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Autore Discussione: Massimo Gaggi. Riforma sanitaria: primo test per Obama  (Letto 2493 volte)
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« inserito:: Novembre 08, 2008, 09:54:22 am »

L’America dopo il voto

Riforma sanitaria: primo test per Obama

«Difficile con la crisi, forse un rinvio»


NEW YORK —Stanley Ann Dunham, morta a 53 anni per un cancro alle ovaie, passò l’ultima parte della sua vita combattendo, più ancora che con la malattia che l’aveva colpita, con le assicurazioni private che le lesinavano le cure mediche più costose, che la costringevano a seguire procedure estenuanti, a compilare pacchi di moduli. È una storia comune a molti americani, soprattutto i malati cronici: le assicurazioni Usa pagano senza battere ciglio operazioni chirurgiche e trattamenti «una tantum», ma cercano di evitare come la peste i pazienti con patologie che richiedono terapie che vanno ripetute di frequente.

Ma Stanley Ann, scomparsa nel 1995, non era una donna qualsiasi: era la madre di Barack Obama. E lui, nei 21 mesi spesi nella campagna elettorale, ha raccontato la sua storia in tutte le piazze d’America: il suo modo di spiegare perché aveva deciso di mettere la riforma della sanità — insieme al piano di sviluppo di fonti energetiche alternative e non inquinanti—al centro del suo programma presidenziale. Il crollo finanziario degli ultimi due mesi, i «salvataggi» a raffica di banche, assicurazioni e imprese in crisi che hanno fatto impennare la spesa pubblica e il deficit, oggi rendono più difficile l’applicazione di una riforma che ha costi elevati: 65 miliardi di dollari secondo gli esperti di Obama, 100 o 110 secondo gli analisti indipendenti che hanno esaminato il progetto. Il presidente eletto tre giorni fa dagli americani ammette che l’emergenza economica potrebbe costringerlo a ridimensionare o rinviare a qualche parte del suo piano. Ma Obama non può certo rinunciare alla riforma sanitaria perché il sistema attuale, oltre a lasciare 45 milioni di cittadini (tra i quali ci sono ben 9 milioni di bambini) senza alcuna copertura sanitaria e a garantire a molti altri solo una tutela limitata, ha costi enormi: il 16 per cento del reddito nazionale, il 50 per cento in più di quanto spendono, in media, i Paesi europei o il Canada.

Certo, il sistema Usa ha anche i suoi vantaggi: liste d’attesa più brevi, molte strutture mediche d’eccellenza, ricerca avanzatissima. Ma i costi sono spaventosi e il sistema delle assicurazioni private — che in un mercato «perfetto » dovrebbe garantire più efficienza—in realtà funziona male e produce nuove burocrazie. I motivi sono essenzialmente due: da un lato il paziente non ha le conoscenze e la libertà di scelta necessarie per comportarsi da soggetto economico, da consumatore del mercato della sanità; dall’altro il mantenimento dei rapporti con decine di compagnie assicurative, ognuna delle quali ha le sue regole, i suoi standard di rimborso, la sua modulistica, obbliga ogni singolo medico a riempire il suo studio di schiere di segretarie ed esperti di pratiche amministrative. Se passerà, la riforma di Obama non cambierà radicalmente questa situazione: anche se soffrono per le disfunzioni del sistema, gli americani non vogliono sentir parlare di nazionalizzazioni.

E, d’altra parte, le assicurazioni sono società con centinaia di miliardi di dollari di capitalizzazione che rappresentano una parte centrale del sistema finanziario Usa e nelle quali milioni di investitori e molti fondi pensione hanno messo buona parte dei loro fondi, dei loro risparmi. Una riforma radicale del sistema era stata tentata nel 1993 da Hillary Clinton, un anno Casa Bianca. Fu il più grosso fallimento di quell’Amministrazione: il progetto di Hillary scatenò la reazione di lobby finanziarie potentissime che fecero affondare la riforma, crearono in Congresso un clima di ostilità nei confronti dei Clinton e aprirono la strada alla rivincita dei repubblicani che nel ’94 conquistarono la maggioranza in Parlamento, costringendo Bill nel ruolo di presidente «dimezzato ».

Meno ambiziosa, ma anche più praticabile, la riforma di Obama è costruita su tre pilastri: 1) allargamento dell’intervento del programma Medicaid (l’assistenza sanitaria per i poveri) in modo da coprire obbligatoriamente tutti i bambini e da garantire alle famiglie a basso reddito contributi e sgravi fiscali che consentano loro di acquistare una polizza a condizioni agevolate; 2) creazione del National Health Insurance Exchange con l’obiettivo di mettere insieme un «pool» di compagnie che, attratte dalle economie di scala della negoziazione collettiva di un gran numero di polizze, consentano alla famiglia americana media di risparmiare 2.500 dollari l’anno rispetto a quanto paga oggi; 3) divieto, per le compagnie, di rifiutarsi di assicurare cittadini che già soffrono di una malattia cronica (oggi la cosiddetta «pre-existing condition » viene invocata spessissimo dalle assicurazioni per rescindere i contratti con i malati che richiedono le cure più costose). Misure importanti, attorno alle quali Obama vuole costruire una politica di utilizzo capillare delle tecnologie informatiche, convinto che la «digitalizzazione» della sanità può far risparmiare decine di miliardi di dollari.

Durante la campagna elettorale il candidato democratico ha anche promesso di far sentire il suo fiato sul collo all’industria farmaceutica, da lui accusata di far pagare le medicine vendute negli Usa quasi il doppio rispetto ai prezzi praticati in Europa o in Canada. Ma, pur con tutti questi interventi, i tecnici indipendenti che a suo tempo hanno confrontato la «ricetta» sanitaria di Obama con quella degli altri candidati democratici e, più di recente, con quella del repubblicano Mc- Cain, hanno concluso che i suoi risultati saranno comunque limitati. Anche se partirà subito, la riforma del leader nero comincerà a produrre qualche risultato solo dal 2010. Da quell’anno al 2019 il numero dei cittadini privi di copertura dovrebbe progressivamente ridursi dagli attuali 45 a 26 milioni. Il costo complessivo per il «taxpayer» sarà di 1,7 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari in un arco di dieci anni. Un intervento di certo meno «statalista» di quello proposto da Hillary Clinton nel cui piano c’era la copertura sanitaria obbligatoria per tutti i cittadini, ma comunque più interventista della riforma diMcCain, tutta centrata su incentivi volti a rendere le assicurazioni più efficienti e a responsabilizzare i cittadini nel rapporto con le compagnie.

Curiosamente, però, proprio McCain, che fino a quattro giorni fa ha accusato Obama di voler «redistribuire» la ricchezza, fino al punto di soprannominarlo «redistributionist- in-chief», aveva formulato una proposta che, se applicata, avrebbe avuto effetti di redistribuzione del reddito più marcati di quella di Obama. Mentre il leader democratico manterrà intatto il sistema attuale nel quale molti datori di lavoro forniscono una polizza sanitaria ai loro dipendenti, McCain avrebbe, infatti, realizzato una piccola rivoluzione: avrebbe sostituito queste polizze—siano esse trattamenti da poche centinaia di dollari al mese per gli operai o le costosissime assicurazioni garantite, in totale esenzione d’imposta, a manager e banchieri—con uno sgravio fiscale annuo di 5.000 dollari, uguale per tutti.

Massimo Gaggi
08 novembre 2008

da corriere.it
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