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Autore Discussione: Un italiano di ieri, Fenaroli, ma anche un italiano di oggi  (Letto 2921 volte)
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« inserito:: Settembre 11, 2008, 08:54:21 am »

L’omicidio che divise l’Italia del boom

Giancarlo De Cataldo


«Un uomo sui cinquanta, cinquantacinque anni, piuttosto basso, semicalvo, tirato a lucido dalla barba del mattino di domenica eseguita con crema preparatoria, sapone americano e lozione aftershave, estremamente curati anche i baffi a spazzola, piuttosto spioventi in giù e freschissima, anche se un po’ cafona, l’eleganza complessiva con un completo grigio chiaro di fresco, mocassini neri e invece di camicia una maglietta nera assai accollata che dà, come si dice, un tono sportivo...». A un certo punto, una mattina d’estate del 1963, Dino Buzzati s’imbatte casualmente nel ragionier Giovanni Fenaroli.

Anche se nel bar «nuovissimo, tipicamente milanese» ci sono la cassiera e altri avventori, nessuno di costoro nota quel tipico rappresentante della rampante borghesia meneghina i cui fasti e nefasti stanno celebrando, in presa diretta, la grande commedia cinematografica e scrittori del calibro di Volponi, Mastronardi, Bianciardi. Il motivo è semplice. Quell’incontro non è mai avvenuto. Da oltre quattro anni Fenaroli è in galera, e da due sta scontando l’ergastolo che la Corte d’Assise di Roma gli ha inflitto come mandante dell’omicidio della moglie, Maria Martirano. Secondo la ricostruzione consacrata dagli atti giudiziari, Fenaroli, oberato dai debiti, avrebbe pagato un sicario, il giovane geometra Raoul Ghiani, conosciuto a casa della propria amante, per uccidere la moglie. Movente: il premio di una polizza sulla vita. E ora tutti e due, mandante ed esecutore, languono nelle patrie galere. Buzzati, dunque, incontra un fantasma: e infatti “Fantasma al bar” s’intitola il pezzo pubblicato dal Corriere della Sera del 3 agosto 1963, in una di quelle stagioni «morte» che anche i grandi giornali cercano di riempire con pezzi di colore affidati alle grandi penne del momento. Certo, se siamo ai «fantasmi» e alla prosa d’arte, questo significa che, a cinque anni da quella tragica notte tra il 10 e l’11 settembre 1958, l’eco del delitto di via Monaci - una stradina borghese non lontana dalla Nomentana e da Piazza Bologna - sta già svanendo. Eppure, almeno sino alla sentenza di primo grado in Italia non si è praticamente parlato d’altro. E, come sempre accade quando un delitto attrae spasmodicamente l’attenzione generale, l’opinione pubblica «si è divisa fra colpevolisti e innocentisti». Ma perché tanto interesse per una vicenda che, stando alla ricostruzione consacrata negli atti giudiziari, oscilla, al massimo, fra il sordido e il banale? Il fatto è che, fra i tanti delitti, anche efferati, che si commettono quotidianamente, soltanto alcuni scatenano passioni, generano divisioni, inducono inquietanti riflessioni. Accade quando, per la qualità personale dei protagonisti della vicenda, per le relazioni che intercorrono fra loro, o per il contesto sociale e culturale di riferimento, una questione privata cessa di essere tale e diviene l’emblema di qualcosa di diverso, di più profondo. Può trattarsi di una domanda sulla natura profonda dell’essere umano (può una madre uccidere? I nostri ragazzi sono «teneri assassini», o possono diventarlo? Esistono i «natural born killer»?) oppure, ad esempio, del fatto che il delitto diventa la spia più allarmante, e significativa, di una mutazione antropologica. Il delitto di via Monaci è il primo grande delitto dell’Italia del «boom». Il primo in cui la rapacità dell’individuo diventa sintomo dell’avidità di una classe emergente. Questo Fenaroli che si ferma al bar, elegante, improfumato, sicuro e contento di sé sino al limite della sfacciataggine; questo industrialotto che possiede una «magnifica» automobile «con la quale probabilmente andrà a prelevare qualche maschietta stimolante» è, nella fantasiosa, e quindi quanto mai realistica, descrizione di Buzzati, «la personificazione del miracolo economico», «l’ingenuo simbolo del boom». Buzzati non prova per lui l’antipatia che, durante la vicenda processuale, ha accomunato tanti osservatori. Il destino dell’uomo condannato all’ergastolo lo commuove. Ma, nello stesso tempo, percepisce lucidamente che dietro la facciata di autocompiacimento e di ostentazione c’è «qualcosa di sbagliato». E Fenaroli torna a essere l’antipatico, dunque assassino, per eccellenza. Perché, sì, l’opinione pubblica si divide. Ma con una significativa variante. Fenaroli è colpevole, Ghiani innocente. Dal punto di vista puramente logico, il paradosso è evidente. O il delitto quei due l’hanno architettato ed eseguito insieme, e dunque sono entrambi colpevoli, o sono tutti e due vittime di un colossale errore giudiziario, e dunque entrambi innocenti. Eppure, per i più, il mandante è colpevole, lo strangolatore innocente. Ghiani è un ragazzone ingenuo, ai confini della stolidità. È il marinaio Orson Welles della Signora di Shangai, trascinato suo malgrado in una torbida vicenda dalla sua «generosità», dalla sua «disponibilità». Fenaroli è il ricco mosso unicamente dall’avidità. È Alberto Sordi nel contemporaneo film Il vedovo, brillante «comedy-noir» nel quale Dino Risi racconta la parabola umana di un marito povero che cerca grottescamente di uccidere la ricca moglie dalla quale è angariato, una superba, graffiante Franca Valeri. D’altronde, non ha forse Fenaroli, nel corso del dibattimento, candidamente confessato di aver chiesto a un amico medico di sopprimere la Martirano con un’iniezione? «Scherzavo» si sarebbe giustificato al confronto. «L’avevo capito - avrebbe risposto l’amico medico - e non l’avevo capito. In ogni caso, ti dissi che non ero pronto all’uxoricidio».

Oscuri, eppure così potentemente «italiani», campi magnetici decretano il pollice verso per il cattivo Fenaroli, l’ansia di grazia per l’altro. È un fenomeno collettivo e trasversale. Se per tanti scrittori, registi, intellettuali, insomma, si tratta di intuire e di denunciare i potenziali disastri che il «boom» avrebbe arrecato all’Italietta colpita da improvviso benessere, al «bar dello sport» si respirano diffidenza e paura per il tumultuoso cambiamento in atto. Fenaroli ne è la maschera più immediatamente visibile: cambieremo così tanto? Diventeremo come lui? È un’Italia, a suo modo, ancora «resistente», quella che accoglie con una singolare soddisfazione il verdetto di condanna. Ben gli sta, a Fenaroli. E quanto a Ghiani, beh, povero figlio, poteva essere meno sprovveduto. E partita chiusa. Negli anni a venire, Fenaroli sarebbe morto in carcere, Ghiani, graziato dal Presidente Pertini, si sarebbe rifatto una vita nell’anonimato. Tutti e due comunque avrebbero continuato a proclamarsi innocenti. Il dibattito sulla verità dei fatti sarebbe rimasto patrimonio di pochi appassionati. Il movente era fragile, perché il premio assicurativo non poteva essere riscosso. Sì, ma non era detto che Fenaroli lo sapesse. I gioielli vengono fatti ritrovare due anni dopo il fattaccio in luogo già ampiamente perquisito. Mah, è successo altre volte, si vede che questa nuova perquisizione è stata più accurata. E via dicendo. Però. Però se c’è un Paese al mondo nel quale la partita non è mai veramente chiusa, quello è l’Italia. Le tardive rivelazioni di un ex-agente dei Servizi Segreti muovono, in anni recenti, un’altra grande firma, quella di Antonio Padellaro. Che ripropone uno scenario alternativo, molto diverso dall’originale e, nello stesso tempo, ormai familiare ai più smaliziati osservatori del contemporaneo. Fenaroli e Ghiani vittime di una macchinazione. Fenaroli che mette casualmente le mani su carte compromettenti e cerca di ricattare, d’intesa con la Martirano, un’altissima carica dello Stato. Marito e moglie che tirano troppo sul prezzo. L’intervento del Sifar del Generale De Lorenzo. Un killer di Stato che fa il lavoro sporco, e due innocenti (uno, per la verità, solo in parte tale) che pagano per tutti. Che i nostrani Servizi siano stati maestri di depistaggio è storia nota: basta rileggersi la relazione del Copaco del 1995 per farsi una salutare immersione nella «zona grigia» della nostra recente storia patria. Ed è altrettanto noto come, dietro l’apparenza di un’italianissima «bonomia», nei nostri Servizi abbiano agito, nel bene e nel male, fior di professionisti. E anche se la condotta processuale di Fenaroli lascia adito a molti dubbi - se sapeva, perché non adottò questa linea difensiva? - la tenuta dello scenario e le non poche zone d’ombra della vecchia istruttoria potrebbero rendere credibile questa nuova ricostruzione.

Fenaroli, in ogni caso, non potrà più né confermare né smentire. A ben vedere, il ritratto fantasmatico che ne fa Buzzati è la sola, autentica testimonianza che ci resta di un uomo e della sua epoca. Un italiano di ieri, Fenaroli, ma anche un italiano di oggi. Persino nell’abbigliamento, in quell’eleganza un po’ cafona tornata prepotentemente di moda come tutto ciò che sa di anni Cinquanta. Basta aggiornare il modello della fuoriserie e sostituire una qualsiasi aspirante attricetta alla «maschietta» di Buzzati, e il gioco è fatto. Fenaroli, italiano di sempre. Con l’ostentazione e l’autocompiacimento a mascherare i «buffi», e nella faretra le eterne risorse dell’audacia e del «bluff». Fenaroli, fantasma eterno. Tipi come lui l’Italia ha smesso da un pezzo di temerli. E loro hanno cambiato l’Italia.


Pubblicato il: 10.09.08
Modificato il: 10.09.08 alle ore 9.57   
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