina. Non vogliamo aspettare che la sua evoluzione politica, civile e normativa richieda i decenni che sono stati necessari all'Occidente. In questo affiora il volto positivo della globalizzazione. L'integrazione e la dipendenza non sono a senso unico. Noi abbiamo bisogno della Cina per vestirci, lavorare, comunicare; centinaia di milioni di cinesi dipendono dai nostri mercati per garantirsi un futuro migliore.

Il vincolo è reciproco. Se i capitalisti cinesi intendono risparmiarsi un'ondata di protezionismo devono fare i conti con i nostri requisiti di qualità della vita. Anche questa è una storia già vista e per noi assai familiare. L'Italia non avrebbe le leggi attuali a difesa dei consumatori e dell'ambiente, se l'appartenenza al mercato comune europeo non ci avesse imposto di inseguire regole "tedesche", pena la perdita dei nostri sbocchi all'esportazione. Qui entra in gioco però una fondamentale diversità della Cina, il suo regime politico. Sulla carta Pechino ha leggi migliori di quel che si crede, sia per i controlli igienico-sanitari che per i diritti dei lavoratori.

Quelle leggi possono essere calpestate impunemente perché il capitalismo-pirata si allea con la nomenklatura comunista e la corrompe; la magistratura e la polizia sono subordinate al partito unico; i cittadini non hanno strumenti per reagire; i mezzi d'informazione hanno la museruola. La questione della democrazia non è una "ingerenza" occidentale, è il nodo che va sciolto perché la Cina diventi un partner pienamente affidabile e rassicurante. Il suicidio del boss dell'impresa Lee Der, colpevole di aver esportato giocattoli tossici, può diventare un sinistro presagio della sorte che toccherà un giorno al regime cinese, se si ostina a rifiutare le riforme politiche.

(15 agosto 2007) 

da repubblica.it
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