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Autore Discussione: ALFIO CARUSO Il Paese dei misteri irrisolti  (Letto 2660 volte)
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« inserito:: Agosto 11, 2008, 10:27:24 am »

11/8/2008
 
Il Paese dei misteri irrisolti
 
ALFIO CARUSO

 
Anche quest’anno la ricorrenza dell’attentato alla stazione di Bologna ha riproposto la fondamentale domanda: ma i veri responsabili sono stati individuati? Parafrasando il celeberrimo articolo di Tommaso Besozzi sull’uccisione di Giuliano, si potrebbe scrivere a proposito della strage di Bologna: una sola cosa è certa, Mambro e Fioravanti non sono i colpevoli. E non deve stupire che entrambi siano stati condannati con sentenza definitiva. La caratteristica, infatti, dei misteri italiani è di rimanere tali anche nei pochissimi casi in cui si è approdati a una verità giudiziaria. Abbiamo il discutibile privilegio di vivere nel Paese che non è riuscito a sciogliere un solo nodo dei mille che hanno inceppato la cronaca e la storia dal pomeriggio di Cassibile (3 settembre 1943), allorché un gruppetto di ufficiali legati alla massoneria firmò l’armistizio con gli angloamericani. E quando il comune sentire e una massa impressionante di coincidenze, di riscontri, di testimonianze hanno dato l’illusione di essere a un passo dalla soluzione, come nell’ultimo processo su piazza Fontana, sono intervenuti i giudici togati a spiegare che c’eravamo sbagliati, che in questo caso novantanove indizi non costituivano una prova.

A dispetto d’inchieste, di processi, di commissioni parlamentari ignoriamo i mandanti delle stragi di Portella delle Ginestre, di piazza Fontana, di piazza della Loggia, di Ustica, della stazione di Bologna, di Ciaculli. Ignoriamo chi e che cosa ci siano dietro la morte di Mattei, di De Mauro, di Rostagno, di Dalla Chiesa, di papa Luciani. Ignoriamo il ruolo preciso dell’istituto parigino Hyperion nel guidare la strategia della tensione, la sua funzione sulla scacchiera internazionale, il suo grado d’incidenza sulle Brigate Rosse. Tutti sappiamo che Falcone e Borsellino sono stati fatti saltare per aria dai corleonesi, ma nessuno è mai riuscito a chiarire il grumo d’interessi finanziari-politici a monte delle due carneficine. A sedici anni di distanza stiamo ancora a interrogarci su quale fine abbiano fatto i files di Falcone e l’agenda rossa di Borsellino.

Viene difesa con i denti la ricostruzione dell’agguato di via Fani prospettata da Moretti e Morucci, malgrado Renzo Martinelli con il film Piazza delle Cinque Lune abbia chiaramente dimostrato che fa acqua da tutte le parti; che quel giorno a sterminare la scorta di Moro fu probabilmente il misterioso killer sul marciapiede di destra e non gli sprovveduti brigatisti balzati fuori dal lato opposto; che la presenza della Honda con i due sconosciuti motociclisti è determinante. Moretti ha scritto e ripetuto in tribunale di aver dovuto azionare anche il freno a mano della Fiat 128 per bloccare i violenti e reiterati tentativi della Fiat 130, con a bordo Moro, di speronarla e uscire dalla trappola. Tuttavia nell’unica foto esistente a livello dell’asfalto, di proprietà del senatore Flamigni, il posteriore della 128 è intatto e intatti sono pure i fari antinebbia della 130.

Nell’Italia costretta per mezzo secolo a ospitare la più calda delle guerre fredde, l’accertamento della verità ha fatto più paura delle tanti leggi calpestate per non assicurare i responsabili alla giustizia. Si è convissuto con il Male nella discutibile certezza di avere così evitato il Peggio. Eppure sarebbe importante appurare se le tante vittime di Portella delle Ginestre e di Piazza Fontana siano dovute anche all’ignoranza di Giuliano nell’interpretare il bigliettino e all’imperizia di chi regolò il timer. Viceversa dal 30 giugno 1963 l’inesistente società civile accetta che i cinque carabinieri e i due artificieri polverizzati dal quintale di tritolo, nascosto nella Giulietta abbandonata a Ciaculli, siano rimasti vittime della loro sbadataggine. Fu la prima strage figlia del patto scellerato fra mafia, politica e finanza. Mandanti e autori non hanno evitato solo il carcere, ma anche i fastidi di un’indagine, di un sospetto, di un interrogatorio. Dopo i funerali pubblici trasmessi in diretta tv, volarono gli abituali stracci, un po’ di uomini del disonore furono spediti in villeggiatura alle Eolie, altri scapparono negli Stati Uniti, per il resto, però, buonanotte ai suonatori. Benché il tenente Mario Malausa, attirato assieme ai suoi carabinieri nei pressi dell’auto, avesse inoltrato alla procura di Palermo due rapporti nei quali, per la prima volta, venivano individuate le connivenze che avevano prodotto il sacco di Palermo, venivano esplicitati i nomi e cognomi dei politici che si erano fatti mafiosi e dei mafiosi che si erano fatti politici. Con vent’anni di anticipo su Buscetta si sarebbe potuto capire. Ma, evidentemente, nessuno all’epoca aveva voglia di capire.
 
da lastampa.it
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